Gianduia, il volto “ridanciano” di Torino

Capiterà presto di vederlo, un gentiluomo un po’ panciuto, con una lunga giacca marrone bordata di rosso, un panciotto giallo, delle vistose calze rosse e delle “brache fustagno”. Si tratta di ‘Gioan d’la douja’, meglio conosciuto come Gianduia, un contadino arguto e simpatico, sempre allegro, perennemente con un boccale di vino in mano (“douja”, in dialetto piemontese).

 

Ma se lo incontrate, non commettete l’errore di giudicarlo un banale signorotto “avvinazzato”, poiché egli è in realtà un galantuomo, capace di dimostrare coraggio e buon senso. Gianduia porta sul collo della camicia un fiocco verde e un ombrello della stessa tinta e, soprattutto, lo contraddistingue la capigliatura, egli tiene i capelli raccolti in un codino legato all’insù con un nastro rosso, e in testa indossa un “tricorno” scuro. Gianduia, come ogni maschera che si rispetti, è innamorato, precisamente di Giacometta, che lo accompagna nei momenti di festa e lo affianca nelle visite ai bisognosi che si trovano negli ospedali o negli ospizi, oppure lo sostiene nelle chiacchierate scolastiche, durante le quali spiega ai ragazzi l’importanza di mantenere viva una tradizione tanto antica quanto bella.

Stiamo parlando della maschera tradizionale torinese; “Gioan” si inscrive nel vasto gruppo costituito da altri altrettanto celebri personaggi provenienti da altre zone italiane, quali il campano Pulcinella, il ligure Capitan Spaventa, l’emiliano Dottor Balanzone, il lombardo Meneghino, i toscani Stenterello e Burlamacco o ancora i famosi Arlecchino, Pantalone, Colombina, Rosaura e Brighella dall’inconfondibile accento veneto.
È arrivato quindi il momento di “buttare all’aria la città”, per dirla con la versione disneyana di Clopin Trouillefou, il quale, con un allegro brano musicale, racconta buffamente come nel giorno di Carnevale tutto venga messo “sottosopra”. Così, mentre i bambini canticchiano e iniziano a memorizzare concetti che studieranno meglio a scuola, noi adulti ci limitiamo a ricordare di quando anche noi ci travestivamo da personaggi delle favole o dei cartoni animati. Oramai chi pone attenzione a queste sciocchezze? Chi ha il tempo per fermarsi a ponderare sul vero senso della festa? La società dei consumi ci vuole rapidissimi compratori di “gadget” per i più piccoli, e di certo non lascia a nessuno nemmeno un secondo per riflettere sul fatto che le antiche tradizioni popolari sono molto più di banali occasioni per “spendere” e “comprare”.
Nello specifico, il Carnevale è una festa tipica dei paesi di religione cristiana; la parola “carnevale” è di origine incerta, anche se l’ipotesi più accreditata è che derivi dall’espressione latina “carnem levare”, ossia “eliminare la carne”, in riferimento al banchetto del martedì grasso, che chiude i festeggiamenti precedenti la Quaresima, ovvero i quaranta giorni di penitenza in attesa della Pasqua cristiana. Eppure le origini di tale festività non vanno ricercate solamente nel Cristianesimo, bensì nel mondo greco e latino, precisamente nei “Saturnalia” romani e, prima ancora, nelle “Dionisiache” greche.

