libri

“Temporale” di Andrea Ferraris, un biopic corale

Come in  ” Certe notti” la canzone di Ligabue il personaggio io-narrante Mario, «prima o poi» si ritroverà al bar, a raccontare agli avventori della sua avventura “extraterrestre”. Così Andrea Ferraris, nella sua ultima graphic novel intitolata “Temporale” (Oblomov ,134 pgg , €. 20), traccia l’ Amarcord della sua adolescenza attraverso quindici capitoli, pensati come altrettanti brani di un album di canzoni folk , a commento di altrettante vicende narrate nel testo. Vissute in parte in prima persona, in parte tratte dal racconto popolare.

Un disegnatore a fumetti, ripensatosi etnografo, nella sua opera più matura, onirica e filosofica, a tratti felliniana. Si è detto influenzato da Tom Waits e da Vinicio Capossela e il suo racconto si snoda disegnato in chiaro scuro e colorato dalle splendide tinte, della moglie Daniela Mastrorilli, da sempre sua collaboratrice e musa ispiratrice. La narrazione si configura come un ‘biopic corale’, attraverso quelle voci che gli etnologi chiamano ‘informatori informali’. Persone delle campagne, agricoltori, operai, vari perdigiorno, incontrati nei bar, lungo le strade, nei luoghi di aggregazione, in quella road life che Jack Kerouac nel suo “On the road” dice di essere la strada.

Prende in considerazione i concetti di destino oppositore, il senso dell’inazione contemplativa, la dimensione onirica del paesaggio, i tic e le nevrosi di quella società, crocevia del mondo contadino e di quello urbanizzato industriale, dove si fondono in un ‘unicum’ i più radicati e meno evidenti contrasti culturali e di classe. Spok, Sara, il bomba, Keegan, la rumba sotto la luna, Pongo e altri comprimari rimangono personaggi indimenticabili. Ferraris sa per se stesso e per gli altri, di chi può pretendere di parlare, quando parla di quelli con cui ha parlato. Ha condiviso gioie, ha sofferto, ha in sintesi vissuto in modo immersivo con loro e tra loro, trasferendo tutto questo al lettore, nei balloons, nelle immagini. Ha tracciato una linea divisoria tra luogo e non luogo (Marc Augè) nei ricordi di una generazione. E ha ricostruito in parte il suo e il nostro immaginario collettivo degli anni ottanta. Quello di una generazione di vite straordinarie di uomini comuni.

Aldo Colonna

“L’alchimista della Laguna”, il thriller storico di Lanzotti nella Venezia del ‘700

Informazione promozionale

Venezia, ottobre 1753. I demoni non sono gli avversari che Marco Leon è solito affrontare. Ma questa volta, il caso che gli viene proposto sembra proprio odorare di zolfo.

In una villa lungo la Riviera del Brenta – il luogo di villeggiatura preferito dai patrizi veneziani – muore un giovane nobilhomo di nome Enrico Albrizi. La morte è avvenuta in un luogo chiuso dall’interno. Apparentemente, quindi, si tratta di suicidio. Ma alcune circostanze fanno sospettare che il giovane, in realtà, sia rimasto vittima di una cerimonia satanica. L’inquisitore Alvise Benedetto Geminiani si trova alla villa e decide di far intervenire Marco, il suo uomo più fidato.

Nel frattempo, a Venezia, Leon s’imbatte quasi casualmente in una serie di strani disegni erotici. I disegni sono particolari e attraggono la sua attenzione. Decide quindi d’indagare. Ma la chiamata di Geminiani, che lo convoca a villa Zulian – il luogo in cui è morto Enrico Albrizi – lo costringe a lasciare il caso nelle mani dei suoi Angeli Neri e recarsi in Riviera, dopo lo attenderanno altri delitti e misteri che sembrano volerlo portare lontano. Forse addirittura oltre i confini del mondo terreno.

 

“L’alchimista della laguna” 

E’ il quarto volume di una serie, iniziata nel 2021, che vede come protagonista l’agente dell’Inquisizione di Stato Marco Leon, giovane patrizio decaduto, in una Serenissima, ormai al tramonto, che sta vivendo gli ultimi decenni della sua vita. Ad affiancarlo, gli Angeli Neri – un gruppo di agenti segreti, la cui esistenza è conosciuta da pochissimi –, il nobilhomo Alvise Geminiani e lady Marion Bentham Bell, la giovane inglese di cui Marco è segretamente innamorato. Un gruppo composito e variegato, alle prese con una serie di traversie che li porteranno da Venezia alle ville patrizie sul Brenta e che avranno ripercussioni anche sulla vita privata di alcuni di loro.

 

 

L’autore

Paolo Lanzotti è nato a Venezia nel 1952 e si è laureato in filosofia all’università di Padova. È stato per diversi anni insegnante di filosofia e poi d’italiano e storia, affiancando al suo lavoro anche un’attività di pubblicista. Ha scritto numerosi romanzi, pubblicati da editori quali Piemme, Mondadori e Tre60. Alcuni dei suoi lavori sono stati tradotti e pubblicati all’estero. Ha vinto dei premi letterari di livello nazionale, tra cui il premio Città di Verbania, del Battello a Vapore, nel 1997, e più recentemente il premio Tedeschi, del Giallo Mondadori, nel 2016. Vive e lavora tra Venezia e Padova.

