Il rito è finito e lo spettacolo più o meno sfavillante – le contestazioni fuori del Dolby Theater disturbano e insegnano in un mondo che sarà pur sempre dorato ma che a poco a poco, sempre più, prende atto di quanto gli sta attorno e lo coinvolge – pure, Emma Stone ha ricacciato le lacrime e ricucito il suo abito, John Cena dopo una botta di notorietà – con la busta a ricoprire le proprie pudenda, un ingenuo teatrino inventato dal presentatore della serata degli Oscar Jimmy Kimmel se si è scoperto che sotto a protezione già ci stava un tranquillizzante cache-sex – è corso a rivestirsi, i vincitori hanno ripiegato i foglietti preparati per i ringraziamenti d’occasione, le mamme e i papà e le famiglie al completo hanno riabbracciato quegli idoli che a loro hanno indirizzato tutti quei grazie e hanno guardato con occhi ammirati le ben lustrate statuette dello zio Oscar. Fine della storia, ci rivediamo al prossimo anno.
Certe pagine erano già scritte, quando ancora i primi arrivati non avevano ancora messo piede sul red carpet. Era impossibile che Emma Stone non salisse su quel palcoscenico a stringere la sua seconda statuetta (dopo quella per “La La Land”) perché la migliore attrice protagonista non poteva essere che lei: ma noi abbiamo imparato due cose. Abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare in modo incondizionato la grandezza di un’attrice come Sandra Hüller, moglie con l’accusa d’aver fatto fuori il consorte tra le immacolate quanto solitarie nevi francesi e (ancora) moglie, nella “Zona di interesse” di Jonathan Glazer, un miglior film straniero d’obbligo, del comandante del campo di Auschwitz tutta presa dalla normale spensieratezza della sua vita quotidiana – chissà se e quanto i giurati avranno pensato ad attribuirle il premio per il primo ruolo? E abbiamo imparato che, quegli stessi giurati – che già se la sono immeritatamente ritrovata nella cinquina -, hanno oscurato con acume la nativa Lily Gladstone, messa chissà perché al centro dell’attenzione del pubblico e di un film tutt’altro che perfetto come è “Killers of the Flower Moon” di Martin Scorsese, uscito dalla serata a bocca asciutta. Forse tra tutte le colleghe, svetta Da’Vine Joy Randolph, biondissima e spumosa, debordante e stracolma di piume azzurre, un premio come migliore attrice non protagonista a omaggiare – meritatamente, questa volta sì – la sua Mary, chiusa negli abiti dimessi di cuoca nelle sale della scuola chiusa del New England, nei giorni del Natale quando tutti se ne sono andati, la ferita da rimarginare della recente morte del figlio in Vietnam, poche scene e poche frasi ma una presenza costante e indimenticabile attorno alla figura problematica del professor Paul Giamatti.
Pagine già scritte, perché sopra tutti si stagliava l’”Oppenheimer” di quel mago del cinema che è Christopher Nolan, tredici nomination tanto per cominciare. S’è portato via sette statuette, tra cui (e tralascio montaggio, fotografia, colonna sonora) le due maggiori di miglior film e miglior regista, senza tralasciare il riconoscimento a Cillian Murphy (ha ringraziato affermando che “viviamo tutti nel mondo di Oppenheimer”, siamo sul continuo orlo di un precipizio e chi ha dato una faccia allo scienziato dell’atomica lo può ben dire forte), magnifico protagonista che, con buona pace di Bradley Cooper alias Leonard Bernstein, non aveva rivali e a Robert Downey jr., pronto a ringraziare la moglie che lo ha raccolto un giorno come un cucciolo abbandonato e lo ha riportato sulla retta via dalle dipendenze che aveva anni fa attraversato. Forse un possibile ex aequo avrebbe potuto addolcire l’esistenza di Ryan Gosling, come autoironicissimo Ken forse tra le pochissime note positive di un “Barbie” tutto rosa confetto che non ha mai convinto fin dal suo apparire chi scrive queste note. Il per noi sconosciuto “American Fiction” si guadagna la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale mentre quella originale va a Justin Triet e Arthur Harari per il successo dell’anno “Anatomia di una caduta”, già Palma d’oro a Cannes, capolavoro di lettura intimistica, di rari disegni psicologici, di nebbiose tracce di thriller che soddisfano appieno l’intelligenza e la fame di autentico cinema da parte dello spettatore. Una pagina annunciata anche questa.
E poi c’è il capitolo “Io capitano”. Che stava nella cinquina dei film stranieri. Con i colori verde bianco rosso. Ho sempre pensato che ci stesse un po’ stretto, che le ragioni prime di una simile scelta non fossero quelle sinceramente cinematografiche ma altre, affidate alla nostra quotidianità, che Garrone deponendo a terra la malvagità e la durezza di “Dogman” si fosse – con un bel carico di banalità e di aspetti già conosciuti – spinto nel campo dei buoni sentimenti, del buonismo a tutti i costi, non riuscendo a reggere la fuga dei due ragazzi sino in fondo, con convinzione, con robustezza, con un disegno più documentaristico. È chiaro che davanti alla freddezza, alla rappresentazione del Male – quella sì intesa come un “documentario” dentro il racconto – fatta di gesti che rabbrividiscono mentre al di là dello sguardo degli abitanti della casa e del giardino incombono quelle ciminiere che eruttano fumo e ceneri, ai sorrisi e alla banalità delle chiacchiere che riempiono le giornate degli aguzzini nel film di Glazer, “Io capitano” non poteva avere in sé i mezzi autentici per vincere. Quasi per pretenderla, quella vittoria: con buona pace di una certa stampa che sino all’ultimo giorno ha tentato con tutte le forze di esprimere quelle convinzioni.
Elio Rabbione
Nelle immagini, scene di “Povere creature!”, di “Oppenheimer” e di “La zona di interesse”.
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