“Disagi e Disturbi Mentali: Viaggio nella Psichiatria tra Umanità e Controversie”

  
Dopo cinque anni, il Dott. Pino Luciano torna sugli scaffali con “Disagi e disturbi mentali ieri, oggi e domani” (Franco Angeli Editore), un saggio lucido e appassionato che ripercorre l’evoluzione della legislazione psichiatrica italiana e il suo impatto sulla società.
Al centro del libro, la storica Legge 180 del 1978, che sancì la chiusura dei manicomi, rivoluzionando il trattamento dei disturbi mentali e ponendo l’Italia all’avanguardia nella tutela dei diritti umani. Un cambiamento profondo, che il Presidente della Repubblica ha definito “una svolta di civiltà”.
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Dottor Luciano, perché la Legge 180 è considerata così rivoluzionaria?

Perché ha cambiato radicalmente il nostro approccio verso le persone con disturbi mentali. Fino a quel momento, bastava un comportamento considerato “anormale” per finire in manicomio, spesso per tutta la vita. La legge ha messo fine a questa pratica, chiudendo le strutture e promuovendo cure più umane, fondate sulla prevenzione e sul reinserimento sociale. È stato un cambiamento epocale, che ha visto l’Italia tra i pionieri in questo campo.

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È stata una svolta solo italiana?
No, la questione dei diritti umani è globale, ma l’Italia è stata tra le prime a intraprendere questo percorso. Dopo la Seconda guerra mondiale, il mondo intero ha iniziato a riflettere sui diritti umani, specialmente dopo gli orrori del nazifascismo. La Legge 180 è figlia di questo risveglio culturale e civile. È stata una mossa in anticipo sui tempi, che ha portato l’Italia a un nuovo standard di civiltà, come ha sottolineato anche il Presidente della Repubblica nel recente anniversario della legge.
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Cosa c’era prima della Legge 180?

Gli ospedali psichiatrici erano luoghi di segregazione e degradazione, più che di cura e riabilitazione. La psichiatria somigliava più a una punizione che a un trattamento. I manicomi non erano spazi di guarigione, ma di isolamento. Le persone venivano internate, legate, private di ogni diritto. Era facile finire in una sezione chiamata “furia” solo per aver espresso disagio o rabbia.

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E la medicina, cosa faceva?
All’inizio, poco o nulla. La psichiatria veniva spesso utilizzata come una giustificazione per l’emarginazione. Si finiva internati per “pubblico scandalo”: bastava vivere sotto un portico o comportarsi in modo considerato inaccettabile. Era uno stigma sociale, non una diagnosi clinica.
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Quando si è iniziato a cambiare davvero?
I primi segnali di cambiamento sono arrivati nel 1968, con l’introduzione del ricovero volontario. Ma la vera svolta è arrivata nel 1978, con la Legge 180: da quel momento, il termine “internamento” è stato sostituito con concetti come cura, prevenzione e servizi territoriali integrati nel Sistema Sanitario Nazionale.
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Un cambiamento sanitario o anche culturale?
Profondamente culturale. La Legge 180 ha trasformato la concezione stessa di malattia mentale, spostando l’attenzione dalla “devianza” alla persona. È stato il primo passo verso una psichiatria che vede la fragilità umana e non solo la patologia. Da allora, sono nati servizi sociali, centri di salute mentale e percorsi riabilitativi che mettono al centro la persona e non la sua malattia.
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E oggi? C’è ancora qualcosa da fare?
Molto. Le malattie mentali non sono solo il risultato di fattori genetici, ma anche di fattori psicopatogeni legati alla cultura, alla società e alle relazioni familiari, scolastiche e lavorative. La prevenzione primaria dovrebbe intervenire su questi fattori sociali e culturali, ma i servizi di salute mentale attivati dalla Legge 180 fanno ancora molto poco in questo senso. Inoltre, la prevenzione secondaria, che consiste nella diagnosi e cura precoce, è insufficiente. Lo stesso vale per la prevenzione terziaria, che cerca di evitare le ricadute nei pazienti che hanno recuperato lo stato di salute mentale.

Quali sono, secondo lei, gli aspetti più critici di questa legge?
La nuova legislazione ha mantenuto alcuni aspetti segregativi della psichiatria, come il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio). L’imposizione forzata non è mai la soluzione ideale. È fondamentale instaurare una connessione con il paziente, piuttosto che ricorrere al trattamento coattivo, che può portare a problemi gravi, talvolta violenti. Se si riesce a mantenere un buon rapporto, il paziente si presenterà volontariamente per i controlli. Il punto cruciale è l’alleanza terapeutica: non è sempre facile, ma è essenziale per il percorso di cura. Questi pazienti non sono pericolosi, e la perdita della loro libertà è un’ingiustizia rispetto alla loro reale condizione. Inoltre, c’è una dimensione ideologica che non può essere ignorata: l’introduzione della comunità terapeutica. Spesso viene vista come un “nuovo manicomio”, ma la vera differenza sta nel fatto che nella comunità terapeutica le persone non solo ricevono supporto, ma partecipano attivamente alla gestione della struttura. Si confrontano, litigano e imparano a gestire la loro conflittualità. Quando abbiamo trasformato il nostro reparto in una comunità terapeutica, seguendo le raccomandazioni dell’ONU, non è stato facile. Ci voleva un piano d’azione concreto, con obiettivi chiari, risorse adeguate e tempi definiti. Come diceva Antoine de Saint-Exupéry, “senza un piano, gli obiettivi rimangono semplici desideri”. Il problema è che ogni regione ha interpretato la legge a modo suo, senza una visione unitaria.
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E l’aspetto positivo della legge?
Innegabilmente, la Legge 180 ha restituito la libertà a migliaia di persone che un tempo erano segregate negli ospedali psichiatrici. A Torino, negli anni ’70 e ’80, quando l’immigrazione si era fermata, molti cittadini si sono mostrati disposti ad accogliere coloro che erano stati confinati in queste strutture. È stato un segno di grande apertura sociale.
C’è stata una crescente attenzione verso la psicologia e l’analisi introspettiva.
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La salute mentale è diventata una priorità. Alla luce della sua esperienza, cosa ne pensa?
È sicuramente una cosa positiva. Tuttavia, l’introspezione fatta da soli, senza un supporto esterno, può risultare difficile. Spesso non siamo in grado di cogliere la profondità della nostra sofferenza senza una prospettiva esterna. È importante avere uno sguardo oggettivo, che non provenga solo dal digitale o dai social, ma da una figura competente come uno psicoterapeuta. L’approccio psicologico è positivo, ma bisogna capire come le persone vengano effettivamente supportate in questo processo. Spesso, ciò che sembra una “scoperta di sé” può rivelarsi l’appropriazione di un’identità falsa, quella che la società o lo stesso terapeuta ci impongono. In realtà, lo psicoterapeuta non è una guida, ma un osservatore che aiuta il paziente a intraprendere il proprio cammino.
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Esiste un modo per arrivare alla vera conoscenza di sé?
Per arrivare alla vera conoscenza di sé, è necessaria una forte motivazione. Si tratta di un cammino che, spesso, richiede di affrontare aspetti dolorosi e difficili di noi stessi. È fondamentale avere un professionista che ci aiuti a superare questi ostacoli. Ma lo psicoterapeuta non deve essere troppo direttivo; deve essere una figura con cui “contrattare” insieme, per trovare la via migliore nel processo di autoconoscenza.
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VALERIA ROMBOLA’
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