 

Contatti

Pagina FB – www.facebook.com/paololanzottiscrittore/

L’isola del libro

RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA

 

 

 

 

Dörte Hansen “Al mare” -Fazi Editore- euro 18,50

E’ il terzo romanzo della scrittrice tedesca nata nel 1964 in un paese vicino a Husum, nella Frisia settentrionale; autrice poliedrica che ha studiato all’Università di Amburgo svariate lingue (incluse gaelico, finlandese e basco) conseguendo un dottorato in Linguistica. Inoltre ha lavorato come autrice per la radio e la stampa.

Al mare” è un romanzo che fa venire voglia di andare alla scoperta del Mare del Nord, tanto è perfetto il clima magnifico, maestoso e struggente descritto in queste pagine. Raccontano il microcosmo di una piccola isola e i suoi abitanti che da secoli sfidano il grande gelo e le tempeste del mare. Lì non è possibile avere segreti, tutti si conoscono da generazioni e sanno ogni cosa l’uno dell’altro.

In particolare scopriamo la famiglia Sander che sull’isola vive da almeno trecento anni, nella casa diventata un prezioso scrigno di ricordi, cimeli e memorie di tanti uomini di mare.

Hanne Sander sull’isola ha cresciuto da sola i tre figli, dopo essere stata abbandonata dal marito Jens. Donna attivissima e indomita che coglie al volo l’occasione del progressivo cambiamento dell’isola che nei mesi estivi si trasforma in ricercata meta turistica.

Lei mette a disposizione la sua casa per i vacanzieri e li ospita nelle stanze dei figli. Inoltre si dedica alle attività del museo locale.

Sono affascinanti anche le personalità e i destini dei suoi 3 rampolli.

Ryckmer è un marinaio alle prese con l’alcolismo che lo ha fatto retrocedere da esperto uomo di mare di lungo corso nella plancia di una petroliera a semplice marinaio di coperta su un barcone adibito a pompe funebri. Lui riceve i parenti in lacrime per la perdita di una persona cara che ha scelto la dispersione delle ceneri al largo di quel mare freddo e inospitale. Le pagine più belle, malinconiche ed intense sono proprio quelle dedicate alle sepolture in mare delle quali Ryckmer è il sensibile e apprezzato cerimoniere. Inoltre conosce tutte le saghe leggendarie che ammantano l’isola di ulteriore fascino.

Poi c’è Eske, infermiera in una casa di riposo, donna infaticabile sempre al servizio dei più fragili.

Infine incontriamo Henrik, il più solitario dei tre, nuotatore esperto che ogni mattina raccoglie quello che il mare deposita sulla riva.

L’autrice ci conduce dritti al cuore dei personaggi, alla loro lotta per la vita, scandita dalle maree e dal crescente turismo, tra passioni e tragedie che lasciano il segno. Tutto ambientato in una natura magica oltre ogni dire.

 

 

Azar Nafisi “Leggere pericolosamente”

-Adelphi- euro 20,00

L’iraniana Azar Nafisi, 68 anni, scrittrice ed insegnante di Letteratura Inglese, è figlia della prima donna eletta in Parlamento, e dell’ex sindaco della capitale iraniana, che nel 1979 fu incarcerato dopo la salita al potere dell’Ayatollah Khomeyni.

Anche Azar si oppose al regime, rifiutò di indossare il velo, e nel 1977 fu cacciata dall’Università. Si trasferì a Washington dove oggi vive con il marito e i due figli, ed è diventata cittadina statunitense.

Con questo libro chiude il cerchio della sua quadrilogia che comprende il famoso “Leggere Lolita a Teheran” del 2004. Pagine in cui ribadisce il potere della letteratura contemporanea e sottolinea come leggere sia uno strumento indispensabile per resistere alla crisi della democrazia.

Ha recuperato le parole e le idee di alcuni autori a lei cari –da Platone a Salman Rushdie, da Tony Morrison a David Grossman – e lo ha fatto immaginando di scrivere 5 lettere al compianto padre, col quale aveva condiviso gli stessi valori. Fin da quando aveva 6 anni, si erano scambiati continue missive; abitudine proseguita fino alla morte del genitore. Ora sembra che il dialogo tra loro riesca a scavalcare persino il sonno eterno.

Sottesa a tutta l’opera c’è la convinzione della Nafisi che: «Leggere e scrivere mi hanno protetta nei momenti peggiori della vita, nella solitudine, nel terrore, nel dubbio e nell’angoscia. E mi hanno anche fornito occhi nuovi con cui guardare il mio paese di nascita e quello di adozione».

 

 

Sandra Petrignani “Autobiografia dei miei

cani” -Gramma Feltrinelli- euro 18,00

La giornalista e scrittrice Sandra Petrignani è una delle firme più prestigiose nel panorama italiano, ed ha un’eccezionale capacità: sa ascoltare le voci delle cose e delle case che «dicono sempre la verità su chi le abita».

Lei è strepitosa nel ripercorrere luoghi, interrogare oggetti, immedesimarsi, immaginare e rintracciare così i “fantasmi” letterari preferiti

Questo suo ultimo libro invece vuole essere l’autobiografia degli amati cani che l’hanno accompagnata nel corso della vita. Ma questo l’ha anche costretta a fare i conti con la sua esistenza, a partire dagli anni dell’infanzia, per arrivare a parlare a fondo della scrittura.

I compagni pelosi diventano spunto per mettere a fuoco la personalità e le esperienze dell’autrice.

Oggi splendida 70enne, ha al suo attivo tre matrimoni, un figlio, una nipotina e la dimensione di nonna. Si divide tra Roma e la casa di campagna ad Amelia, in Umbria, dove convive amabilmente con 4 cani; ma nel libro ne compaiono almeno 17.

