IL PUNTASPILLI di Luca Martina
Le due crisi economiche innescate dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina hanno provocato un massiccio intervento di sostegno da parte dei governi e, con questo, un ulteriore aumento del già elevato livello del debito mondiale.
Ma ad essere indebitati non sono solo i governi ma anche le famiglie e le aziende e a fare il punto della situazione, mettendo a confronto i debiti diversi paesi, ci ha pensato il recente rapporto, il Global Debt Monitor, dall’ Institute of International Finance.
La, piccola, buona notizia è che sebbene il debito globale rimanga, sia in valore assoluto che in rapporto al PIL, enorme (305.000 miliardi di dollari, il 333,2% del PIL) il suo valore è sceso nel 2022 di 4.000 miliardi ed è la prima volta dal 2015.
La cattiva notizia, sottolineata dal sibillino titolo del rapporto dell’IIF “Crepe nelle fondamenta”, è che quest’anno il trend di crescita è ripreso con forza con 8.300 miliardi aggiunti nei soli primi tre mesi del 2023 ed è ora 45.000 miliardi più alto del livello pre-pandemico.
Proviamo allora a comprendere come il debito sia diventato una costante presente in tutti i settori dell’economia mondiale e come potrebbe evolversi la situazione futura.
Cominciamo con il dire che il nostro pianeta ha da sempre offerto nuovi territori e nuove popolazioni da esplorare, conoscere e, qualche volta sfruttare (con i rischi che tocchiamo ormai con mano ogni giorno).
L’ingegno dell’uomo ha contribuito al progresso generando costanti, e nell’ultimo secolo in particolare, accelerate innovazioni.
Così facendo, nuove risorse, popolazioni e tecnologie hanno fatto progredire l’economia ed il benessere (in particolare in quella parte del mondo, l’occidente, che prima si è attrezzata per questa avventura).
Ma in un contesto che offriva così grandi opportunità perché accontentarsi di quanto si ha a propria disposizione? Perché limitarsi ai propri, spesso scarsi, mezzi?
Il debito è stato così una delle innovazioni che più hanno plasmato il mondo nel quale oggi viviamo.
Il fuoco, la ruota, la scrittura sono state invenzioni che hanno avuto un impatto sull’umanità ben più evidente (e risaputo) ma la possibilità di fare leva sulle proprie idee e sulla lungimiranza (non priva, spesso, di cinici calcoli) di chi fornisce un capitale per poterle sviluppare, ha costituito un prepotente acceleratore di crescita e di opportunità.
L’origine del debito si può fare risalire ai mercanti che nell’antica Mesopotamia, 3.500 anni prima di Cristo, pochi secoli dopo la comparsa della scrittura, scrivevano su tavolette di argilla, marchiate con il sigillo del debitore, i loro crediti.
Ma la nascita del debito nella sua forma “organizzata” (con persone ed istituzioni dedicate a farne una vera e propria attività: le banche) ci riporta all’epoca del Rinascimento e guerre, conquiste ed esplorazioni si sono succedute grazie, anche, ad esso per secoli.
Negli ultimi 60-70 anni, però, il gioco, riservato in passato ad “élite” (Stati, teste coronate, nobili, avventurieri e qualche geniale e convincente inventore) ha fatto un salto di qualità ed è diventato fruibile a tutti.
Non a caso negli anni ’50, negli Stati Uniti, cominciano a comparire le prime carte di credito: è finalmente possibile spendere quello che non si ha.
La democratizzazione del debito è stata certamente un apprezzabile sottoprodotto della fine dei totalitarismi e del dilagante entusiasmo per il libero mercato.
Grazie ad esso non servivano più capitali accumulati dalle generazioni precedenti per acquistare la casa dove abitare o, più modestamente, la nuova automobile.
Idee e opportunità, ampiamente disponibili, diventavano finalmente raggiungibili grazie alle banche, prima, e, successivamente, all’universo in continua espansione degli investitori pronti a prestare il loro denaro (a governi e società) per una adeguata remunerazione.
E, sia detto chiaramente: non è certo un problema contrarre un debito per perseguire un progetto che genererà (per sé o per il Paese) una ricchezza ben maggiore del suo costo.
Senza debito occorre accontentarsi di quanto si ha a disposizione e la crescita tecnologica procede a ritmo modesto per mancanza di adeguate risorse finanziarie.
Il debito crea nuovi consumi (di risorse e di prodotti) e nuova occupazione (per produrre e sviluppare prodotti e servizi).
Tutto bene dunque? Per un po’ di tempo abbiamo certamente potuto ammirare, rilassati nelle nostre poltrone, solo il lato illuminato della luna.
L’indebitamento è andato accumulandosi alimentando così la crescita dell’economia, dell’occupazione e, in ultima analisi della prosperità.
Negli Stati Uniti il debito complessivo (pubblico e privato) è salito dal 160% del PIL (più di una volta e mezza la ricchezza prodotta nell’anno) del 1979 a circa il 350% attuale.
In Europa siamo arrivati a livelli superiori al 365% ed in Giappone al 610%: tra le 4 e le 6 volte il prodotto di questi Paesi.
Ma, si dirà, poco male: il debito genera ricchezza e prosperità… o no?
