Un coloratissimo van Gogh, tra la sua arte e un improbabile “cafè” parigino

Oggi ultima replica dello spettacolo scritto, diretto e interpretato da Andrea Ortis

È stato forte l’affetto che ha legato Vincent van Gogh a suo fratello Theo, più giovane questo di quattro anni, sopravvissutogli sei mesi soltanto. Una figura di riferimento e d’appoggio, il primo a riconoscerne la grandezza, una figura di pace interiore e
serenità entro cui rifugiarsi in ogni momento, al riparo delle contrarietà e delle tragedie della vita, la mente sconvolta, la quasi totale povertà, lo scarso
riconoscimento della sua epoca verso un’arte che sino alla morte tardò ad affermarsi.
Di quell’affetto raccontano le lettere scambiate tra i due fratelli, gli accadimenti, le psicologie e le confessioni, un mezzo altresì per gli storici per gettare una luce dettagliata e profonda su circa vent’anni di storia – la prima lettera data all’agosto del 1872, le ultime con la morte di Vincent nell’estate del 1890 -, 668 lettere del pittore al
fratello, la maggior parte in olandese, molte in francese, un paio in inglese. Un patrimonio che la vedova di Theo, Johanna Bonger, pensò a pubblicare nel 1914, soltanto poco più di una dozzina di anni fa il Van Gogh Museum di Amsterdam ha dato una veste completa all’importante, unico carteggio.
È stato altrettanto forte l’affetto che un uomo di teatro come Andrea Ortis ha riversato
sull’artista, creando grazie a quelle lettere, in occasione del 170mo anniversario della
nascita, uno spettacolo come “Van Gogh Cafè”, tutto suo nella scrittura, nella regia e nell’interpretazione. Ma non so se gli abbia reso un omaggio del tutto convincente. C’è il segmento “Van Gogh”, i primi disegni, il lavoro all’estero, il maldestro rapporto con il padre e la vocazione religiosa che lo porta ad essere predicatore laico e ad assistere in
una regione carbonifera del Belgio minatori e ammalati, secondo il più puro spirito francescano, condividendo la casa e il cibo e persino gli indumenti; c’è tutta la passione per l’arte e per la vita artistica, ci sono gli innamoramenti tutti naufragati, c’èl’amore caritatevole verso Sien, ex prostituta già con un bambino al collo e in attesa di
un altro, che Vincent ospita e spinge alla redenzione, pur nel mezzo di ogni privazione
quotidiana: la donna, stanca di quella vita di stenti, tornerà al vecchio mestiere. Ci sono i primi capolavori e la scoperta della pittura giapponese, l’incanto di Parigi, tra i tetti di rue Lepic e il Moulin de la Galette, e l’incontro e la frequentazione (con
qualcuno, anche l’amicizia, con Paul Signac e con Gauguin, non sempre al riparo da forti incomprensioni) di altri artisti, c’è la “casa gialla” di Arles e la camera in cui visse, c’è la terrazza del caffè o la notte stellata, ci sono gli autoritratti non ultimo quello dell’orecchio mozzato avvolto in una benda chiara, ci sono i soggiorni negli ospedalipsichiatrici, c’è l’ultimo soggiorno a Auvers-sur-Oise e il colpo di pistola fatale. C’è il mondo onirico della bellezza (“sogno di dipingere, poi dipingo i miei sogni”), e quello della quotidianità ritrovato nelle lettere.
Che dovrebbe essere la spina dorsale dello spettacolo . Che invece si perde spesso in una lettura scolastica, nel frastuono di un passaggio di un treno, nella cattiva chiarezza di chi è incaricato alla lettura. Troppe cose vanno perse e quel che dovrebbe chiarire e approfondire non fa altro che creare
confusione. Altro è al contrario ridondante: per cui, se da un lato è bello vedere un’attrice entrare nelle vesti di Agostina Segatori, con il suo buffo cappellino rosso, o della Mousmé, con la sua camicetta a righe rosse e blu, non credo che abbia pieno merito per entrare in una “commedia” musicale un approfondimento come quello
ascoltato sui “Mangiatori di patate”.
Dall’altro lato, poi, altra area del tutto autonoma, che coltiva una vita tutta sua, c’è il “cafè”. Dove capita un antiquario di fine ottocento che per inspiegato caso tiene tra le
mani, e sfoglia con l’intero personale, un libro che racchiude la lunga corrispondenza
tra i due fratelli; c’è la cantante (Floriana Monici, gran bella voce) che non vuole
essere seconda a nessuno e c’è la ragazza (Chiara Di Loreto, eccellente anche lei)
dell’infaticabile corpo di ballo che senza sgomitare troppo rappresenta la volontà di
emergere e il nuovo futuro, c’è l’orchestra di cinque elementi, bravissimi, capitanati da Antonello Capuano autore degli arrangiamenti e delle composizioni, ci sono le coreografie di Marco Bebbu e i costumi di Marisa Vecchiarelli, ci sono le scene diGabriele Moreschi, vere protagoniste dello spettacolo, dispensatrici d’immagini che
vanno dirette all’occhio dello spettatore e soprattutto a chi sia un patito di tutta l’opera di van Gogh.
Ma questo è tutt’altro, un mondo a sé, la creazione perfetta per un’altra produzione. Ortis è alla ricerca di un’atmosfera? Ma allora a che serve
infarcire di exploit canori fuori epoca l’intera serata? Che senso ha accomunare attraverso  le traversie del pittore le voci di Edith Piaf e di Charles Aznavour e di Yves Montand? Che centra “Milord” se da un momento all’altro ti può venire in mente la
rossa criniera di Milva? Nonostante tutta la personale convinzione dell’onesta drammaturgica di Ortis, siamo obbligati a portarci a casa alcuni brani soltanto dello spettacolo e nell’intenzione di un omaggio è davvero un peccato. Comunque un Alfieri
gremitissimo e plaudente, per l’emozione di tutti gli attori raccolti in proscenio. Ultima replica oggi, domenica 5 febbraio, alle ore 15,30.
Elio Rabbione
Le immagini dello spettacolo sono di Giulia Marangoni
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