Tante storie segnate da destini diversi e la morte tragica di due cani di cui parlare le è costato parecchio. Di fatto in ogni riga c’è molto di lei: i suoi amori, gli uomini, i tradimenti, la vita affettiva, i viaggi, i libri scritti e letti, le ricerche, le passioni, la maternità, i traslochi, gli abbandoni e le separazioni.

Emerge a tutto tondo l’autobiografia delicata e intrigante di una donna indipendente e realizzata, dall’intelligenza affilata e aperta, amante della solitudine che stempera con l’amore per il lavoro di scrittrice.

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La costante nella vita della Patrignani è la scrittura, con una predilezione per le biografie di grandi donne legate alla letteratura e ai luoghi in cui sono vissute.

Tra le sue opere consiglio soprattutto “La scrittrice abita qui” e “Marguerite”, viaggio sulle tracce della Duras (che l’ha portata in Vietnam, Cambogia, Normandia, in un’immersione totale nella vita della vincitrice del premio Goncourt).

 

Sandra Petrignani “Il catalogo dei giocattoli” -BEAT- euro 9,00

Poi vale la pena riscoprire questo libro in cui traccia la storia dell’infanzia ricordando i giochi e i giocattoli di quando era bambina. Tanti sprazzi di memoria tra ricordi struggenti di un tempo lontano, intriso di nostalgia per quell’età spensierata da fanciullina.

 

Pagine stupende con tanti capitoli snelli e divertenti, ognuno dedicato a un giocattolo. Excursus di un’epoca e oggetti che oggi magari non sono più in voga; ma che hanno accompagnato l’infanzia di generazioni passate per le quali la fantasia regnava sovrana delle ore ludiche.

 

Tenero è il ritrovare le ore trascorse con le prime Barbie comparse nel 1959, portatrici della rivoluzione intrinseca di un nuovo modello non più burroso e materno come i bambolotti che richiamavano al ruolo di mammine in miniatura. Le prime Barbie erano di tre tipologie essenziali legate al colore dei capelli (bionda, bruna e rossa): belle, ricche, indipendenti al confine tra l’infanzia e lo sbocciare di una nuova femminilità adolescenziale. Piccole donne che di fatto erano ispirazione per un futuro aperto su più ruoli femminili.

 

Nel libro anche meraviglie un po’ perse come i caleidoscopi, i primi trenini elettrici, i soldatini e il forte, ma anche gli indiani con cui trascorrere ore di svago. Cavalli a dondolo e case di bambola, corde con cui saltare e pistole giocattolo, pallottolieri e marionette….. Tanti balocchi che la Petrignani racconta in modo intelligente e piacevolissimo.

Dante Graziosi e le storie della risaia

C’è stato un mondo che, scriveva Sebastiano Vassalli, “merita di essere documentato: nelle sue architetture, nei suoi attrezzi, nel suo linguaggio, nelle sue tradizioni, nelle sue storie”.

Non vi è dubbio che uno dei più importanti cantoni della civiltà contadina tra Sesia e Ticino, forse il più celebre, sia stato Dante Graziosi. Nato l’11 gennaio del 1915 a Granozzo , un borgo sull’acqua delle risaie all’estremo sud del novarese e al confine con il pavese lombardo, Graziosi fu medico veterinario, partigiano della divisione Rabellotti con il nome di battaglia di “Granito”, docente universitario di Igiene e Zootecnia all’Università di Torino, parlamentare della Dc per quattro legislature e sottosegretario in altrettanti governi, fondatore della Coldiretti novarese. Prima di dedicarsi alla narrativa fu anche autore di molti saggi scientifici di zootecnia. L’esordio letterario avvenne tardi, nel 1972 quando Graziosi ( all’epoca cinquantasettenne) fece rivivere con i racconti de La terra degli aironi la civiltà contadina che si era sviluppata tra le risaie della bassa novarese, narrando un mondo destinato al tramonto. Alla sua attività di veterinario dedicò nel 1980 il suo libro più famoso, Una Topolino amaranto, da cui venne tratto uno sceneggiato Rai. Nel 1987 pubblicò Nando dell’Andromeda, una saga padana al tempo delle mondine, della vita che si svolgeva sulle aie della bassa agli albori delle prime lotte sociali nelle campagne. Nando, il protagonista, è un camminante, uomo libero con l’animo del poeta. Al centro delle storie del “James Herriot italiano”, validissimo emulo del famoso scrittore e veterinario britannico, c’era il Molino della Baraggia di Granozzo dove l’autore, scomparso improvvisamente il 7 luglio 1992 a Riccione, era vissuto e dove sorge ora il centro sportivo di Novarello. Davide Lajolo ne descrisse il modo di raccontare sostenendo come potesse apparire all’antica, con una scrittura“che mette punti, virgole e sentimenti al posto giusto, che vibra e s’intenerisce nell’amore della sua terra, della gente, delle strade, dell’erba, della vita del suo paese, sia un riscatto dalla noia di certo burocraticismo politico, dalle formule e dalla corsa alle poltrone. È un ritornare a guardarsi allo specchio come uomo per ritrovare le caratteristiche di fondo di chi ha imparato perché si sta al mondo”. I suoi libri sono pubblicati dalla novarese Interlinea, casa editrice diretta da Roberto Cicala, che in occasione del ventesimo anniversario della morte di  Graziosi propose Le storie della risaia, un volume che raccoglie i migliori testi dell’aedo della Bassa.

