Il “Cabaret” di Brachetti e Cannito, il ritorno di un successo tra divertimento e riflessioni

All’Alfieri, repliche sino a domenica 19 gennaio

 

Continuiamo a credere quanto già pensato al debutto una quindicina di mesi fa, ovvero quanto sia pensato e realizzato in grande “Cabaret” che nei giorni scorsi ha avuto un nuovo affermativo successo nella sala dell’Alfieri. Un ritorno felice, applauditissimo. È pensato e realizzato in grande nella produzione del Fabrizio Di Fiore Entertainment come nella regia firmata a quattro mani da Arturo Brachetti (anche se il nostro trasformista con il suo solo nome in ditta abbia dato una bella accelerata al proprio personaggio e ai suoi spazi) e Luciano Cannito (sue anche le coreografie), gran coordinatore dell’intera vicenda, entrambi a costruire il privato e il pubblico divertimento del Kit Kat Klub – nel doppio piano della scenografia firmata da Rinaldo Rinaldi (il vagone di un treno e una vecchia stazione, i corridoi e una camera d’albergo di poverissime pretese, un negozio di frutta e verdura, le luci dello spettacolo nel più trasgressivo dei locali della Berlino d’inizio anni Trenta; e poi la grandezza di una città, con i suoi monumenti, lassù dove trovano posto i componenti l’orchestra dal vivo, un paio in abiti femminili a camuffare le cose) – con un invidiabile ritmo, con il divertimento che non lascia tranquillità ai momenti di una tragedia che sta per esplodere, ma l’incalza dappresso, ai sogni e al loro infrangersi contro una realtà troppo amara e dolorosa, alle passioni, alla spensieratezza e alla libertà anche sessuale che invadevano quegli anni: arrivando oggi “Cabaret”, diremmo, a proposito, ad avere tutta l’aria di “spettacolo contemporaneo”, nel filtrare le atmosfere che ci circondano e di cui ogni giorno siamo spinti a guardare, nelle notizie dei giornali e nelle immagini televisive.

Il film omonimo di Bob Fosse (otto Oscar su dieci candidature nel ’73, una grande regia e una Liza Minnelli smagliante) ci ha insegnato l’ascesa e la caduta della spericolata Sally Bowles, cantante di quel locale, e di Cliff Bradshaw, scrittore americano di radici ben reali e dalle molte speranze, di molte idee e di poca fortuna, spinto nel suo soggiorno nella capitale tedesca (sui primi passi c’era stato un benaugurante “Willkommen”) a pensare di fornire lezioni d’inglese, altroché il grande romanzo!, dietro cui il romanziere Christopher Isherwood con molte libertà nascose se stesso, anche lui ospite, a cavallo degli anni Trenta, della sorta Repubblica di Weimar a raccogliere materiali di vita e di esistenze che convoglieranno in seguito in “Addio a Berlino”. Un amore che nasce e sembra eterno, incosciente e solido, mentre tutto sembra votato al piacere e alla spensieratezza, al successo senza mezzi termini (“Money Money”), mentre iniziano a comparire le nubi del nuovo regime, la Notte dei lunghi coltelli e l’affidamento del Cancellierato al futuro dittatore, mentre le prime squadre prendono a intonare “Il domani appartiene a noi”, come suona il titolo di una delle più belle canzoni del musical (e uno dei momenti di più tragica poesia del film; le musiche sono di John Kander, le parole di Fred Ebb, il libretto di Joe Masteroff: sul palcoscenico dell’Alfieri Luciano Cannito ne ha fatto, in quelle luci e in quelle ombre che piovono dall’alto, un piccolo ritagliato capolavoro, con i suoi ballerini/attori/cantanti e il giovane Ernst Ludwig (Niccolò Minonzio) dalla svastica al braccio a intonarne i versi, terribilmente patriottici, in un levarsi e in un alternarsi di voci che mettono i brividi). Sally continuerà a costruire e a sperare in una carriera di cantante all’interno del club, perché la vita dopo tutto é un grande “Cabaret”, Cliff tornerà in America, una vera fuga, come in quegli anni abbandonavano e fuggivano il mondo tedesco maestri del cinema come Billy Wilder e Otto Priminger, Robert Siodmak e Fritz Lang, Fred Zinnemann e Max Ophüls, senza la speranza di ritornarvi. Era un mondo che offendeva gli angoli anche appartati e semplici degli affetti privati, come quelli dell’affittacamere Fraulein Schneider e dell’anziano Herr Schultz, un ebreo ancora orgoglioso di essere tedesco e inguaribile uomo di speranza: anche per loro un tempo breve di affetti e il doveroso distacco, di fronte ad un futuro più che incerto.

