Italo Calvino

La sconfitta non è un destino

Il paese del giorno dopo le elezioni è riconoscibile dal colore blu scuro delle mappe che disegnano il responso delle urne.

Una tonalità che racconta, ancor più dei numeri e delle percentuali, la vittoria larga e netta della destra. Una vittoria politica sugli avversari di centrosinistra, sinistra, centro e penta stellati che – sommati gli uni agli altri, anche se l’esercizio algebrico è un poco azzardato – avrebbero reso non solo contendibile la sfida ma persino possibile la vittoria. Ma, com’è noto, le alleanze sono state realizzate solo nel campo della destra a tradizione meloniana mentre nel mai decollato campo largo progressista ci si è, chi più e chi meno, impegnati per l’ennesima volta nella diaspora. E poi ci si lamenta che i voti mancano e che un terzo abbondante di elettori preferisce disertare le urne. Il campo largo progressista è rimasto un’illusione, dimostrando da parte di tutti come i rancori e le antipatie, le divisioni e le autoreferenzialità hanno prevalso una volta di più su una possibile alleanza costruita su pochi punti chiari e comprensibili, capaci di trovare spazio e riscontro come presenza popolare, con una connotazione culturale e sociale leggibile, un modo di sentire in qualche misura comune. L’aveva già scritto, riferendosi ai già pessimi risultati per la sinistra nel 2018, un sociologo intelligente come Marco Revelli: non si tratta di una “sconfitta storica” che quella del 18 aprile del 1948. Allora la sinistra del Fronte popolare, in un mondo diviso in due, venne sconfitta dalla Dc atlantista e degasperiana  “ma non uscì di scena”.  Luciana Castellina scrisse che allora si “ritornò al lavoro e alla lotta, perché quell’esercito era stato battuto in battaglia ma c’era, aveva un corpo, messo in minoranza ma consistente, e  ritornò a tessere la propria tela”. Oggi pare come quattro anni fa, in un quadro politico tutto virato a destra, che la sinistra e i progressisti si sono fatti da parte e che gli elettori si sono limitati a sfilare accanto per andare altrove, astenendosi o dividendosi. Altro che argine democratico! Prendiamo ad esempio il Pd. Il compito più arduo che il maggior partito d’opposizione ha di fronte è la ricostruzione di se stesso e di un campo politico sotto tutti gli aspetti: organizzazione, programma e valori, alleanze. Dopo le sconfitte occorre impegnarsi a rovesciare la piramide, modellando un partito più inclusivo, meno verticale,  dove le diverse parzialità non gareggiano ma si confrontano, ridando a iscritti ed elettori non soltanto la parola  ma la capacità di incidere sulle scelte e di decidere. Con un ricambio forte delle classe dirigente che è rimasta sostanzialmente la stessa da prima di Renzi a dopo Renzi, Zingaretti e Letta. Molti dirigenti di lungo corso vanno ringraziati per ciò che hanno fatto,invitandoli a farsi da parte se non ci arrivano da soli. E a fare come Bersani che, con generosità, si è impegnato nella campagna elettorale ( e prima..) spiegando che non è necessario avere uno scranno dove sedersi nelle istituzioni per fare politica. Se si vuole rifondare la politica, la cultura e il progetto di una sinistra moderna e fare del Pd un partito saldo nei principi, robusto nell’impianto programmatico, autenticamente federalista, capace di sintesi sulle questioni più delicate e controverse ma soprattutto un partito di popolo, veramente democratico e a larga adesione, occorrono scelte nette. In caso contrario difficilmente ci si potrà sottrarre da una più o meno lenta e irreversibile agonia che condurrà ai margini della vita politica. E’ indispensabile raccogliere tutte le opposizioni attorno a un tavolo e ragionare seriamente sul futuro, ascoltandosi, cercando i punti in comune, le cose che uniscono  con umiltà, decisioni e responsabilità collettiva. E’ un dovere di tutti costruire le premesse di un confronto e di un clima positivo. Ricordiamo cosa scrisse Italo Calvino: “D’ogni intesa politica, temporanea o duratura che sia, quello che conta è il clima, cioè le energie morali che mette in moto”. Ricordiamoci che la modernità è conflitto, oltre che dialogo. E in un conflitto è necessario schierarsi. Sempre e non solo a parole nel tempo delle elezioni, magari andando ai cancelli delle fabbriche tre giorni prima del voto per farsi un selfie e far imbufalire quei lavoratori che non si sentono più rappresentati. Andare nelle periferie, nei quartieri, ascoltare e confrontarsi con la gente anche se questo può esporre a critiche, contestazioni. Parlare e incontrare i cittadini non può ridursi solo alle campagne elettorali, e nemmeno ci si può rifugiare in riunioni tra pochi al chiuso per raccontarsela tra se stessi o badare solo ai propri interessi di bottega, alle dinamiche personali di questo o quella per poi finire come è accaduto oggi con un pugno di mosche in mano.  La sinistra deve dare voce  agli ultimi, a chi ha meno possibilità e più problemi di fronte alle difficoltà di ogni giorno. E’ un modo di essere utili e necessari che è del tutto moderno e attuale. La sinistra deve sapersi innovare e stare nella modernità sempre, con un suo punto di vista, facendosi parte nel conflitto che la attraversa, pena lo smarrirsi, il trasformarsi in un puro contenitore senz’anima. La sinistra è radicamento nella modernità ma è anche,per usare un’espressione cara a Norberto Bobbio, lotta per l’uguaglianza. Questo dovrebbe essere il punto di vista della sinistra. Un punto di vista insopprimibile visto che la sinistra esiste in natura e ci sarà, qualunque nome l’accompagni, finché sarà necessario battersi per diritti, uguaglianza, giustizia e  libertà.

Marco Travaglini

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