Marco Travaglini

Gino Cecchettin a “Forte di Bard Incontri”

Per la rassegna culturale Forte di Bard Incontri, domenica 18 agosto 2024 (ore 21.00) sarà ospite Gino Cecchettin che presenterà il libro dedicato alla figlia, vittima di femminicidio, dal titolo Cara Giulia. Quello che ho imparato da mia figlia. Cecchettin dialogherà con Davide Gamba, libraio e Cristina Mastrandrea, giornalista.

In collaborazione con Libreria Mondadori di Ivrea.

Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria:
prenotazioni@fortedibard.it

L’isola del libro

RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA

 

Scilla Bonfiglioli “La sposa del vento” -Fazi Editore- euro 18,00

E’ poliedrica la formazione di Scilla Bonfiglioli: nata a Bologna nel 1983, laureata in discipline teatrali, autrice, regista ed attrice di teatro. Inoltre ha maturato una profonda conoscenza della storia dell’arte e delle vite degli artisti, iniziata quando, ancora ragazzina, seguiva la madre che lavorava come guida turistica.

Questo suo romanzo d’esordio è dedicato alla storia d’amore tra il pittore e drammaturgo austriaco Oskar Kokoschka e la compositrice e scrittrice Alma Mahler.

Il titolo riprende quello della famosa tela che Kokoschka dipinse nel 1914, nota anche come “La tempesta” che immortala i due amanti in un letto scomposto di nubi, circondati dalla tempesta della passione vissuta come totalizzante e devastante.

L’autrice ci porta nella Vienna di inizio Novecento dove il giovane Oskar (nato a Pöchlarn nel 1886, morto a Montreux nel 1980) aspira a diventare un grande artista e si apre la strada a piccoli passi, facendosi notare nei circoli intellettuali che contano per l’eccezionalità delle sue opere.

Nel 1912 il destino gli fa incontrare la bellissima e affascinante Alma Mahler (nata a Vienna nel 1879, morta a New York nel 1964) all’epoca poco più che 30enne, da poco rimasta vedova del celebre compositore boemo Gustav Mahler.

Lei è una delle donne più in vista e desiderate di Vienna; figlia del pittore Emil Schindler, amica di Gustav Klimt, musa ispiratrice di importanti artisti del Novecento. Tra loro Walter Gropius e Franz Werfel dei quali fu anche moglie.

Oskar è immediatamente stregato dal suo fascino, inizia a ritrarla, e tra i due divampa una passione bruciante e dirompente. Lui è timido, impacciato, pieno di turbamenti e riesce a coinvolgere in modo quasi totalizzante la giovane indipendente e fiera, che rifiuterà sempre di sposarlo.

La loro storia dura circa due anni, in un vortice di eros e arte; poi, scivola in scontri litigiosi, soprattutto a causa della gelosia e dell’attaccamento morboso di Oskar, che finisce per soffocare Alma e metterla in fuga.

Una fine straziante che Kokoschka ritrae perfettamente nella tela che racconta il travagliato abbandono. Lui finirà per arruolarsi e cercare costantemente la morte in battaglia.

 

 

Michele Mari “Locus desperatus” – Einaudi

Dimmi le cose che hai e ti dirò la cosa che sei”.

Azzardando l’estrema sintesi, si potrebbe anche riassumere così l’idea portante di questo libro di Michele Mari; grande intellettuale solitario, schivo autore 69enne, che si distingue dai colleghi per l’encomiabile rifuggire dal presenzialismo oggi imperante.

Il protagonista (senza nome) di questo breve romanzo scopre una croce tracciata col gesso sulla porta di casa; è l’avvio di una vicenda che, tra svolte improvvise e suspense, si rivela un discorso di taglio filosofico sui concetti di possesso e identità.

All’inizio l’uomo pensa a uno stupido scherzo e cancella la scritta a colpi di spugna, poi si vendica distribuendo sulle porte dei vicini croci e altre amenità. Peccato che il giorno seguente la croce ricompaia sulla sua porta, mentre sulle altre non c’è traccia di sfregi.

Il rito per un po’ si ripete fino a quando due loschi personaggi gli notificano l’avviso di sfratto, con l’obbligo di lasciare l’appartamento e tutto quello che contiene ad un altro inquilino che gli subentrerà. Ed ecco che il protagonista ingaggia una strenua lotta nel disperato tentativo di non separarsi dai suoi amati oggetti. Ognuno ha una sua storia e significati che solo lui può sapere, dal momento che la sua esistenza è strettamente collegata alle suppellettili che abitano la sua vita.

Preparatevi a colpi di scena, abilissimi depistaggi, e soprattutto ad una splendida apologia dei rapporti che ci legano agli oggetti contribuendo a definirci meglio.

Cercare, accumulare, conservare, collezionare e amare le cose di cui ci circondiamo vuol anche dire che, poco a poco, abbiamo ammantato la loro esistenza trasferendogli parte della nostra personalità.

 

 

Claudia Durastanti “Missitalia” -La nave di Teseo- euro 20,00

E’ sospeso tra terra e luna il romanzo dell’autrice e traduttrice italiana nata a Brooklyn nel 1984.

In “Missitalia” narra di avventure, eroine, viaggiatrici che, con indomita audacia, spiccano il volo dalla Lucania verso la Luna e ritorno, tutto distribuito nell’arco di 200 anni di storia.

