Nelle sale della galleria Fogliato, sino al 22 febbraio
L’attimo d’ispirazione è l’immagine fotografica, il paesaggio urbano colto nell’imprimersi di un momento, d’una occasione: poi quella stessa immagine è posta sulla tela, ulteriormente sfocata, frammentata, dissezionata, nella ricerca continua di nuovi movimenti, nell’avventurarsi in percorsi che non lasciano nulla di definito, di stabile nel tempo che viviamo. Tempo di tangibile trasformazione, di accelerazione che non lascia più spazio ad un fermo “hic et nunc”, che si porta appresso la legge del “panta rei” della nostra quotidianità. Siamo travolti, come se continue folate di un vento impetuoso ci avvolgessero e ci trascinassero, come se la natura ci avesse escluso la possibilità di trovare un riparo o un appiglio di salvezza.
Impressioni, suggestioni, ricordi, squarci di vita di un Boccioni modernissimo, pagine scritte da Marco Longo – pressoché settantenne, diplomato al Liceo Artistico e frequenza all’Accademia Albertina torinese, diploma presso la “Scuola Internazionale di Grafica” a Venezia, numerose personali e collettive all’attivo in Italia e all’estero – in questa sua presenza nelle sale della galleria Fogliato (via Mazzini 9, sino a sabato 22 febbraio, da martedì a sabato 10,30 – 12,30 / 16 – 19) che ha per titolo “Direzioni pittoriche”, con la cura di Giovanni Cordero. Una trentina di oli, di differenti dimensioni, suddivisi sotto un triplice sguardo, “My City” e “Manhattan” e “Interior Space”, la Torino di oggi e l’altrove, l’avveniristico e l’antico.
Scrive Cordero nella presentazione in catalogo: “Sono registrati sulla tela momenti effimeri, inafferrabili e fluttuanti che riportano atmosfere sfuggenti perché la manipolazione dell’immagine crea nuovi mondi che non esistono nella realtà ma solo nella nostra percezione psichica.” Una inafferrabilità che trova ospitalità nelle nostre menti e che vive nello scattare di un attimo ma che si fa presenza concreta e realissima sulla tela. E in quell’attimo c’è lo spazio e il tempo di sempre. Non soltanto, dentro i confini di una città ovattata, le nebbie e i vapori che salgono dal fiume (lo scorcio del ponte di piazza Vittorio e gli alberi e la gran massa della Gran Madre sullo sfondo, “My City 1”) o gli asfalti lucidi di pioggia appena caduta, non soltanto le luci riverberate sui marciapiedi o dentro le vetrine che costeggiano le strade, magari esplose fortissime sui corsi della città attraversati da binari o costeggiati da cassonetti e dehors (è lo sguardo che occupa “My City 15”, significativo esempio di bellezza pittorica dalle ragguardevoli dimensioni, cm. 141 x 80,5), non soltanto le lunghissime scie entro cui trova posto lo scorrere incessante e anonimo delle auto, con i fanalini di coda a punteggiare quel buio reso con maestria attraverso la pacatezza del colore, quegli angoli indifferenti di vita in grigio, non soltanto gli innumerevoli punti di sguardo: ogni cosa sembra fuggire, dileguarsi, come a voler lasciare nient’altro che un ricordo di sé dietro i pennelli dell’artista. Ogni cosa sembra farsi sogno e quasi mistero, laddove la presenza umana è annullata e scompare. Città buttate nell’avvenire, in un simbolico vuoto dove s’aggirano fantasmi e rumori che Longo lascia intuire nel suo mare di silenzi.
Un’urbanizzazione dei nostri anni, delle tante costruzioni e delle sfide, delle metropoli e delle periferie, del loro disordine e della loro bellezza, nel loro avventurarsi verso l’alto e nel rimanere chiuse nei tanti quanto insuperabili agglomerati. La direzione “verticale” prende forma tra le costruzioni della Grande Mela – pare d’avventurarsi tra lo sconvolgimento delle architetture inventato da Christopher Nolan in “Inception”, anche se nell’occasione il regista ci portava in terra di Francia -, sguardi soprattutto dall’alto, grazie a quello che un tempo veniva definito “a volo d’uccello”, in un compito di cui si sono appropriati i tanti droni, a dare tutta la vertiginosità e il modernismo, “la metropoli americana come specchio che riflette gli istantanei cambiamenti della società odierna, scena di un palcoscenico instabile, in perenne trasformazione”, uno sguardo che va ben oltre “My City”, perché al suo interno tutto è labirintico, privo di contatti e relazioni, avvolto nel caos frenetico. Longo usa il termine “disorientamento” chiarendo anche quelle non relazioni che scavano nella incomunicabilità e raggelano le personali relazioni con se stessi, che paiono definitivamente annullate.
Ecco che tutto si fa ricordo in “Interior Space”, quale terza prospettiva, un mondo che appare sommerso e come riscoperto da uno Schliemann dei giorni nostri, “quasi pietrificato”, archeologia d’ambiente, tempo antico nelle ampiezze delle fabbriche dismesse e spazi desolatamente vuoti e angosciosi, quasi surreali, specchio di abbandono o di sopravvivenza ormai lasciata alla deriva, un immobilismo che chiude la porta ad un’ultima speranza. Non un’immagine che faccia ogni sforzo per portare con sé un che di positivo: un’immagine bensì di attesa e di incertezza, di gravosa solitudine, di scommessa sul come sarà il nostro futuro. Chiarisce in punta di penna Cordero: “In queste opere aleggia un sentimento di attesa e di sospensione temporale dove l’incertezza del luogo rende tutto misterioso e in questa solitudine esistenziale il vuoto dentro il tutto ci procura confusione e smarrimento.”
Elio Rabbione
Nelle immagini, alcune delle opere di Marco Longo presentate nella mostra “Direzioni pittoriche”.
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