“Il risveglio” di Pippo Delbono, tra malinconia e suggestioni e ricordi

Sino a domenica 10, all’Astra

 

La malinconia. Qualcuno ci costruisce attorno una vita o tanti momenti o una parte di essa, “è uno di quei giorni che ti prende la malinconia” prende a cantare l’Ornella, già molto prima dei novanta, quelli con l’aspirazione sempiterna del bicchierino di whiskey serale e della cannetta, là sullo schermo, sul palcoscenico dell’Astra, alle spalle del protagonista. Il teatro come un viaggio, come la summa delle emozioni e del periodo buio che si è trascorso, dei dolori che per due anni ti hanno completamente chiuso in casa, i segni evidenti di un logoramento, la depressione feroce e le manciate di antidepressivi, la morte di Bobò che avevi tirato fuori dal manicomio di Aversa e che da anni lavorava con te, lui capace di buttare all’aria soltanto mugolii sconnessi e di ballare ma anche di riempire la scena, per te padre e fratello e maestro, la scomparsa di Bobò come un dolore fortissimo, per cui per cinque lunghi anni “non ho più potuto sentire la sua voce, non ho più potuto vedere una sua immagine”; e il ragazzo afgano e un innamoramento finito e la scomparsa della grande Pina Bausch che a lui e a Bobò era tanto affezionata.

Poi i ricordi e la solitudine si ampliano, “sette anni chiuso in un frigidaire” e la strada che s’incammina verso la vecchiaia, disseminata di Covid e di guerre alle porte di casa che quasi non interessano più perché c’è “la mia guerra” che mi assorbe e mi sconvolge.

Pippo Delbono, seduto al centro del palcoscenico vuoto, una landa beckettiana quasi, è il punto di contatto con il suo “Risveglio” tra il Festival delle Colline e la stagione del TPE – Fondazione Teatro Piemonte Europa. Per alcuni tratti, alle sue spalle, struggente sempre, il violoncello di Giovanni Ricciardi. Parla, racconta, rivive momenti, anche storie antiche come una fuga in moto nei Settanta per andare a sentire il concerto dei Who in Svizzera portandosi dietro un tomo “alto cosi” per preparare diritto privato a Legge, mentre la voce di Roger Daltrey – ricordate il Tommy di Ken Russell? – intona “See me Feel me” e lui, oggi, segue con i movimenti spezzati del corpo, muovendosi, ballando. “La vecchiaia” si potrebbe intitolare lo spettacolo, ma con un gran guizzo felice è diventato “Il risveglio”, legato invisibilmente al precedente “Amore” dove nel finale l’uomo andava a sdraiarsi sotto un albero secco che improvvisamente s’era ricoperto di fiori. Un dormire, quel dormire, che anticipava la chiusura, il quasi annientamento all’interno di un luogo fisico. Quella fuga, dentro gli anni Settanta, dove si facevano le rivoluzioni, liberi e innovativi, dice Delbono, dove si costruivano credo, “mi ricordo una volta”, mentre ora “sono solo canzonette”, inutili, eguali, piatte.

C’è il tempo che passa, c’è la malattia, c’è la vecchiaia che corre intorno e che tutti coinvolge, c’è l’io e la collettività, c’è la paura sempre più forte (“ho paura della vita, dell’amore, di restare senza amore, la paura di restare solo”) che si può combattere con un solo grido, “voglio gente! I want People!”. Perché la morte ha preso a circondarci, i compagni di scena – Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo e Grazia Spinella – portano in scena sacchi e rovesciano sabbia e ne fanno mucchi che prolungheranno ombre scure e che accoglieranno croci. “Quando passerà il tempo di soffrire?” si chiede Delbono, laddove con più convinzione Eduardo diceva che la “nuttata” – ma a un certo punto anche lui ci buttò dietro un punto interrogativo, a ripensarci – doveva prima o poi passare. “Voglio la pace”, ripete, mentre si ascolta ancora il crepitìo delle armi: e quella pace non può che passare attraverso l’abbraccio dei suoi attori, dei suoi compagni di lavoro, di quella che è la sua famiglia. Forse soltanto così il viaggio intrapreso potrà continuare. Perché in fondo la vita è “en rose” e ci si può mettere ancora una volta ad accennare passi di danza. Come sta facendo Bobò, ormai (da) lontano, sullo schermo. “È passato il tempo di soffrire, ora aspetto il tempo di rinascere senza più paura, come un’aquila che sta a lungo nel nido e poi spicca il volo”.

Uno spettacolo coinvolgente, un prima persona che può espandersi attimo dopo attimo anche all’intero pubblico, una poesia alta fatta delle cose normali dell’esistenza, l’umanità e il dolore e la gioia, il risveglio che accomuna dopo un sonno troppo lungo. “Il risveglio” è struggente, è bello anche nei suoi gesti scomposti, imperfetti, è intriso di ricordi e di suggestioni, di lampi che potrebbero portare in mille altre direzioni, sciogliersi e ricomporsi, senza mai perdersi di forza. E di bellezza. Da vedere.

In occasione dello spettacolo, il Cinema Massimo organizza un ciclo dei film di Pippo Delbono: “Guerra” (8 novembre ore 21), “Grido” (9, ore 21), “Amore carne” e “Vangelo” (domenica 10 ore 18,45 e ore 20,30, con introduzione in sala dell’autore).

Elio Rabbione

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