Il cammino verso la luce di Gibran

Gibran nasce in Marocco negli anni ’70. Compiuta la maggiore età e conseguito il diploma, parte per le vacanze estive con l’intenzione di iscriversi all’Università una volta rientrato.

Trascorre quei tre mesi di vacanza insieme agli amici in Spagna, dove vede per la prima volta l’Europa e ne rimane incuriosito. Decide così di non tornare più a casa, abbandona l’intenzione di intraprendere gli studi universitari e inizia un viaggio alla scoperta di questo nuovo continente. Tra viaggi clandestini e ospitalità da parte di associazioni di volontariato, Gibran riesce ad arrivare a Torino dove lo aspetta il resto del gruppo con il quale era partito per le vacanze. Tuttavia, è senza soldi e non sa come contribuire all’affitto e alle spese. Su consiglio degli amici, arrivati in Italia prima di lui, inizia a guadagnarsi da vivere spacciando fumo. Vede diversi ragazzi rincasare a notte fonda con molti soldi e l’idea di un guadagno facile ed immediato lo attrae. Accetta i grammi che gli vengono consegnati ed inizia a venderli trattenendosi la percentuale che gli spetta. Gibran si dimostra sin da subito molto bravo nel trattare con le persone e, nel giro di poco tempo, si crea un’ampia rete di contatti: “Per me era come una sfida, stavo lì al freddo fino a tarda notte ad aspettare gli ultimi che uscivano dal lavoro e che volevano comprare la droga. Non c’era quasi nessuno ma sapevano di trovare me” mi racconta, precisando che lui aveva clienti di ogni tipo e professione, anche quelli meno sospettabili. Gibran riceve numerose condanne ed arresti che lo portano ad iniziare un percorso di recupero all’interno della Comunità Terra Mia. Qui impara il rispetto delle regole e la convivenza e capisce quanto sia importante questo luogo per imparare ad affrontare il mondo perché “là fuori c’è sempre un esame che ti aspetta”. Parlando del suo rapporto con le sostanze afferma che: “La droga era bella all’inizio, poi arrivava la paranoia e lì capivo di aver sbagliato, mi sentivo in colpa. Iniziavo a pensare ad ogni cosa della mia vita, tranne che alle cose felici. Poi ho capito che la droga mi aveva fatto perdere tutto a partire dalla salute e dalla mia dignità”.

Gibran mi racconta l’esperienza del carcere e mi dice che nonostante la sofferenza provata, una volta aver vissuto quei contesti così difficili, la voglia di fare soldi facili quando si ritorna ad essere liberi è sempre molto forte e alla fine le persone ci ricadono di nuovo. Quando gli chiedo che consiglio darebbe ai giovani mi risponde con queste parole: “Direi loro che non vale la pena drogarsi perché alla fine perdi ogni cosa. Diventi sempre più triste e la tristezza si vede nella tua faccia, nei tuoi occhi e nel tuo fisico. Si vede anche quando sorridi perché è dentro i tuoi occhi. Magari chi hai davanti non se ne accorge, perché ti vede sorridere, ma se c’è qualcuno che sa leggere bene le facce capisce che stai male”. Gibran è arrivato quasi alla fine del suo percorso in comunità; un percorso fatto di fatica e tanta forza di volontà.

Ora, in qualsiasi luogo di lavoro lui si rechi, riceve moltissimi complimenti per la sua precisione e la sua dedizione. Alla domanda su quanto quest’esperienza terapeutica abbia influito sul suo cambiamento, lui mi risponde dicendo che la comunità gli ha disegnato la strada ma che il grosso del lavoro deve partire dal singolo individuo. Gibran si immagina in un futuro con una famiglia, un suo lavoro e dei figli. Si sente molto ottimista ma, allo stesso tempo, è consapevole che il sentiero che sta percorrendo sia molto lungo e che necessiti di fede e di speranza.

Con le sue parole: “Al fondo di quel cammino c’è un faro che illumina con la sua luce le nostre ombre. Tutte quelle ombre che prima non vedevamo o fingevamo di non vedere perché usavamo la droga per nasconderle”. Il nostro augurio per Gibran è che continui con fiducia su questo sentiero, consapevole del fatto che qualsiasi percorso si compie facendo un passo alla volta, senza perdere di vista quella luce che già riesce ad intravedere dal punto in cui è arrivato.

Irene Cane

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