Nel periodo classico, durante tali festività si assiste ad un temporaneo scioglimento degli obblighi sociali e delle gerarchie, avviene dunque un rovesciamento dell’ordine prestabilito e si lascia liberamente spazio agli scherzi e, in alcuni casi, anche a momenti di dissolutezza. Le feste qui prese in esame, così come il Carnevale che da esse trae origine, si caricano di un significato rituale, diventano cioè “rinnovamento simbolico”: il caos, per un tempo limitato, sostituisce l’ordine riconosciuto, quando questo riemerge è rinvigorito e rinnovato, nuovamente garantito per un ciclo temporale valido fino al successivo festeggiamento, ossia per tutto un anno solare.
Nel mondo romano vi è anche un’altra ricorrenza con caratteristiche riconducibili alla tradizione carnevalesca, è la celebrazione in onore della dea Iside, divinità egizia importata nell’Impero Romano: durante la festa si aggirano gruppi di persone mascherate, come racconta Lucio, il protagonista delle “Metamorfosi” di Apuleio (8, XI), il grande retore latino del II secolo d.C.
Il Carnevale si inserisce in un ampio contesto che ruota attorno ad una visione mitologica, secondo la quale in tale periodo gli spiriti possono circolare liberamente tra il cielo, la terra e gli Inferi. Da un punto di vista filosofico e metafisico il Carnevale invita l’uomo a pensare al proprio destino, ai possibili cambiamenti, anche drastici, che ciascuno di noi è chiamato a concretizzare per perseguire i propri obiettivi di crescita personale; in questi giorni gli individui sono stimolati a riflettere sulla propria esistenza e quasi a “rinascere” dalle difficoltà, esattamente come fa la Terra in primavera, che rifiorisce dopo le intemperie dell’inverno. In questo particolare contesto festivo vi è l’abitudine di travestirsi e soprattutto di mascherarsi; le maschere infatti hanno funzione apotropaica, perché con tutto quell’andirivieni di spiritelli non si sa mai quale si possa incontrare!

Anche se con rammarico, è opportuno che mi fermi qui con la mia “tiritera” sul Carnevale, festa che mi sta decisamente a cuore e che tutt’ora mi affascina come quando ero piccina e mi travestivo da Lady Oscar. Tuttavia mi preme intrattenermi sul “nostro” caro Signor Gianduia, anche lui relegato ad una serie di scontati stereotipi commerciali che lo assimilano al cioccolato, al vino e a quel sorridente viso “paciarotto”. Egli in realtà è una figura assai complessa, così come lo è la sua storia; lo sa bene Alberto Viriglio che così descrive la maschera piemontese ne “Torino e i Torinesi” (1898): «Gianduja non è una maschera, è un carattere», sostiene, e continua che, sotto l’apparente ingenuità, il personaggio cela un’astuzia e una prontezza di riflessi non comuni. È dotato di una grande sensibilità «sembra spaventato da un grillo» … «piange allo spettacolo dell’innocenza oppressa» ma è anche provvisto di coraggio «lotta col diavolo, non senza prima presentare le proprie ragioni»; con noncuranza «scherza col boia che lo vuole impiccare» … «è pronto alla picchiata e picchia sodo».
Se dovessimo definire una data e un luogo di nascita per Gianduia, questi potrebbero essere il 1808 e Callianetto, nell’astigiano. Ad inventare il personaggio sono stati Giambattista Sales torinese e Gioacchino Bellone di Racconigi.
Antenato di Gianduia è Gironi, altro personaggio popolare piemontese, già noto fin dal 1630, le cui caratteristiche estetiche e caratteriali si ritroveranno pressoché invariate nel suo successore.
Gironi, nel corso della seconda metà del Settecento, è uno dei protagonisti indiscussi degli spettacoli ambulanti del marionettista Umberto Biancamano (omonimo del conte di Savoia), meglio conosciuto come “Giôanin d’ij ôsei”. Secondo la storia, il giovane Sales segue con assiduità gli spettacoli di Biancamano, fintanto che un giorno decide di esibirsi anche lui nei cortili del capoluogo piemontese. Il giovane è ben conscio della bravura del “maestro” marionettista, così decide di spostarsi con il suo teatrino nelle province, lontano dalla concorrenza. Sales trova un decisivo aiuto economico nell’amico Bellone, con cui inizia un’assidua collaborazione e insieme al quale inventa il personaggio di Gerolamo. I due ottengono un discreto successo e riescono a portare lo spettacolo fino a Genova, dove però al tempo vi è il Doge Gerolamo Durazzo (1739-1809), il quale non apprezza per niente che la marionetta irriverente porti il suo stesso nome (Gerolamo): Sales e Bellone vengono espulsi dalla città con l’accusa di “lesa maestà”. I due tornano a Torino, ma anche qui si imbattono in un altro Gerolamo, re Gerolamo di Westfalia, fratello minore di Napoleone Bonaparte, il quale ordina di imprigionarli per lo stesso reato di cui erano già stati accusati. Una volta liberati, Sales e Bellone si affrettano a fare una cosa: cambiare il nome al loro personaggio di legno. I due marionettisti ricominciano ad esibirsi proprio a Callianetto, all’epoca un piccolo paesino circondato da boschi e osterie; lo stesso Sales è solito mostrarsi con un “tricorno” sul capo e i capelli legati in un codino, tutto allegro ordina un boccale di terracotta ricolmo di vino e prima che qualcuno se ne possa accorgere il marionettista e la marionetta si fondono in un’unica maschera: “Giôan d’la dôja”. È opportuno ricordare inoltre che negli anni Gianduia diviene un personaggio molto noto, tanto che da “villano sempliciotto”, protagonista di spettacoli ambulanti, si fa volto satirico, come dimostrano le apparizioni della maschera su giornali quali il “Fischietto” e il “Pasquino”; attraverso tali testate Gianduia entra nel vivo della scena politica, anche grazie alle illustrazioni di autori prestigiosi. Gianduia acquista in breve tempo una seconda identità, autonoma rispetto alla precedente, la marionetta va via via incarnando lo spirito onesto e ligio al dovere del popolo piemontese all’alba dell’Unità d’Italia. Tra le varie raffigurazioni spiccano la “Via Crucis di Gianduja” di Silla e “Da Torino a Roma” di Teja.

