Contro il logorio della vita moderna. Carosello e i sogni degli italiani

Era il 3 febbraio del 1957 quando la televisione mandò in onda la prima puntata di Carosello portando nelle case degli italiani che possedevano  quella scatola magica con tubo catodico la “réclame”.

 

Nei pochi esercizi pubblici dotati di televisore le trasmissioni rappresentavano un evento che richiamava l’attenzione di molti avventori. C’era persino chi si portava la sedia da casa per potersi godere in santa pace gli spettacoli come Lascia o raddoppia, condotta da un giovanissimo Mike Buongiorno. Ovviamente anche la prima puntata di Carosello incuriosì tutti. Partito con un ritardo di un mese sulla data annunciata il programma fu frutto un compromesso tra la dirigenza della televisione pubblica e i rappresentanti delle maggiori imprese del paese che avevano intravisto l’incredibile potenzialità comunicativa del mezzo televisivo per le loro attività commerciali. L’idea di produrre filmati con brevi scenette venne suggerita dalla Rai per evitare eventuali critiche da parte di chi, pagando il canone, non avrebbe gradito la pubblicità in tv. La produzione di questi cortometraggi fu demandata all’industria cinematografica nazionale garantendo, nel rispetto di regole precisa, un buon livello d’inventiva e qualità. Per quasi vent’anni, fino al 31 dicembre del 1976 – quando toccò a Raffaella Carrà, con un certo aplomb, fare l’annuncio di commiato – furono davvero in tanti a non perdersi una sola delle puntate che andavano quotidianamente in onda dalle 20,50 alle 21,00. Per i più piccoli era diventato un appuntamento ormai tradizionale, quasi proverbiale: immediatamente dopo Carosello, “tutti a nanna”. Edmondo Berselli, nell’introduzione a “Tutto il meglio di Carosello”, pubblicato da Einaudi nel 2008 con tanto di allegato dvd, raccontò così l’attesa di quell’evento: “Alle nove di sera, dopo il telegiornale, apertosi l’allegro sipario della sigla con maschere, trombe e mandolini, passano nel bianco e nero della Rai i carburanti della Shell e la potente benzina italiana Supercortemaggiore, la famosissima macchina per cucire Singer, ornamento e risorsa di tutte le operosità domestiche, il Cynar a base di carciofo efficace contro il logorio della vita moderna, i favolosi e galeotti cosmetici di l’Oréal di Parigi: così che a rivedere i prodotti presentati nella primissima messa in onda di Carosello si ottengono già diversi segnali sulla veloce modernizzazione a cui l’Italia si preparava”.

Un fenomeno di costume, con le sue furbizie e le ingenuità che nel tempo portarono la pubblicità a perdere la propria innocenza. Solo due volte, venerdì santo a parte, l’appuntamento giornaliero con quelli che nel tempo diventarono i “consigli per gli acquisti”  fu sospeso: quando a Dallas, il 22 novembre del 1963, fu assassinato il presidente Kennedy e il 12 dicembre del 1969 quando una bomba provocò la strage di Piazza Fontana a Milano. La sera dell’annuncio della chiusura di Carosello, lasciò attoniti molti telespettatori. Le parole della Carrà, nonostante fossero state pronunciate con grazia nella sera di San Silvestro del ‘76, fecero l’effetto di una sentenza capitale. Il Carosello non c’era più? E perché mai? Il mercato della pubblicità si stava trasformando in senso più moderno e dinamico? I produttori stavano diventando insofferenti verso i limiti di tempo imposti da questa modalità di reclamizzare i loro prodotti? Era difficile farsi una ragione, immaginare che il “logorio” della modernità travolgeva anche slogan come “Ullallà, è una cuccagna”, “Non è vero che tutto fa brodo”, “Omsa, che gambe”, “Ho un debole per l’uomo in Lebole”, “A scatola chiusa compro solo Arrigoni”. I filmati di Carosello portavano la firma di grandi registi come Sergio Leone, i fratelli Taviani, Ermanno Olmi e molti attori famosi prestavano la loro faccia degli sketch televisivi, da Totò a Gilberto Govi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Aldo Fabrizi, Tino Scotti, il grande Eduardo De Filippo.

I personaggi erano entrati a far parte dell’immaginario collettivo di una nazione, protagonisti di una indemoniata sarabanda. Calimero, piccolo e nero con l’olandesina della Mira Lanza stava insieme a Cimabue (“fai una cosa né sbagli due”) mentre la linea di Cavandoli senza pronunciare una parola  cercava la titina dentro una pentola a pressione della Lagostina. Unca Dunca, uscito dalla penna di Bruno Bozzetto, sognava la Riello mentre l’Omino coi baffi preparava un caffè con la moka Bialetti a Lancillotto e ai cavalieri della tavola rotonda. Il caffè, ovviamente, era offerto dalla torinese Lavazza e lo portavano Carmencita e il suo “caballero misterioso”. Da un angolo della strada balzava fuori, con i confetti Falqui, Tino Scotti che muovendo i baffi  suggeriva  come bastasse “la parola”. Nel gran bailamme di Carosello restavano impresse frasi celebri: “E che, ci ho scritto Jo Condor?”, “E la pancia non c’è più”. grazie all’Olio Sasso, “Gigante buono, pensaci tu”, “Miguel-son-sempre-mi” e il suo merendero, la famiglia degli Incontentabili alla ricerca di un elettrodomestico che li accontentasse. Ubaldo Lay, fasciato nel suo impermeabile da tenente Sheridan sorseggiava un’aperitivo Biancosarti mentre discuteva con Cesare Polacco nei panni del calvo ispettore Rock della Brillantina Linetti. Il sorriso smagliante di Carlo Dapporto (si lavava i denti con la Pasta del Capitano) era rivolto all’attore Franco Cerri, l’uomo in ammollo che vedeva lo sporco andar via dalla sua camicia a righe mentre la biondissima svedese Solvi Stubing invaghiva tutti sussurrandoci “chiamani Peroni, sarò la tua birra”.  C’era Virna Lisi che “con quella bocca può dire ciò che vuole”, mentre Ernesto Calindri stava perennemente seduto al  suo tavolino in mezzo al traffico caotico a bersi un estratto di carciofo (il Cynar) “contro il logorio della vita moderna”. Come si poteva rinunciare a quel motivetto della sigla (“Tatataratararatarara..”) che accompagnava l’apertura del sipario del teatrino in una festa di trombe e mandolini ?

Il paese per qualche tempo si avvitò in una disputa tra chi denunciava gli effetti dell’educazione di massa al consumo e chi, all’opposto, metteva in risalto l’arte della pubblicità e la “pubblicità come arte”. Nell’estate del 1976, dalle pagine del Corriere della Sera Enzo Biagi anticipò un “coccodrillo” per Carosello. Scrisse : “ Mostrava un mondo che non esiste, un italiano fantastico, straordinario: alcolizzato e sempre alla ricerca di aperitivi o di qualcosa che lo digestimolasse; puzzone, perennemente bisognoso di deodoranti e detersivi, sempre più bianchi; incapace di distinguere fra la lana vergine e quell’altra, carica di esperienze; divoratore di formaggini e scatolette, e chi sa quali dolori se non ci fossero stati certi confetti, che, proprio all’ora di cena, venivano a ricordare come, su questa terra, tutto passa in fretta”. Carosello era nato da un compromesso fra il mercato e le famiglie, fra la narrazione e lo slogan, proponendo un mondo immaginario, irreale ma al tempo stesso ironico, disincantato. E questo giustifica un ragionevole filo di nostalgia.

Marco Travaglini

 

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