Coppa Volpi alla Mostra veneziana per Luca Marinelli
Pianeta Cinema a cura di Elio Rabbione
Trasportandolo dalle coste e dai porti della California al panorama partenopeo, con le sue acque, con le strade anguste ed i panni messi ad asciugare da un capo all’altro, con le sue aree distese tra ruderi e sterpaglie, con le sue facce ferite di popolani, Pietro Marcello – classe 1976, cresciuto con il gusto del film documentario, vincitore nel 2009 del TFF con La bocca del lupo, affermatosi a Locarno alcuni dopo con Bella e perduta e oggi giunto al suo primo e autentico, corposo, lungometraggio applaudito al Lido e ora sugli schermi – in piena libertà d’espressione imprime inaspettatamente al Martin Eden di Jack London un respiro di casa nostra e allo stesso tempo una visione ed un’anima assai più universali. Marcello (sceneggiandolo con Maurizio Braucci) tradisce le origini letterarie e sperimenta, non va per strade narrative usuali, cerca la giravolta inaspettata, vuole sferzare, coinvolgere drammaticamente, stupire: forse raggiunge lo scopo ma corre allo stesso tempo il forte rischio di buttare disordine, di confondere, di riempire di troppi elementi superflui, di schiacciare certi passaggi narrativi, di cancellare quella compostezza e quella narrazione più adagiata che in molte parti del film si tenderebbe a pretendere. La parabola del marinaio del tutto privo di cultura che, salvato da un pestaggio il giovane Arturo, rampollo di una facoltosa famiglia, viene accolto nella casa del ragazzo e ne conosce la sorella, Elena, che lo spingerà a leggere (Baudelaire come prima opera tra le mani!) e a cercare un’istruzione e gli farà nascere, contro i dubbi e le maledizioni di molti, il desiderio della scrittura, suona come un sacrosanto quanto rabbioso horror vacui della mente, come la perseveranza verso l’eccesso, come la sfrontatezza intellettuale, come la riaffermazione senza se e senza ma del quisque faber di scolastica memoria.
Una ricerca a lungo portata avanti, in un secolo del ‘900 che corre avanti e indietro (qualcuno nelle ultime immagini grida lo scoppio della guerra ma parecchio assai più vicino a noi è già stato mostrato) e lungo il quale s’inventa una privazione del tempo stesso, ad affermare l’eguaglianza di sempre; che getta sullo schermo reperti d’archivio (inevitabile che Marcello ritorni alla sua prima passione) degli anni Venti e Trenta come quelle dei Sessanta e Settanta (un gioco pure musicale, che allinea sullo stesso piano Debussy e Teresa De Sio) e finzione, in una a tratti inverosimile mescolanza di abiti, di oggetti, di automobili, di arredamenti con tanto di televisori figli del boom economico. Una ricerca che coinvolge anche l’amore e lo stato sociale difficilmente raggiungibile, le lotte socialiste e l’aspirazione all’individualismo rivendicato con forza, che deve fare i conti con le sconfitte, con i continui plichi dei racconti inviati agli editori e pronti a tornare indietro con la loro scritta “rinviato al mittente”. Lo squarcio è un editore dall’accendo meneghino, il successo arriva ma con esso il cambiamento, la frustrazione nel toccare con mano che chi lo ha prima rigettato adesso lo acclami e lo pretenda, la consapevolezza del proprio mutamento di scrittore ed intellettuale che ha attraversato persone e tempi e cose.
Marcello, man mano che la parabola scende verso la fine, s’accartoccia come la sua storia, mostra il fiato corto e fa rimpiangere una prima parte che interessa di più. Come lui il suo protagonista, un pur bravo Luca Marinelli che come ognuno ora sa s’è portato a casa la Coppa Volpi come miglior interprete, rimandando a mani vuote il Joker Joachim Phoenix dato come spudorato vincitore. Marinelli mette un’intima naturalezza per buona parte che gli fa stringere di diritto tra le mani quella Coppa, poi i toni esagerati della rivolta personale sono in agguato, il tutto diventa malamente lineare e superfluo, quella compostezza fatta di sguardi leggeri e cenni pieni di misura che lo avevano fatto apprezzare sparisce, come uno scossone del tutto inaspettato.
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