Il regionalismo alla prova del coronavirus

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Tra le tante cose che scricchiolano in Italia di fronte al virus che non arretra, quella che appare più inadeguata (oltre al Governo centrale) è la struttura regionale che compie proprio quest’anno cinquant’anni che forse non sarà il caso di festeggiare, ma semmai per riflettere criticamente sul regionalismo

Durante le elezioni politiche del 1968 non venne discusso abbastanza il progetto di istituire le Regioni a Statuto ordinario, che vennero varate nel 1970 con le prime elezioni regionali abbinate a quelle amministrative. Le Regioni erano un dettato costituzionale da rendere operativo  e come tali erano considerate dai partiti di centro-sinistra. La loro realizzazione fu uno dei momenti qualificanti dell’incontro tra democristiani e socialisti.

Anche i repubblicani, Ugo La Malfa in testa, erano convinti regionalisti sull’onda della tradizione federalista di Carlo Cattaneo che era favorevole ad unire l’Italia e non  a dividerla come altri avrebbero voluto da Finocchiaro Aprile in Sicilia dopo la II Guerra Mondiale a Miglio e Bossi tra la fine del secolo scorso e i primi anni del nuovo. Solo i missini, i monarchici e i liberali si opposero. I primi due essenzialmente per ragioni di principio perché ostili al federalismo in quanto tale. I liberali con Malagodi in particolare avanzarono delle serie  ed articolate obiezioni sulle ripercussioni possibili anche in base al non  entusiasmante funzionamento delle Regioni a Statuto speciale già istituite. Bilanciare le competenze tra Stato e Regioni  si rivelò subito un problema difficile da risolvere e la spinta negativa del secessionismo bossiano portò alla riforma del titolo V della Costituzione che creò di per sé ,in tempi “normali”, un contenzioso tra Stato e  Regioni affidato al giudizio della Corte Costituzionale. Malagodi vedeva il pericolo di spezzare il Paese che non aveva una grande storia unitaria alle spalle,ma era ancora afflitto dal forte divario tra Nord e Sud. Inoltre, vedeva le Regioni con dei “confini” delineati da una sommatoria di province,come un qualcosa di obsoleto. La vera struttura portante della storia italiana erano le Province la cui eliminazione parziale ha solo creato nuovi problemi senza risolvere quelli vecchi.  Per fare un esempio, ci sono delle Province che gravitano oltre i confini regionali: Novara e il VCO gravita su Milano  e non su Torino, Biella su Milano e Pavia, Alessandria e parte della provincia di Cuneo sulle Province di Genova, Savona e Imperia. Malagodi sosteneva che bisognava almeno riaggiornare in base a criteri economici e sociali (non solo storici) le Regioni che nascevano in un’Italia totalmente diversa rispetto a quella del passato. Il regionalismo imperfetto è balzato fuori in modo evidente in questi mesi con un conflitto quasi costante fra Regioni e Stato. La figura dei “governatori,” una invenzione all’americana non esistente nel nostro ordinamento, ha rimarcato anche fisicamente questo confronto-scontro.

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Ma la cosa che appare evidente è che le Regioni che vantavano una sanità di eccellenza hanno dimostrato difficoltà ad affrontare la pandemia, smentendo un motivo di vanto che si è rivelato non rispondente alla realtà. Una grande delusione che deve far meditare  perché solo in parte spiegabile con i tagli selvaggi subiti dai bilanci regionali  della Salute. Ma anche nei divieti a spostarsi dopo il 4 maggio  il ragionare in base a confini regionali si manifesta un errore grossolano. Ci sono paesi del basso Piemonte, ad esempio, che hanno rapporti  continui e ravvicinati con la Liguria che sono proibiti.  Si potrebbero fare analoghi esempi, in altre Regioni con il Friuli e il Veneto. Modellare i divieti su base regionale appare inoltre una scelta  non meditata perché ci sono delle aree all’interno delle Regioni che hanno delle specificità rispetto alla pandemia diverse da quelle di altre aree. L’entità  regionale non fotografa una realtà a macchia di leopardo all’interno delle singole regioni. In ogni caso, una lezione che si trae da questa tragica esperienza che stiamo vivendo, è quella che, così come sono, le Regioni non rispondono alle esigenze del Paese. Se poi consideriamo il costo aggiuntivo che esse provocano a carico del contribuente,forse sarebbe più ragionevole riattivare la Provincie ed abolire le Regioni. Anche quelle che storicamente avevano una ragion d’essere come la Sicilia e la Sardegna, istituite con un ordinamento speciale ,non hanno dato buona prova. Neppure la Valle d’Aosta ha brillato e i problemi del bilinguismo si possono risolvere in altro modo. Forse solo il Trentino – Alto Adige e il Friuli – Venezia Giulia hanno dato esiti migliori. Davvero troppo poco. In un Paese come l’Italia c’è bisogno di uno Stato efficiente e ciò si rivela in modo inoppugnabile nelle grandi e terribili occasioni della storia in cui decidere in modo tempestivo rappresenta l’imperativo categorico a cui guardare. Guardando al passato, aveva ragione Mazzini che voleva una Repubblica unitaria e non Cattaneo che la voleva federale. Guardando alla odierna, preminente necessità di decidere,  non servono dei Governi regionali che si sono autonominati tali perché ufficialmente sono Giunte regionali. La smania dell’autonomismo e delle spinte centrifughe ha fatto il suo tempo :la politica esige oggi  altre scelte con meno figuranti in azione, specie se inadeguati o addirittura incapaci. Il mito regionale a cui guardavano, ad esempio, uomini come Aldo Viglione e, in tempi più recenti,  Enzo Ghigo, appare oggi davvero logoro e sbiadito, non più in grado di entusiasmare nessuno.

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Scrivere a quaglieni@gmail.com

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