Durastanti ripercorre 3 fasi del Sud Italia attraverso le vicende di altrettante donne, Amalia, Ada e A. Vivono in epoche diverse corrispondenti a tre momenti storici importanti: seconda rivoluzione industriale, boom economico ed infine astro capitalismo.

La Val d’Agri è un sud magico, terra di sortilegi in cui subito dopo l’Unità d’Italia Amalia Spada è l’avventuriera irrequieta e temeraria che accoglie nella sua casa una comunità di giovani abbandonate, ribelli e ostracizzate. Una compagnia di Lupe che relegano gli uomini clandestini nel sottosuolo.

A scompaginare le carte sarà l’avvio della Fabbrica e dell’industrializzazione che genera reazioni contrastanti negli abitanti del luogo.

Molti anni dopo, nel dopoguerra, troviamo Ada, giovane antropologa che esplora la Basilicata per studiarne la realtà, i cambiamenti, alle prese col petrolio e i rapporti di potere; ma anche le antiche e profonde radici ancestrali.

Infine con un balzo temporale in un futuro prossimo, la Lucania è la base da cui partono le navicelle alla volta della colonizzazione dello spazio, e la terra è speculare rispetto alla sua gemella lunare. A. è una donna alpha solitaria che ama recuperare cose perdute e ridare vita ad oggetti dei tempi andati.

La terra, ridotta dalla desertificazione, ormai una landa aspra e dura, diventa anche la meta promessa pronta a riaccogliere la vita e nuova zona di approdo….

 

 

Sean A. Pritchard “Outside in. A year of growing displaying” -Mitchell Beazley- UK £ 30

Più che da raccontare questo bellissimo volume fotografico è da sfogliare per trarre ispirazione e catturare idee geniali che trasportano i fiori dei vostri giardini o terrazzi all’interno delle stanze che amate.

Il libro è opera del designer di giardini Sean A. Pritchard, che vi insegna e dimostra come la natura colorata e profumata che vive outside possa trovare un prolungamento di vita nei tanti vasi che avete in casa.

Esplosioni di bellezza, colori, luci e natura che, a seconda dell’avvicendarsi delle stagioni, con un po’ di fantasia e buon gusto, portano gioia e buon umore dislocati in vari angoli del vostro salotto, studio , camera da letto…..e ovunque vogliate. In piccoli o grandi vasi appoggiati su pile di libri, tavoli o sedie.

Traete spunto da queste pagine e sguinzagliate la fantasia.

I mille castelli del Piemonte

Perché andare solo nelle grandi residenze sabaude, già viste e riviste, e non recarsi nei tanti castelli minori, storicamente meno importanti ma ugualmente belli e visitabili? In Piemonte si contano almeno un migliaio di castelli se si considerano anche quelli di cui restano poche tracce e qualche rudere. E tanti, tantissimi si trovano nella sola provincia di Torino. È di questi che ci parla lo storico e scrittore Gianni Oliva nel libro “Castelli piemontesi, la provincia di Torino”, vol.1, Edizioni biblioteca dell’immagine, arricchito da decine di illustrazioni di Pierfranco Fabris. Quando si parla di castelli del Piemonte, precisa l’autore, il rimando immediato è a Palazzo Reale, alla Reggia di Venaria, a Racconigi, Stupinigi, Rivoli, Moncalieri, Agliè, le cosiddette “residenze sabaude”. Ma proprio per l’abbondanza di materiale disponibile e per la notorietà dei siti, nel mio volume non parlo di residenze sabaude ma di castelli meno conosciuti, alcuni in buono stato e altri abbandonati e sopravvissuti solo in qualche torre o in qualche rudere perimetrale”. E allora lasciamoci trasportare dalla fantasia entrando in questi castelli e immaginiamo quel che accadeva tra quelle mura possenti, eventi piccoli o grandi, importanti o meno, un assedio, un delitto, un matrimonio, fantasmi, streghe, leggende, insieme ai personaggi che l’hanno abitato, i signori del luogo, marchesi, conti, duchi e sovrani. Gianni Oliva racconta di tutto e di più. Il castello di Montalto Dora, con il suo maestoso profilo medievale domina dall’alto il canavese e la Dora Baltea offrendo un colpo d’occhio favoloso a chi percorre l’autostrada Torino-Aosta. Troneggia come una sentinella nel tratto morenico-canavesano della via Francigena. Danneggiato nel Seicento dalle truppe francesi, dal maniero sono uscite alcune leggende romantiche raccolte e divulgate da Giuseppe Giacosa, lo scrittore canavesano amico di Pascoli e Carducci. Il castello di San Giorio, a pochi chilometri da Susa, che da un’altura sovrasta la valle della Doria Riparia, costruito nel XI secolo dagli Arduinici, marchesi di Torino, per motivi difensivi ma anche per incassare i pedaggi di transito lungo la via Francigena, a Susa, San Giorio, Sant’Ambrogio e Avigliana. Alla fine del Seicento il maresciallo Catinat lo fa distruggere ma aveva troppa fretta di arrivare ad Avigliana per far saltare in aria anche il castello del Conte Rosso, strategicamente ben più importante. Alcune parti della fortezza di San Giorio si sono quindi salvate anche se ne restano pochi resti, che si vedono bene dalla Torino-Bardonecchia, in particolare le mura merlate, parzialmente restaurate di recente. Ma restano anche misteriose memorie templari che appaiono all’improvviso tra i vicoli che salgono alle mura del maniero: croci del Tempio originali, per nulla consumate dai tanti secoli trascorsi. Qui, d’inverno, come accade anche a Giaglione e a Venaus, danzano gli spadonari incrociando le spade in una danza guerresca per cacciare i nemici, i saraceni di un tempo, e per propiziare la produttività dei terreni. Ma se ci spostiamo poco più lontano, a Reano, in bassa val Susa, tra la Dora e il Sangone, e se siamo fortunati, potremmo trovare una piccola parte del tesoro dei Templari nascosto nei sotterranei del castello. Almeno così racconta una leggenda del XIII secolo secondo cui il maniero sarebbe diventato un cascinale fortificato dell’Ordine dei Templari e in una sala sotterranea si troverebbe un tesoretto, in realtà mai scoperto. Tuttavia nei dintorni del castello è stato rinvenuto un anello d’argento in stile orientale risalente allo stessa epoca e forse appartenente a un cavaliere tornato dalle Crociate, un Templare oppure lo stesso Amedeo III, conte di Savoia, che scelse Avigliana come propria residenza e che nel 1147 partecipò alla seconda crociata. Il castello è oggi una proprietà privata e non si può quindi visitare “ma merita senz’altro una visita dall’esterno, scrive Oliva, la sua struttura e la tinteggiatura rosata lo rendono ben evidente nello scenario di boschi e prati in cui si staglia”. Il castello di Rivara ricorda i processi alle streghe del canavese nel Quattrocento mentre quello rinascimentale di Vinovo è strettamente legato alla nobile famiglia locale dei Della Rovere. Presidio militare, residenza nobiliare, manifattura di porcellane, collegio della Regia Università, il castello di Vinovo è di proprietà del Comune. Ma c’è molto di più da leggere nel libro di Oliva. L’elenco dei castelli è lungo e comprende i manieri di Avigliana, Ivrea, Masino, Mazzè, Piobesi, Piossasco, Rocca Canavese, Santena, Settimo Vittone, Sparone, Susa, Ternavasso e Malgrà di Rivarolo.           Filippo Re