Brachetti si è ritagliato i momenti del Kit Kat Klub, con i suoi numeri di Maestro delle Cerimonie, il vulcanico Emcee pronto nella sua ambiguità e nella sua irriverenza a prendersi gioco del potere, a riportare all’aperto quella libertà sessuale che in quegli anni la faceva da padrona. Coordina, guida, canta, commenta, chiama il pubblico (di oggi) a testimone, intenso e vero motore di quell’angolo di decadenza. Incursioni destabilizzanti le sue, ampi momenti in cui non rinuncia ad essere Brachetti, realissimo, quello teatrale che conosciamo, regalando ancora una volta quei flash di trovate – è sufficiente un cambio velocissimo, impercettibile, un abito che appare inspiegabile, appare e scompare, uno stupore, una smorfia, una trovata mai superflua, sino a trovare anche lo spazio per citare quel nanerottolo del führer con un mappamondo tra le mani, in un preciso memento chapliniano – che ce lo fanno ad ogni occasione apprezzare. Ha alle spalle quel mostro sacro di Joel Grey (che si guadagnò l’Oscar come migliore attore non protagonista nel film di Fosse) e parecchi altri: ma il suo sberleffo, i suoi grumi di cattiveria e di diabolico, la sua gran capacità di condurre il gioco sino in fondo, sino a mostrarsi nella più completa nudità come prigioniero pronto a entrare tra la nebbia di una camera a gas, un vecchio pastrano addosso e subito buttato a terra, ne decretano il pieno successo. Forse mi sbaglierò, ma lo spettacolo si è fatto più teso e più cupo se ripensato con il debutto, certo più commovente, più asciugato, più occasione per ripensare. Merito non ultimo della regia di Luciano Cannito, dell’alternarsi e dell’amalgamarsi delle vicende, di quei momenti più intimi che potrebbero affaticarsi di troppi sentimentalismi e che al contrario ne sono tenuti fuori dallo sguardo disteso sulla realtà, dandogli pienamente l’efficace trasposizione italiana dei testi, ottima, sinceramente udibile, semplicemente quotidiana, laddove in altri musical si è incappati in nuovi testi per molti versi stonati e ridicoli: allora il successo è davvero completo. Laura Galigani ha oggi indossato anzi afferrato con decisione gli abiti e gli sguardi, le commozioni e la pretesa grandezza sognata da Sally Bowles, più vittima che manipolatrice. Certo, combatte, pure lei, contro un altro mostro sacro del cinema e a noi in platea non si può chiedere di non “rivedere” certi occhioni sgranati, certi numeri perfetti, certe scene che da cinquant’anni ci stanno nella memoria: ebbene, la sua Sally se la è costruita fin dall’inizio con grande determinazione, con una grinta sottile e sempre più con ricchezza di particolari, caparbietà e leggerezza, il continuo e disperato voler chiudere gli occhi dinanzi alla tragedia che avanza. Mi pare che più abbia interiorizzato il personaggio, l’abbia visto nell’interno, abbia contenuto certo esplosioni: mi pare che la coreografia della canzone che dà il titolo al musical sia maggiormente trattenuta ma continui a essere travolgente. 

Tutti quanti gli interpreti, e non è davvero la frase che a volte si sforna per il dovere di non dimenticare nessuno, sono dei necessari quanto autoritari tasselli nella storia. Luca Pozzar, giovane scrittore, ha una voce convincente e una gran bella grinta, Simonetta Cartia e Toni Mazzara, la coppia d’attempati innamorati, viaggiano tra sentimenti e affetti, come continuano a divertire le sortite a sfondo pubblicitario/erotico di Giulia Ercolessi, giovane signorina Kost con un forte debole per i marinai, tutt’intorno ballerine e ballerini che entrano ed escono a riempire letteralmente di bravura l’intero palcoscenico. Un autentico successo.

Elio Rabbione

Nelle immagini: alcuni momenti dello spettacolo.

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