ALLA SCOPERTA DEI MONUMENTI DI TORINO
Il re, dopo aver scartato un primo progetto nel quale Emanuele Filiberto a cavallo scavalca una palizzata, approvò, invece, un bozzetto di un ritratto equestre del Duca poggiante su un basamento, arricchito da quattro figure allegoriche sotto le quali trovavano posto quattro grandi vasche per altrettante fontane
Situata al centro della piazza, la statua in bronzo (detta Caval ‘ d brons) raffigura il Duca Emanuele Filiberto a cavallo, nell’atto di rinfoderare la spada dopo la battaglia di San Quintino (1557). Il basamento in granito è ornato su ogni lato dallo stemma sabaudo con la corona ducale e da due bassorilievi in bronzo che rappresentano il Duca mentre fa prigioniero il Montmorency, Gran Connestabile di Francia, e mentre legge i preliminari di pace per il trattato di Cateau-Cambrésis. L’annuncio ufficiale della realizzazione del monumento dedicato a Emanuele Filiberto di Savoia fu dato il 17 dicembre 1831 dalla Gazzetta Piemontese. L’opera venne commissionata da Carlo Alberto all’artista Carlo Marocchetti (stesso autore del monumento dedicato a Carlo Alberto), torinese di nascita ma formatosi in Francia dove risiedeva abitualmente. Il re, dopo aver scartato un primo progetto nel quale Emanuele Filiberto a cavallo scavalca una palizzata, approvò, invece, un bozzetto di un ritratto equestre del Duca poggiante su un basamento, arricchito da quattro figure allegoriche sotto le quali trovavano posto quattro grandi vasche per altrettante fontane. Prima di dare esecuzione al progetto lo scultore Carlo Marocchetti decise di erigere “un non intiero simulacro del monumento al centro della magnifica piazza”; una curiosa prova generale a cui assistette con grande soddisfazione anche “Sua Maestà con un corteggio di autorità”. Ma, pochi mesi dopo la simulazione in piazza, cominciò a circolare a Torino un opuscolo con “Osservazioni relative al Gran monumento” che condannò quasi per intero l’opera. La critica sortì il suo effetto e così un decreto del 24 settembre 1833, stabilì i fondi di L. 210.000 per una “statua equestre in bronzo, collocata sopra un piedistallo circondato da quattro statue allegoriche, il tutto in marmo”; scomparirono definitivamente le
fontane. Nonostante le modifiche all’impianto monumentale le polemiche non si placarono, in particolare il critico francese Jean-Paul Ducros rimproverava che le quattro statue agli angoli del basamento apparivano “troppo simmetriche per essere considerate ornamenti architettonici”. Dopo innumerevoli contrasti tra Ducros e Marocchetti, la questione si concluse con l’approvazione, da parte dell’Accademia delle Belle Arti, del disegno originariamente concepito dallo scultore. Finalmente, dopo essere stato esposto per due mesi e con grande successo nel cortile del Louvre, il 4 novembre 1838 il monumento venne solennemente inaugurato. Carlo Alberto fu pienamente soddisfatto del monumento ed il Marocchetti ebbe il titolo di barone con in dono un gioiello di gran valore mentre, il fonditore Soyer, ricevette una medaglia d’oro con l’effigie del re. Un’opera, questa, considerata oltre che il capolavoro del Marocchetti, anche uno dei più significativi esempi
di politica culturale di Carlo Alberto che, per celebrare l’avvento del suo regno, decise di erigere il primo monumento pubblico all’aperto dedicandolo al Duca Emanuele Filiberto. Dopo due rimozioni, nel 1943 per proteggerlo dai bombardamenti e nel 1979 per restaurarlo, nel 2006 sono inziati i lavori per un accurato restauro e nell’ottobre 2007, tolto il drappo rosso che lo copriva, i cittadini, che attendevano numerosi in piazza San Carlo, hanno potuto finalmente rivederlo. Il monumento, identificato con l’affettuoso nomignolo di “Caval ‘ d brons”, è ormai riconosciuto come uno dei simboli della città di Torino. Ma per poter conoscere il monumento equestre