Ribellioni giovanili, fughe e tragici ricordi, protagoniste sono le donne

Proiezioni al femminile al 38mo Torino Film Festival

 

Stiamo arrivando al giro di boa dell’attuale TFF, claustrofobico, soffocato dalle misure anticovid, e ancora siamo un po’ a corto, come ci suggerirebbero le parole dell’equipe di selezionatori, di quelle “visioni mozzafiato” in cui ci si dovrebbe imbattere macinando per una settimana e poco più immagini dopo immagini. Ci imbattiamo invece, senza ripensamenti, come promesso da più e più parti, man mano che avanziamo nelle visioni, in quel “mantenere l’impegno di sostenere a pieno la politica internazionale del “50/50 by 2020” lanciata dal Toronto Film Festival.

 

Per la prima volta nel concorso viene infatti riservato uno spazio equo alle produzioni realizzate da registi donne e a quelle realizzate da registi uomini”. Ovvero un’operazione fatta con il bilancino. Attuali obbligatorietà che lasciano sempre perplessi, conditio sine qua non che inevitabilmente può stridere con le personali libere scelte e che, a tratti, suscita il dubbio dell’imposizione. Restando saldamente fissi nell’idea da sempre coltivata che l’altra metà del cielo abbia coltivato e stia coltivando esempi eccellenti e per molti versi difficili da raggiungere, continua a lasciarmi a dir poco stupito questo patto ormai di ferro (mi viene in mente che l’Academy e il Festival di Berlino sono andati ben oltre e per certi versi ben peggio!) che pretende ad ogni occasione di delimitare con matematica esattezza la metà del campo.

Perché poi dovremmo anche imbatterci in un’”ampia immaginazione e innovazione”, sempre restando alle autofelicitazioni del gruppo selezionatore. E qui è un po’ più difficile stare a guardare, pieni di convinzione.

Immaginazione e innovazione che davvero non abbiamo scorto nelle Ninas della spagnola Pilar Palomero, alla sua opera prima, ovvero i primi turbamenti della dodicenne Celia, in compagnia di un gruppetto di amichette, lei che, nell’inizio degli anni Novanta, in quel di Saragozza, vive sola con la madre, frettolosa e assente, senza aver mai conosciuto il padre, morto a quel che le è stato detto prima che nascesse, che guarda alle prime ribellioni, che saggia i primi trucchi ed il primo rossetto, che guarda con il primo e nuovo interesse un ragazzino, che deve affrontare le prime prevaricazioni, che prova a bere e a maneggiare un preservativo, che vive e subisce un’educazione dalle monache, che fa domande per sentirsi rispondere semplicemente “perché è così”. Anche qui, in un mondo abitato soltanto da donne e dove gli uomini sono assenti, un forte disagio, il desiderio di affidarsi alla figura materna che più dovrebbe darle sicurezza ma che più le sfugge, la voglia di inseguire i codici giovanili delle compagne: in un discorso che non tocca soltanto la protagonista ma che tutti prima o poi abbiamo vissuto. Poi Palomero abbandona all’improvviso queste riflessioni, dove non mancano momenti costruiti con significativa efficacia, per accennare frettolosamente a questioni del tutto personali (la ricerca di un passato, la visita alla nonna), per far scivolare anonimamente una vicenda che doveva essere costruita in altro modo.

Pur nella sua semplice linearità, nelle sue continue divisioni di mondi e di persone, di personaggi sciupati nel loro insignificante evolversi e di frasi che spingono al sorriso piuttosto che alla riflessione (ma qui forse la colpa è nostra, lontani da letterature e filosofie), di qualche gradino più su è Mickey on the road della regista Lu Mian Mian. La storia di Mickey e Gin Gin, due giovani amiche diverse tra loro, nel fisico e nella mentalità. Tanto la prima mette in evidenza i propri tratti androgeni, si muove e si comporta senza eccessiva femminilità, insegue nella frequentazione del tempio quelle danze tradizionali che apparterrebbero soltanto ai maschi, quanto l’altra è una ballerina eccentrica e svampita nei locali notturni, tutta vuota leggerezza, legata al suo cellulare e ai peluche colorati che si porta appresso come dolcissimi trofei. Mickey vive con la madre, in preda all’alcol e alla depressione, abbandonata anni prima dal suo uomo, Gin Gin sogna di riabbracciare il bel giovanotto da cui aspetta un bambino e che sembra sparito nel nulla. Da Taiwan raggiungeranno insieme Canton, alla ricerca delle due figure maschili di riferimento: immergendosi in tristezze e delusioni, con un padre che s’è rifatto nel lusso una vita e una famiglia, con il ragazzo che spinge Gin Gin verso l’eccitazione senza freni di un amico e non ha nessuna intenzione di promettere niente. Gustose e indovinate le annotazioni che la regista coglie durante il soggiorno delle ragazze, dal furto dei bagagli all’aiuto di nuovi amici, dall’apprendere che Facebook e Google map sono censurati e dal sentire attraverso gli altoparlanti sugli autobus che la Cina di Xi Jin Ping sia impegnata “nella promozione dei valori della democrazia e dei diritti umani”. Forse il simbolismo di quel lungo ponte nelle scene finali sta proprio lì a riaffermare quell’impegno, immagine quanto personale non saprei.

Opera prima, ma estremamente matura, carica di sentimenti e di verità, impregnata di storia fatta filtrare attraverso parole e ricordi e di drammi personali, è Wildfire di Cathy Brady. L’Irlanda di oggi che ancora si volta al suo passato, a quel lungo periodo del secolo scorso che vide opposte lotte, che fu attraversato da attentati, tradimenti, uccisioni. Tra queste distese di verde, si ricompone il legame che lega due sorelle, l’una, Kelly, scomparsa da casa per molto tempo, abbandonata e sola, vittima di insicurezza e fragilità, l’altra, Lauren, sposata con Sean, rimasta a tirare avanti, tra casa e lavoro, che tenta di dare di sé l’immagine di donna forte e mentalmente stabile. Entrambe nel ricordo della morte della madre (un ricordo che si lega a quello di un’intera epoca e lo richiama in vita, accomunando pubblico e privato), nebuloso, impreciso, sempre ricostruito secondo la necessità del momento, del loro umore e delle loro reciproche passioni, una realtà deformata e legata all’instabilità mentale di Kelly (l’ostinazione a voler indossare il cappotto rosso della madre, le nuotate e l’impatto con l’acqua, il rapporto con il proprio corpo) che a tratti finisce per travolgere anche la sorella. Con una scrittura attenta ai particolari, alle ribellioni e ai rapporti con gli altri (il marito e cognato, le ipocrite colleghe di Lauren), forte nelle sottolineature, mai banale nei momenti che più s’immergono nel dramma e soprattutto, al limite del piccolo quanto ricercato capolavoro, efficacissima nell’afferrare e nell’addentrarsi in due psicologie, con ogni loro turbamento, e nel farle ruotare senza posa attraverso i tanti movimenti alti e bassi che le colpiscono, Wildfire è un’opera da tener presente in sede di premiazione. Un’opera finalmente completa che deve dire grazie alla grinta delle due interpreti, a Nora-Jane Noone che è Lauren e soprattutto a Nika McGuigan che è Kelly, scomparsa per cancro non appena terminate le riprese del film. Che a lei è stato dedicato.

 

Elio Rabbione

 

Nelle immagini: la giovanissima interprete di “Las ninas” di Pilar Palomero; da Taiwan “Mickey on the road” di Lu Mian Mian; e due momenti di “Wildfire”, matura opera prima firmata da Cathy Brady

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