Quando sono i giovani ad insegnare agli anziani

Fin da piccoli ti insegnano ad ascoltare gli adulti, in particolare i nonni o gli anziani della comunità di riferimento, per imparare i segreti della vita, per evitare di commettere errori, per crescere seguendo il loro esempio.

Giustissimo, soprattutto in una società dove quarant’anni (mediamente due generazioni) non siano troppi per applicare le regole del passato; nonno ha fatto la guerra e spiega quanto sia brutta, papà ti insegna a cercare un lavoro fisso che ti consenta dopo trentacinque anni (allora) di lavoro di goderti la liquidazione.

In una società, quale quella attuale, dove i tempi sono estremamente veloci, dove gli insegnamenti degli anziani trovano pochi campi di applicazione sono, invece, i giovani a dover insegnare agli anziani, ed il termine “dovere” è quanto mai appropriato.

Pensate un attimo quand’è stata l’ultima volta in cui avete potuto insegnare, e parliamo di esperienza vissuta e non di cultura umanistica, ai vostri figli o nipoti e, per contro, quando i vostri eredi o comunque giovani abbiano insegnato a voi qualcosa.

Se mio nonno fosse stato medico, probabilmente mi insegnerebbe cosa sia una scintigrafia, la risonanza magnetica delle prime generazioni; sui virus saprebbe poco, sulle indagini per immagini meno ancora.

Lo stesso dicasi per qualsiasi professione avesse svolto e, soprattutto, per le modalità con cui le avrebbe svolte.

Pensiamo soltanto all’attività più comune per un artigiano o un commerciante, anche se spesso è la meno praticata: emissione fatture, tenuta contabilità, bonifici.

Da alcuni anni ognuna di queste attività dev’essere svolta in modo virtuale, digitale e spesso nessuno, né CCIAA, né il commercialista ti insegna come fare.

Sono pertanto i giovani i soggetti preposti all’insegnamento agli anziani, una vera missione andragogica affidata al buon cuore di nipoti, vicini di casa, ecc.

Lo stesso dicasi per le TV on demand dove i tradizionali metodi di visione sono stati stravolti da Wi-Fi, abbonamento, contratto (singolo o multiplo), ecc.

Ricordo (Sergio) che anni fa, quando si passò al digitale terrestre almeno una quindicina di persone, tra vicini di casa, amici di conoscenti, clienti di negozianti nei cui esercizi mi recavo mi chiesero, disposti a pagare, se avessi sintonizzato i loro decoder perché se no erano senza TV.

E non stiamo parlando di ignoranza di una professione (se non so fare l’idraulico è normale che ne chiami uno all’occorrenza); parliamo di un’inversione di tendenza rispetto soltanto a trenta o quarant’anni fa.

Vari strumenti tecnologici fanno ormai parte della quotidianità e una parte della popolazione rischia di venire esclusa se non si provvede a formare sul loro utilizzo anche le generazioni nate a metà del secolo scorso. E chi meglio dei nativi digitali può assumersi questa responsabilità? La diffusione degli smartphone e la digitalizzazione di numerosi servizi essenziali, si pensi alle ricette mediche e a tutti quei servizi divenuti accessibili solo attraverso l’identità digitale (SPID, ha reso infatti indispensabile il coinvolgimento dei giovani nella diffusione dell’alfabetizzazione digitale. Alcuni Comuni hanno avviato progetti che vedono giovani studenti vestire i panni di insegnanti per aiutare gli anziani a conoscere e utilizzare le funzioni di base di uno smartphone, a navigare in rete o ad accedere ed esplorare il proprio fascicolo sanitario.

Il compianto De Andrè, nel suo ultimo concerto del 1998, disse che spesso riteniamo che i giovani di oggi non abbiano valori: hanno sicuramente dei valori che noi non siano ancora riusciti a capire bene e che, comunque, nascono nel contesto di una società impostata dalle generazioni precedenti. Società che fatica ad accogliere la creatività e la freschezza delle menti più giovani e tende a procrastinare il loro ingresso nel mondo del lavoro con tutte le relative conseguenze: difficoltà a raggiungere la propria autonomia e creare la propria famiglia.

Quando un giovane rifiuta di lavorare 10 ore al giorno per 400 euro al mese ha torto? Non aveva piuttosto torto suo nonno a vantarsi di non aver mai fatto un giorno di malattia in fabbrica dove, non è improbabile, ha anche contratto qualche malattia professionale, con ritmi di lavoro disumani?

O hanno forse torto i giovani che non ambiscono più al posto fisso, resisi conto che oltre al lavoro usurante in un call center o nel reparto spedizioni di un colosso dell’e-commerce esiste ben altro, più umano, più remunerativo dal punto di vista sociale, umano, morale.

Potrà non piacere, ma oggi guadagna molto di più un influencer sui social che un imprenditore che si assuma il rischio d’impresa e che debba ogni giorno stare attento a legislazione, divieti, obblighi, risoluzioni UE, Decreti Ministeriali e via dicendo.

Se i nostri genitori avessero sbagliato tutto? D’altronde sono loro che ci hanno consegnato questo mondo, sono i nostri nonni che ci hanno fatto trovare questo pianeta devastato dal consumismo, dal benessere, dalla moda “usa e getta”.

I nostri avi ci hanno insegnato a non buttare via nulla, che gli oggetti guasti si riparano: quand’è stata l’ultima volta che abbiamo riparato un TV? Quando abbiamo lasciato un elettrodomestico in riparazione, scoprendo che comprarlo nuovo costava quasi la metà che a ripararlo?

In una società in continua, rapidissima evoluzione i giovani hanno il dovere sociale di comunicare il mondo attuale ai propri ascendenti; ciò che per i millennial è normale, è abitudine, per i nati sessanta o settanta anni fa è notte. Il nostro oggi potrà non essere il meglio, potrà essere perfettibile, potrà venir cambiato ma se non tutti possono valutarlo e deciderlo il processo di evoluzione, normale in una società, sarà zoppo.

Sergio Motta

Cristiana Francesia

 

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