Lo straining

In un precedente articolo avevo trattato il tema del bossing(http://www.iltorinese.it/2022/09/07/il-bossing/) e delle sue ripercussioni sull’ambiente di lavoro; avete sicuramente sentito parlare di mobbing e delle problematiche ad esso connesse, dalla salute di chi ne sia vittima alla quantità di cause pendenti nei vari tribunali visto l’aumentare dei casi.

E’ relativamente recente, invece, il neologismo “straining” (dall’inglese “to strain”, forzare, costringere).

A differenza del mobbing, dove il datore di lavoro, un superiore gerarchico o anche un semplice collega manifesta comportamenti aventi carattere intenzionalmente persecutorio e vessatorio, che si manifestano con offese, discriminazioni, umiliazioni, aggressioni, riduzione delle possibilità di carriera, che possono nel tempo portare all’insorgenza di patologie psico-fisiche anche gravi nella vittima, lo straining consiste in azioni moleste, vessatorie, discriminatorie isolate, attuate una tantum, che inducono comunque in chi ne sia vittima una condizione di stress.

In altre parole, a differenza di quanto accade nel mobbing, nello straining non vi è continuità, non potendolo quindi assimilare ad un piano criminoso.

Fu Harald Ege a coniare il termine dopo essersi reso conto che molti suoi pazienti manifestavano sintomi tipici di una condotta vessatoria pur non trattandosi di azioni ripetute nel tempo; questo significava non poter considerare tali comportamenti “mobbing” mancando la reiterazione del comportamento nei confronti della vittima: in tal caso, le vittime sarebbero rimaste prive di tutela giuridica, non esistendo le condizioni di mobbizzazione.

I comportamenti tipici dello straining vanno dalla privazione degli strumenti per svolgere il lavoro alla mancata convocazione a riunioni ed incontri, al demansionamento, al rimprovero immotivato.

Occorre, tuttavia, distinguere lo straining dal semplice stress correlato alla mansione lavorativa, alla complessità delle mansioni svolte, dal particolare luogo di lavoro o, in generale, da ciò che non sia provocato volutamente al fine di creare nocumento.

E’ innegabile che essere demansionati possa tradursi in una perdita di autostima, in un peggioramento della qualità della propria vita e poiché lo stress è estremamente individuale alcuni soggetti manifestano i sintomi dello stress anche dopo un solo episodio vessatorio.

Come riconoscere lo straining e distinguerlo da comportamenti legittimi nel rapporto gerarchico?

Harald Ege ha schematizzato sette punti che consentono di riconoscere lo straining.

1) L’evento deve avere luogo in ambito lavorativo.

2) Le conseguenze della azione ostile devono essere costanti;

3) La situazione di conflitto deve durare almeno 6 mesi;

4) Le azioni subite devono appartenere ad almeno una delle seguenti categorie:

attacchi ai contatti umani
isolamento sistematico
demansionamento o privazione di qualsiasi incaricoprofessionale
danni alla reputazione della persona
violenza o minacce di violenza, sia fisica che sessuale;

5) La vittima dello straining si deve trovare in una situazione di costante inferiorità.

6) La vicenda ha raggiunto almeno la II fase del Modello individuato da Ege (Fase I: azione ostile; Fase II: conseguenza lavorativa percepita come permanente; Fase III: conseguenze psicofisiche; Fase IV: uscita dal lavoro);

7) Deve sussistere un intento persecutorio (non deve trattarsi di un evento involontario).

Non dimentichiamo che lo straining provoca sia un danno biologico (stress, disagi psicofisici) che professionale (perdita di chance, mancato aggiornamento). Per unacorretta diagnosi da parte del medico e per un corretto instradamento della causa civile e/o penale si rende necessario, quindi, valutare tutti i cambiamenti intervenuti in un soggetto in seguito allo straining.

Anche chi ci circonda, però, può fare molto percependo i minimi cambiamenti di umore, di comportamento, di abitudini aiutando chi sia vittima di straining ad agire senza indugio, anche ai fini di una tutela risarcitoria.

Sergio Motta

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