Con il passar del tempo la figura di Gianduia si lega intrinsecamente a Torino, ne segue i mutamenti e i cambiamenti più significativi: la città diviene un principale centro industriale e la maschera piemontese si associa alle “galuperie” dolciarie. Nel 1866 viene fondata la “Società Gianduia” che insieme al Circolo degli Artisti promuove un’operazione del rilancio del Carnevale piemontese nel segno della nuova direzione industriale.
I carnevali servono a ridare importanza alla città ma relegano la figura di Gianduia all’aspetto prettamente commerciale delle festa: la marionetta inizia a dimenticare le sue complesse e multiformi origini e si trasforma nell’immagine stereotipata che abbiamo oggi.
Ma non tutto è perduto: Gianduia, l’autentica maschera, sopravvive proprio nel luogo che lo ha visto nascere e crescere, ossia nei teatrini ambulanti, grazie a marionettisti quali Lupi, Razzetti, i Rame, i Burzio, i Marengo, i Niemen, o i Gambarutti. Lo stesso Lupi, nel 1941, così scrive per il suo/nostro Gianduia che continua a vivere per sempre: “Giandoja mòrt? L’é nen la prima vòlta /ch’a l’han cantaje ij funeraj an rima,/ma pen-a ’l mond a l’ha virà na svòlta,/l’é torna arsussità, pì svicc che prima!”
Negli spettacolini l’ indole satirica e politicizzata della maschera è sempre percepibile: nel quotidiano satirico di metà Novecento “Codino Rosso”, si legge “Rosso, ma Codino. Codino, ma Rosso”, un chiasmo che tutt’ora richiama la vera essenza di Gianduia, per dirla citando Alfonso Cipolla “Gianduja è rivoluzionario ma conservatore, conservatore, ma rivoluzionario.”
Capiterà dunque di vederlo tra la folla, il nostro amico Gianduia, ridanciano e con i “pumin rus”, un signorotto come tanti, che come molti si porta sulle spalle una storia complessa e inaspettata, e allora incrociamo il boccale con lui, facciamoci contagiare dalla sua indole allegra e spensierata. Ascoltiamo la verità di Gianduia: troviamo il coraggio di non prenderci sempre così sul serio e, per una volta, mandiamolo “sottosopra” questo mondo ipercinetico, sia mai che a furia di scuoterlo lo facciamo tornare un po’ più a misura d’uomo.

Alessia Cagnotto

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