Partorire in anonimato La storia di un’insegnante torinese

Nel libro “Una vita in Dono”, a “Palazzo Conti di Bricherasio”

Domenica 14 luglio

Bricherasio (Torino)

L’incontro rientra nella quinta edizione di “Bellezza tra le righe”, rassegna (che nasce, attraverso incontri e presentazione di libri e letture, “per guardare al futuro e acquisire nuovi punti di vista e strumenti per meglio viverlo e comprenderlo”) organizzata da alcune fra le più prestigiose dimore storiche del Pinerolese, in programma – dopo l’avvio di domenica 30 giugno scorso – fino a domenica 13 ottobre. Tema di quest’anno: “Ci vuole coraggio”. Un tema che affronta con grande determinazione e “coraggio”, per l’appunto, il libro “Una vita in dono” (“ed. 99 Edizioni”), opera di Claudia Roffino (torinese,docente liceale di Latino e Greco) insieme a Barbara Di Clemente, che verrà presentato domenica prossima 14 luglio, alle 17, nel giardino di “Palazzo Conti di Bricherasio”, residenza storica costruita fra Sei e Settecento ai piedi del Castello di Bricherasio, dove sorgevano le fortificazioni distrutte nel corso dell’assedio del 1594 in cui Bricherasio, occupata dai Francesi, venne riconquistata dai Savoia.

 

Contenuto di grande attualità e di profondo valore etico-sociale, “Una vita in dono” è la storia di un’adozione, di un parto in anonimato e di una figlia (la stessa scrittrice) non riconosciuta. Una storia, dunque, autobiografica, in difesa delle donne e della scelta di “partorire in anonimato”. Troppo spesso, infatti, si parla di loro con assoluta e impietosa superficialità e troppo spesso si abusa, di conseguenza, del termine “abbandono”. La “presunta” vittima, Claudia, si schiera invece, in una non semplice autobiografia di 314 pagine, dalla parte della presunta “colpevole”. Sua madre. Che Claudia difende nella sua sicuramente non facile scelta. Quella donna, non conosciuta ma immaginata (attraverso le parole di Barbara Di Clemente) che l’ha messa al mondo e che Claudia non conoscerà mai, per una duplice scelta: quella della donna, che scegliendo il non riconoscimento alla nascita della bambina optò per non essere nominata per cento anni nella documentazione ufficiale come madre biologica e quella di Claudia stessa, che dopo essersi interrogata per una vita su questa scelta si schiera a suo favore, difendendo il “parto in anonimato” come una tutela fondamentale per i bambini e per le donne che non possono o non vogliono essere madri. Due storie. Due vite. E intorno un fitto intreccio di esistenze: quelle di chi ha accolto, amato e cresciuto Claudia, quelle di chi ne ha messo in questione le origini portandola a interrogarsi su sé stessa e quelle di chi ha accompagnato la madre biologica nel suo percorso dopo una decisione troppo spesso oggetto di un giudizio semplicistico.

“Una vita in dono” è, quindi, una difesa della “libertà delle donne” e dei “diritti dei bambini”, nella forma di un invito alla società contemporanea a pensare “con più delicatezza e più profondità i concetti di famiglia e adozione”.

Il libro è stato scritto facendo “interviste in vari ospedali” del Piemonte e della Lombardia, da Torino, Novara a Milano e raccogliendo testimonianze di assistenti sociali, ginecologi, infermieri e operatori dei reparti di Neonatologia.  “Io sono nata– afferma Roffino – in tutta sicurezza, in ospedale, per questo non riesco a dire di essere stata abbandonata. Vedo dietro questa scelta la consapevolezza della mia madre biologica di non farcela, ma di decidere per me un’altra possibilità. È forse questo che mi ha permesso di condurre la mia ricerca, da adulta, nel modo in cui ho scelto di farlo.