nella sua totalità bisogna anche tenere conto e “spendere qualche parola” per la magnifica piazza che lo ospita. Come ricordato prima, l’opera di Marocchetti a Emanuele Filiberto di Savoia, sorge nel mezzo della centralissima piazza San Carlo, uno spazio progettato da Carlo Castellamonte nel 1637 su un sito occupato prima dall’anfiteatro romano, poi da un tratto delle mura e della spianata della città cinquecentesca. La realizzazione si concluse nel 1650 e divenne il punto nodale del primo ampliamento meridionale della città seicentesca; divenne anche sede di spettacoli grandiosi, manifestazioni ufficiali e parate e la sua prima denominazione fu Place Royale. La realizzazione della piazza, impostata sull’asse della Contrada Nuova (oggi via
Roma), rese necessaria prima la demolizione delle vecchie strutture fortificate, ed in seguito la delimitazione del contorno da un sistema di palazzi barocchi porticati, caratterizzati da eleganti facciate unitarie e continue.Per chiudere il lato meridionale vennero progettati i due lotti gemelli, donati, poi in seguito, ad ordini religiosi di stretta protezione ducale: gli Agostiniani Scalzi che fondarono la chiesa e il convento di S. Carlo Borromeo e le Carmelitane Scalze che costruirono la chiesa e il convento di Santa Cristina. Nel corso del tempo, a causa dei progressivi frazionamenti delle proprietà e dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, gli edifici originari sono in gran parte andati distrutti e sono stati ricostruiti nel dopoguerra.Fino al 2004, la piazza è stata percorribile dal traffico veicolare e occupata in prevalenza dalle auto in sosta. Con gli interventi di riqualificazione dell’area centrale storica, è stato restituito a piazza San Carlo il suo ruolo da protagonista nello straordinario scenario della Torino Barocca. Il progetto di riqualificazione ha riportato la piazza al suo originario uso esclusivamente pedonale, mantenendo nella pavimentazione il disegno e i materiali esistenti in precedenza. Sperando che questo “tuffo nel passato per conoscere il presente” sia stato di vostro gradimento, Il Torinese vi da appuntamento alla prossima settimana alla scoperta di un’altra meraviglia di Torino.
Simona Pili Stella
(Foto: il Torinese)





Il primo fatidico “11 settembre” si combatté sulle rive del Tibisco: a Zenta, nei pressi del Danubio, in terra ungherese, fu fermata l’avanzata dell’esercito ottomano in Europa che dopo la disfatta epocale davanti alle mura di Vienna nel 1683 aveva riconquistato Belgrado nell’ottobre del 1690 e minacciava nuovamente l’Ungheria
tuttavia si scrivono poderosi libri su Vienna e non si parla mai della vittoria di Zenta che pose fine alla minaccia turca per l’Europa cristiana esaltando la fama di Eugenio come uno dei più abili generali e strateghi del suo tempo. Sulle sponde del Danubio gli ottomani sconfitti furono costretti ad accettare le condizioni del trattato di pace di Karlowitz del 26 gennaio 1699, il primo trattato imposto ai turchi dalle potenze cristiane. L’imperatore d’Asburgo riprese gran parte dell’Ungheria, abbattendo il vessillo della Mezzaluna dopo 150 anni di dominio, e la Transilvania mentre Venezia prendeva possesso della Morea e della Dalmazia. Nei saloni dei suoi Palazzi viennesi il Principe si aggiornava sui movimenti dei turchi nei Balcani e passava in rassegna le proprie truppe, la fanteria, i dragoni a cavallo, gli ussari d’assalto. Si preparava a un nuovo scontro con i turchi di cui non si fidava. Li conosceva bene, li aveva già combattuti e sconfitti in Austria e in Ungheria. Il sultano Mustafà II era partito da Belgrado al comando di 100.000 uomini, un esercito immenso composto da giannizzeri, cavalleria, artiglieri, seguiti da una moltitudine di artigiani, cuochi, giocolieri, donne dell’harem ed eunuchi. Non si conosceva la direzione dell’armata turca.