Il problema del debito è che fino a che se ne fa un utilizzo avveduto, generando, con il suo utilizzo, risultati superiori a quanto si dovrà restituire (comprensivo degli interessi pagati) il circolo è virtuoso.
L’equilibrio diventa precario quando il debito viene utilizzato in modo poco efficiente: è come se il corpo (l’economia) si fosse assuefatto al suo effetto stimolante e ne chiedesse sempre di più senza però riuscire a tornare più in piena forma.
Questa situazione si verifica perché le opportunità di investimento col tempo e la scomparsa di nuovi territori e popolazioni da sfruttare, e, quel che è peggio, la stagnazione della crescita demografica, tendono a diventare meno abbondanti ed una certa quantità di debito, accumulato quando le condizioni erano più favorevoli (e per questo con minore prudenza), diventa più difficile da rimborsare.
Se non si è iniziato a ripagare il proprio debito quando se ne aveva la possibilità diventa più difficile quando la situazione è meno propizia.
Il ciclo del debito è ritenuto per questo da molti economisti come una delle principali cause dei “cicli economici” (le oscillazioni da situazioni di estremo benessere a quelle di crisi).
Si arriva periodicamente ad un punto dove i creditori chiedono di riavere i denari che avevano prestato e questo riduce le possibilità di spesa e di investimento dei debitori, complica la vita alle banche che, non essendo in grado di rientrare delle somme prestate, smettono di concedere credito e ci si trova, senza quasi capirne il motivo, nel mezzo di una recessione.
L’allarme rosso scatterebbe, secondo alcuni economisti, quando il debito complessivo supera il 250% del Pil.
Nel 2008 il meccanismo sembrava essere sul punto di generare una crisi simile a quella del 1929 ma le banche centrali, acquistando le obbligazioni (il “debito”), evitando così che perdessero valore o che portassero al fallimento i debitori, e concedendo denaro a basso costo al sistema bancario, hanno reso possibile un riassestamento ordinato della situazione.
L’indebitamento si è così, per qualche anno, stabilizzato ma non, ridotto (ad eccezione, per un breve periodo, degli Stati Uniti).
Il debito ha cambiato, dunque, nel tempo la propria natura: da lievito in grado di fare crescere economie e benessere (passando attraverso sanguinosi conflitti) a una zavorra che oggi rappresenta un potente freno alla crescita futura.
Non è detto che tutto ciò condurrà, alla fine, al baratro (come pensano i più pessimisti) ma potrebbe venire a mancare nei prossimi anni quel propellente che ha consentito all’economia mondiale, per molti decenni, di crescere al di sopra delle proprie possibilità.
Il noto investitore e filantropo Ray Dalio ha descritto molto bene quanto potrebbe avvenire nei prossimi 10 anni (più complesso e frutto del caso è fare previsioni di più breve termine).
Nel suo studio “Productivity and Structural Reform: Why Countries Succeed & Fail, and What Should Be Done So Failing Countries Succeed” effettua una attenta ed acuta disamina dei fattori di successo (e di insuccesso) dei principali Paesi mondiali delineando così quali saranno, anche dal punto di vista degli investimenti, quelli che con maggiori probabilità raccoglieranno i frutti, sempre più rari e meno succosi, della crescita.
La “formula della felicità” della crescita dipenderebbe da due fattori: il livello di indebitamento e la crescita della produttività.
Il debito influenzerebbe di più il futuro immediato (ma nel tempo gli effetti positivi e quelli negativi dovrebbero compensarsi) mentre la produttività ha effetti più duraturi, nel lungo termine.
Ray Dalio ha stimato in questo modo la crescita economica dei principali Paesi nei prossimi 10 anni ed il nostro Paese si trova al penultimo posto (peggio di noi solo la Grecia).
Ad essere favoriti saranno i Paesi che hanno un minor debito in rapporto al loro reddito ed una sua crescita inferiore a quella del prodotto nazionale (il PIL).
Ma questo non basta: nel tempo entrano in ballo altre variabili fondamentali come la popolazione in età lavorativa e la produttività.
Una minore disponibilità di persone in grado di dare il loro contributo ai processi produttivi limita la crescita economica (il lavoro è uno dei “fattori di produzione”) ma d’altro canto non è sufficiente disporre di una forza lavoro abbondante se questa non è adeguatamente preparata e pronta a rispondere alle richieste delle imprese, se non è, in altre parole, “produttiva”.
Il debito, dunque, è solo la punta di un pericoloso iceberg che minaccia la navigazione dell’economia mondiale e, in particolare, dell’Italia.
Proprio in questi giorni, per finire in bellezza, oltreoceano crescono le preoccupazioni legate al raggiungimento del tetto del debito *.
Occorrerà un non semplice accordo bipartisan tra il partito del Presidente e l’opposizione repubblicana, per potere elevare il livello della spesa, spazzando via le nuvole che si sono accumulate negli ultimi mesi.
Il cielo tornerà probabilmente presto azzurro ma le nubi in lontananza non potranno essere per sempre ignorate. E neanche le crepe che si intravedono nelle fondamenta…
* https://iltorinese.it/2023/05/16/il-tetto-che-scotta/
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