Gli incontri di “Bellezza tra le righe” sono compresi nel biglietto di ingresso valevole sia per gli interni sia per il parco. E’ consigliabile prenotare la visita per gli interni e al parco (con visita guidata) al costo di 8 euro, gratuito fino a 10 anni.

Per info e prenotazioni: Palazzo Conti di Bricherasio, via Vittorio Emanuele II 7, Bricherasio (Torino); tel. 366/6866556 o www.palazzocontidibricherasio.com o palazzocontidibricherasio@gmail.com

La novità di quest’anno è che la rassegna si è anche dotata di un sito: www.bellezzatralerighe.it, dove vengono caricate le registrazioni di tutti gli incontri.

g.m.

Nelle foto: “Palazzo Conti di Bricherasio”, Claudia Roffino, Cover “Una vita in dono”

Non rullano più i Tamburi della Pioggia

Se n’è andato pochi giorni fa all’età di 88 anni Ismail Kadarè, scrittore e poeta albanese che denunciò la repressione della dittatura filosovietica e fu costretto all’esilio in Francia. Diversi suoi romanzi sono stati banditi dall’Albania: il più famoso è “Il generale dell’armata morta” pubblicato da Longanesi. Kadarè ha scritto anche storie e leggende dell’Albania nelle quali ha spesso criticato il regime comunista. Tra i romanzi che hanno contribuito alla fama di Kadarè ricordiamo La città di Pietra, Aprile spezzato, La Bambola, Il Palazzo dei sogni, Tre canti funebri per il Kosovo, I Tamburi della pioggia, edito da Longanesi, Tea, Corbaccio e Fabbri. E proprio su quest’ultimo vogliamo soffermarci, un grande romanzo storico. I Tamburi della Pioggia, una vicenda del Quattrocento, l’epopea del leggendario eroe Skanderbeg contro gli invasori turchi che combatterono in Albania una delle più lunghe e sanguinose guerre della storia. È la storia dell’Albania e del suo popolo: l’inizio del conflitto con l’impero ottomano, l’inizio di una lotta pluridecennale, ben 25 anni, la prima di 24 spedizioni dell’esercito del sultano contro il Paese delle aquile. Nel maggio del 1449 un immenso esercito turco pone l’assedio a Kruja, difesa da un piccolo presidio. Skanderbeg, il cui vero nome era Giorgio Castriota, mette al riparo sui monti i vecchi, parte delle donne e i bambini e con le sue forze resta al di fuori della cinta dell’assedio lanciando a più riprese e a sorpresa attacchi dall’esterno contro i turchi. Gli albanesi difesero strenuamente per 25 anni la propria libertà dalle ricorrenti invasioni della superpotenza ottomana. Decine di migliaia di soldati tentarono invano di scalare i bastioni ma dopo aver fatto di tutto per conquistare la cittadella di Kruja le forze turche furono obbligate a ritirarsi. Sul campo di battaglia rimase un quinto dei soldati ottomani. La cittadella di Kruja, capitale dell’Albania, sottoposta a un assedio fiaccante, diventò ben presto il simbolo della resistenza albanese. Di fronte alle sue mura il potente esercito turco è costretto a fermarsi, stroncato dal caldo torrido e indebolito dagli attacchi di Skanderbeg. L’autunno si avvicinava e il rimbombo dei “tamburi della pioggia” stava per segnare la fine di ogni speranza di vittoria. Kruja rifiuta di arrendersi. Gli assalti notturni di Skanderbeg terrorizzano i nemici. Basta il suo nome per far fuggire i turchi. La spedizione ottomana è un inferno. I tamburi della battaglia e della pioggia tormentano il comandante turco. I tamburi che annunciano la pioggia segnano la fine di un lungo cruento assedio. “Cominciò a piovere il 13 settembre, all’alba. In una parte dell’accampamento turco rullavano i tamburi della pioggia. Il loro campo appariva stranamente lugubre in quel mattino d’autunno. Eccolo, dunque, il più grande esercito del nostro tempo, il più temibile mostro della nostra epoca è ai nostri piedi, a inzupparsi di pioggia. Sembra che la prima stagione di guerra volga al termine. Altre ci attendono”.
Filippo Re      

Trieste e le ombre dei suoi fantasmi

 

