La contromemoria decolonizzata

“L’abbattimento delle statue e dei simboli coloniali sono atti di profonda, radicale trasformazione, dopo i quali nulla sarà più pensabile e dicibile come prima, a cominciare dall’ipocrisia di una storia che dice solo una parte di se stessa e lo fa nella lingua dei dominanti”. Roberto Beneduce, nato a Napoli 62 anni fa, insegna antropologia culturale all’Università di Torino. 

Sempre nel capoluogo piemontese, oltre 20 anni fa, ha fondato insieme ad altri colleghi il Centro Frantz Fanon, che si occupa di servizi di counseling, psicoterapia e supporto psicosociale per migranti, rifugiati e vittime di tortura. L’intervista con l’agenzia Dire si svolge nel pieno di una mobilitazione che, nata negli Stati Uniti per protestare contro razzismo e violenza della polizia, si è estesa nel mondo mettendo in discussione i simboli della discriminazione razziale e del passato coloniale. Statue, monumenti, ma anche nomi di strade e memoriali sono diventati oggetto di proteste e di rifiuto.
“Le statue sono soltanto una delle tante espressioni di un razzismo sistemico – dice Beneduce – penetrato nelle istituzioni, anche di quelle di Paesi che si riempiono la bocca con la retorica dei diritti umani”. La mobilitazione si è diffusa con forza nelle antiche potenze
coloniali e in Occidente: da Washington dove, ricorda Beneduce, è in corso un dibattito sull’abbattimento di una statua di Franklin Roosvelt a cavallo, un nero da un lato e un nativo dall’altro, alla Francia, dove in citta’ come Bordeaux “sono nati itinerari di memoria critica per ricordare come ogni singola pietra della città sia incisa con la fatica e la violenza di secoli di schiavismo”. Per l’antropologo è arrivato il momento per discutere della nozione di “patrimonio culturale”, che spesso “nasconde una tragica violenza rimossa”.
Anche nei Paesi che un tempo erano colonie, in modo particolare in Africa, questa fase storica sta dando impulso a un ripensamento del passato e del concetto stesso di storia. “Le statue – sottolinea Beneduce – sono in questi paesi come i gendarmi di un passato che governa la memoria alienata degli oppressi, di un potere che schiaccia e non lascia respirare”.
L’antropologo cita le parole del filosofo camerunense Achille Mbembe, voce autorevole degli studi post-coloniali, che parla di “diritto universale a respirare”. Un concetto che ha una “singolare risonanza con il nostro presente” nota il docente. Le parole “I can’t Breathe” – non posso respirare – pronunciate da George Floyd prima di morire, fanno eco a una pandemia provocata da una malattia respiratoria che, evidenzia Beneduce, “e’ anche momento rivelatore di violenze razziali e disuguaglianze economiche”, e stanno dando alla voce degli oppressi una forza “smisurata einattesa”. Forza anche al centro di polemiche, laddove la violenza di alcuni proteste è contestata. Per Beneduce è d’altronde “illusorio immaginare processi così profondi e dolorosi come ordinari, banali”, che non conoscano cioè “anche momenti di violenza”. L’antropologo sottolinea che chi si appella alla violenza e al “rischio di perdere pezzi importanti di storia” per criticare la mobilitazione contro le statue del passato non è consapevole di cosa sia veramente in gioco. La trasformazione riguarderebbe infatti il concetto stesso di storia. “Per gli oppressi la storia è spesso umiliazione, silenzi – spiega Beneduce – e la sua sola evocazione è dolore. Popoli colonizzati, i cui saperi sono stati zittiti: loro non la considerano storia, ma perdita”. Per questo il momento è importante, secondo Beneduce: “Si sta sviluppando una contromemoria, una controstoria che non accetta più un solo regime di narrazione e sta innescando un mutamento dei rapporti di forza”.
(Agenzia Dire)
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