Un nuovo Statuto dei Lavoratori?

Si ritorna a parlare, qua e là, di riscrivere un nuovo “Statuto dei Lavoratori” funzionale alle nuove regole del mercato del lavoro che hanno fatto capolino in questi ultimi anni nel panorama sociale ed economico del nostro paese.

 

La richiesta non è affatto peregrina anche se, soprattutto su
questi temi, occorre sempre distinguere dove finisce la propaganda e dove inizia un vero progetto
politico. Certo, quando si parla di regole che disciplinano il mercato del lavoro è del tutto evidente
che, con lo scorrere del tempo, si deve intervenire purchè i diritti dei lavoratori si rafforzino e non
vengano scalfiti. Anche perchè la grande lezione politica, culturale, sociale ed etica dello Statuto
dei Lavoratori è quella di aver introdotto principi e valori che non possono essere messi in
discussione in virtù dell’adeguamento ad una maldestra modernità. Sotto questo aspetto c’è una
grande somiglianza con il ruolo e la funzione della Carta Costituzionale.
Ora, è ormai sufficientemente noto – perchè appartiene alla storia – come è decollato lo “Statuto
dei Lavoratori” votato dal Parlamento Italiano nel maggio del 1970. Al di là dei vari giudizi politici e
culturali e al netto degli altrettanto noti pregiudizi ideologici, è acclarato che grazie al coraggio e
alla determinazione politica dei Ministri del Lavoro Brodolini e soprattutto di Carlo Donat-Cattin, fu
possibile adottare un atto che ha segnato in profondità la storia democratica del nostro paese.
“Abbiamo portato la Costituzione nelle fabbriche” disse Donat-Cattin alla Camera nel suo
intervento prima del voto finale sulla legge. Una legge che passò malgrado l’astensione dei
comunisti – che è sempre bene non dimenticare – e che segnò un punto di svolta e di non ritorno
nelle relazioni sindacali e, soprattutto, un deciso cambio di passo sotto il versante del
riconoscimento dei diritti democratici e liberali dei lavoratori. Una legge che confermò anche la
profonda natura popolare, sociale e democratica della Democrazia Cristiana malgrado il radicato
e dogmatico pregiudizio di larga parte della sinistra italiana che continua ad individuare nella
stagione democristiana un periodo nefasto e nocivo per la stessa qualità della nostra democrazia.
Ma, se quello “Statuto dei Lavoratori” segnò un passo in avanti di straordinaria importanza per la
nostra civiltà democratica, oggi forse è necessario un nuovo intervento che, senza mettere affatto
in discussione le conquiste sancite in quello storico Statuto, riesca a cogliere e soprattutto a
tutelare il nuovo ed inedito panorama professionale che si è aperto nel nostro paese con
l’innovazione tecnologica da un lato e la forte e ormai endemica precarietà dei rapporti di lavoro
dall’altro. Un intervento correttivo che, però, richiede intelligenza politica, coerenza culturale e
coraggio istituzionale. Esiste una sola domanda, fondamentale e decisiva, se si vuole procedere in
questa direzione: e cioè, quale partito e quale coalizione si fa carico di un progetto che ha una
valenza politica ed un impatto concreto sulle persone di portata storica? Certamente non il Pd
che ormai rappresenta gli interessi borghesi, alto borghesi, aristocratici, dei cosiddetti “garantiti” e
tutto ciò che non ha più nulla a che fare con gli interessi e le istanze dei ceti popolari. E questo al
netto delle chiacchiere virtuali dei capi delle infinite correnti che scorrazzano in quel partito. Sul
versante del Centro forse sarebbe il momento che il progetto politico di quel partito non si
fossilizzasse solo e soltanto sugli interessi dei ceti medio alti con un approccio sostanzialmente
liberal/liberista ma guardasse con maggiore attenzione anche e soprattutto alle istanze, alle
domande e alle richieste dei ceti popolari. Forse toccherà proprio al centro destra e, nello
specifico, all’antica “destra sociale” di Giorgia Meloni affrontare questo tema spinoso, delicato ma
oltremodo necessario per garantire e tutelare masse crescenti di lavoratori, di inoccupati e di
precari? Lo vedremo cammin facendo.
Al riguardo, chi ancora si riconosce nella tradizione e nel filone del cattolicesimo sociale italiano
forse adesso dovrebbe battere un colpo. Per non essere complici dell’inerzia da un lato e per non
regalare ad altri una rappresentanza politica, culturale e sociale che sarebbe solo la conseguenza
della nostra pigrizia ed indifferenza. Una cultura politica non si può sacrificare sull’altare di una
maldestra ed equivoca modernità. E su questi temi gli epigoni del cattolicesimo sociale, che
conserva tuttavia una grande modernità ed attualità, non possono voltarsi da un’altra parte.

Giorgio Merlo

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