Trieste, ricca di storia sul crinale carsico e crocevia di frontiere contese, è la città più settentrionale del Mediterraneo e più meridionale della Mitteleuropea. Una città “luogo dei luoghi”, protagonista dei racconti “I fantasmi di Trieste”(Bottega Errante Edizioni, 2018). L’autore, Dušan Jelinčič, giornalista della RAI e alpinista, uno degli scrittori italiani di lingua slovena più autorevoli e apprezzati, traccia una personale mappa della memoria che si intreccia con vicende misteriose e “fantasmi”. Come ogni città con un passato importante, complesso e sofferto, Trieste si porta addosso i segni di ferite mai rimarginate e di irrisolti conflitti. I luoghi di questo percorso con ampi tratti autobiografici – Jelinčič a Trieste ci è nato e vive in una casa del primo Carso, ai bordi dell’altipiano affacciato sul golfo che si apre davanti al porto e alla piazza Unità d’Italia – s’intrecciano con le persone, i protagonisti di queste storie. Nei racconti prendono corpo immagini della città vecchia, del tram di Opicina – che sale fino all’omonima frazione sull’altipiano del Carso – e dei rioni di San Giacomo, San Giovanni e San Giusto. Si sente quasi l’odore salmastro del mare e il fischiare della bora, si possono immaginare le onde che s’infrangono sul molo Audace dove nel 1914 ( quando si chiamava ancora molo San Carlo) attraccò la corazzata “Viribus Unitis”,nave ammiraglia della marina Imperiale con a bordo le salme dell’Arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, uccisi nell’attentato di Sarajevo. Sullo stesso molo, quattro anni più tardi, giunse il cacciatorpediniere “Audace” della marina italiana. Era il 3 novembre del 1918, finiva la prima guerra mondiale e la nave che diede il nuovo nome a quella lingua di terrà in mezzo al mare, vi sbarcò un battaglione di bersaglieri. Oltre al paesaggio fisico ci sono i luoghi dell’anima e le storie di personaggi veri, come nel caso di Diego de Henriquez che morì la sera del 2 maggio del 1974 nell’incendio del suo magazzino, dove dormiva solitamente coricato dentro una bara di legno, portando con se i suoi segreti. Un personaggio straordinariamente singolare, triestino erede di una famiglia di ascendenza nobiliare spagnola, raccoglitore di ogni genere di materiale bellico e ideatore del Civico Museo della Guerra per la Pace. La sua morte lasciò molti dubbi e forse, come fa supporre il racconto di Jelinčič. Diego de Henriquez ricopiò in due dei suoi diari, prima che venissero cancellate, le scritte lasciate dai prigionieri nelle celle della Risiera di San Sabba, lo stabilimento per la pilatura del riso che i nazisti trasformarono in lager. Morì a causa di questo, vittima di un incendio doloso? Cercando tra le voci e le scritte dei morti della Risiera venne a conoscenza di verità scomode sull’unico campo di sterminio in Italia? Cosa aveva scoperto?I nomi dei collaborazionisti triestini, qualcuno divenuto poi una figura rispettata della comunità locale? Aveva dato un volto a chi, denunciando i suoi concittadini di religione ebraica, aveva contribuito a toglierli di mezzo, arricchendosi? Volti che riappaiono, come fantasmi, assumendo le sembianze in un altro racconto di un anziano seduto sul tram di Opicina che assomiglia come una goccia d’acqua ad un volto che si intravede in una foto di cinquant’anni prima accanto a Odilo Globocnik,il nazista calato a Trieste per fare della Risiera un luogo di morte. Jelinčič, nei suoi racconti parla anche delle sfide calcistiche allo stadio Grezar, intitolato al mediano triestino che perì con tutto il resto della squadra del Grande Torino nella tragedia di Superga, del vecchio bagno asburgico “La lanterna”, più noto come “El Pedocin” ( il piccolo pidocchio) dove un  muro lungo 74 metri e alto tre divide tra uomini e donne la spiaggia di ciottoli bianchi. E’ lì che l’autore, in gioventù, fece l’amara scoperta di essere considerato con disprezzo uno “sciavo”, in quanto sloveno di Trieste. Ci sono poi le storie dove il protagonista è James Joyce, che visse a lungo in città, completando la raccolta di racconti Gente di Dublino, diverse poesie oltre al dramma Esuli e ai primi tre capitoli de l’Ulisse, il libro che gli diede fama internazionale. In uno dei luoghi più belli della città, il Ponterosso che attraversa il Canal Grande, nel quartiere teresiano, un monumento in bronzo raffigura lo scrittore irlandese mentre cammina, assorto nei suoi pensieri, con un libro sottobraccio e il cappello in testa. La targa, riprendendo la “Lettera a Nora” del 1909, recita: “la mia anima è a Trieste”. Joyce, parafrasando Dušan Jelinčič, fa parte dei “fantasmi gentili”, come lo psichiatra Franco Basaglia che iniziò dal San Giovanni di Trieste la rivoluzione che portò all’abolizione degli ospedali psichiatrici con la legge 180. “La libertà è terapeutica”, venne scritto sui muri bianchi di quella “città dei matti” che rinchiudeva dietro le sbarre, con un “fine pena mai” chi era segnato dalla malattia. Grazie a Basaglia Trieste diventò la città del riscatto di tante persone, come nel caso di Olga, una “ex matta” che racconta la sua storia all’autore. I ricordi vagano e s’imbattono in Julius Kugy, l’alpinista che aveva cercato ovunque sulle alpi Giulie la Scabiosa Trenta, rarissimo fiore delle alpi slovene. Guardando l’immagine della piantina incollata su una pergamena ingiallita, la descrisse così: “..ecco la graziosa creatura di luce, sul calice d’argento finemente merlettato, vestita di bianco splendente, trapunta di tenere antere d’oro! Non era ormai una piantina, era una piccola principessa del paese dei sogni”.Kugy si era fatto costruire un organo che suonava personalmente nella chiesa di via Giustinelli. Una chiesa di proprietà della comunità armena, data in affitto ai cattolici di lingua tedesca e oggi semi abbandonata, esempio di degrado e incuria. In fondo è proprio Trieste, città di grande tradizione europea e crogiuolo di etnie, ricca di contraddizioni e oscuri sensi di colpa che si racconta in questo libro. E Dušan Jelinčič, con la sua scrittura coinvolgente, ne amplifica la voce.

Marco Travaglini