Soltanto il 7 settembre Eugenio venne a sapere da un pascià disertore che il sultano aveva raggiunto il fiume Tibisco vicino al villaggio di Zenta allestendo in gran fretta un ponte di sessanta barche per farvi transitare il suo esercito diretto verso Temesvàr (Timisoara) e la Transilvania. Eugenio di Savoia era diventato solo un mese prima, nell’agosto 1697, comandante dell’esercito imperiale austriaco. Nel pomeriggio dell’11 settembre una parte della cavalleria turca aveva già guadato il fiume ma il grosso dell’esercito era rimasto sull’altra sponda formando un semicerchio intorno al ponte con trincee, depositi di armi e viveri e fortificazioni che però non ebbe il tempo di completare. Il principe Eugenio era ancora lontano dal fiume ma i suoi messaggeri lo aggiornarono in breve tempo sui piani dei turchi. L’occasione per attaccarli era troppo favorevole. Non perse tempo e ordinò ai suoi uomini di avanzare e dopo una lunga estenuante marcia arrivò nei pressi del fiume. Il Principe era raggiante: i turchi erano davanti a lui, sulla sponda occidentale del Tibisco, circondati dalla sua cavalleria. Lanciò i dragoni imperiali all’assalto gettando nello scompiglio il campo turco, al di qua del Tibisco, dove si trovava il grosso delle truppe nemiche. Gli ottomani furono travolti e sbaragliati dalla furia degli austriaci. I giannizzeri, il corpo d’elite dell’esercito della Mezzaluna, attaccati da ogni parte si
difesero fino all’ultimo con armi da fuoco e scimitarre per poi darsi alla fuga che si trasformò presto in un massacro. Molti soldati turchi furono uccisi sul ponte e tanti altri morirono annegati nel fiume rosso di sangue. Galleggiavano così tanti corpi che, scrisse Eugenio nel suo diario di battaglia, “i suoi soldati potevano stare in piedi sui cadaveri dei turchi come su un’isola”. L’esercito sultaniale cadde sotto il fuoco dei cannoni imperiali e fu distrutto. Quindicimila uomini morirono combattendo e altri 10.000 annegarono nel Tibisco. Poche centinaia si misero in salvo sulla riva orientale del fiume tra cui il sultano che evitò di essere catturato e fuggì con un manipolo di fedelissimi verso Temesvàr. Il gran visir e alcuni governatori della Bosnia e dell’Anatolia insieme a numerosi ufficiali furono uccisi. In campo austriaco si contarono appena 400 morti e un migliaio di feriti. Anche il bottino catturato era favoloso e comprendeva migliaia di carri, almeno 20.000 cammelli e 800 cavalli, 400 bandiere, denaro e armi in gran quantità. Tra i trofei finiti nelle mani dei vincitori c’era anche il sigillo del sultano (il Tughra, in turco-ottomano) che il gran visir portava al collo come segno della sua autorità. Eugenio lo raccolse nella polvere insanguinata della battaglia, tra destrieri caduti sul terreno, soldati morti o feriti e armi abbandonate, e oggi si trova nel Museo viennese di storia militare. I combattimenti cessarono nella tarda serata, “come se, scrisse il feldmaresciallo all’imperatore, il sole non avesse voluto tramontare prima di aver assistito al completo trionfo delle gloriose armi di Vostra Maestà Imperiale”. L’apoteosi delle gesta del principe
Eugenio emerge in tutto il suo fulgore nei palazzi e nei giardini viennesi, come il Belvedere, decorati con allegorie che celebrano le sue grandiose battaglie contro i turchi. Dopo l’11 settembre di Zenta la potenza della Mezzaluna decadde in Europa anche se i sultani del Bosforo rimasero una minaccia costante sia a est che a Occidente e l’esercito ottomano era ancora, per le sue dimensioni, la più grande armata d’Europa, un nemico eccezionale. Un dubbio tuttavia resta nei pensieri e nelle analisi degli storici a oltre tre secoli di distanza: la fama di Zenta e delle altre vittorie contro il feroce Turco erano davvero merito esclusivo di Eugenio e delle sue truppe imperiali o sono da imputare anche agli errori tattici dei turchi sul campo di battaglia e al logoramento della loro forza militare. Forse la verità sta nel mezzo ma ciò non toglie, come ha scritto Joseph von Hammer, il principale studioso dell’Impero ottomano, che “la battaglia di Zenta diede all’impero asburgico la vittoria definitiva e determinò irrevocabilmente il declino di quello ottomano”. Ma la guerra del Prinz sabaudo e dell’imperatore Leopoldo I contro i turchi continuò, restava da riconquistare Belgrado, ancora in mano al sultano. L’11 settembre di tre secoli fa era stata vinta a Zenta una battaglia molto importante ma non definitiva perchè una parte dell’esercito turco era riuscito a mettersi in salvo. Il grande “scontro di civiltà” era destinato a non tramontare.