L’altra settimana sono andato al cinema. A convincermi è stato Lambardelli. Con il suo taxi, fuori servizio dopo l’ora di cena, ci siamo recati al “Nuovo Lux”. Era sera di cineforum e abbiamo assistito alla proiezione di visto una vecchia pellicola, Scoprendo Forrester”, con Sean Connery. Erano anni che non frequentavo più le sale cinematografiche. Colpa della mia pigrizia che la televisione metteva ancor più in risalto. Alla sera, dopo cena, infilate le pantofole, guardo l’offerta dei vari canali. Dopo un po’ di zapping
faccio la mia scelta e a quel punto, tempo un quarto d’ora, prescindendo dal programma – film,documentario,talk show o altro – m’addormento come un ghiro. Al “cine”, confesso, è tutt’altra cosa. Il grande schermo m’affascina, mi coinvolge e bisogna proprio che incappo in un film veramente brutto e lento per annoiarmi. In passato i cinema si trovavano un po’ ovunque, dalle città ai più sperduti paesi. Le sale, grandi o piccole che fossero, erano frequentate soprattutto nelle sere del fine settimana o la domenica pomeriggio. Nomi strani, legati ai proprietari o a personaggi illustri si alternavano ai più frequenti “Moderno”, “Lux”, “Italia”, “Ariston”, “Impero”, “Excelsior”, “Sociale” e così via. Per non parlare poi delle sale parrocchiali o delle Case del Popolo che spesso, con programmazioni diverse, ospitavano serate in onore della
magica invenzione dei fratelli Lumière. Oggi gran parte di quelle sale sono tristemente chiuse. Ricordo che, accanto al “Nuovo Lux” c’era l’Apollo che, pochi anni prima d’ababsasre definitivamente la saracinesca, si era specializzato in pellicole “scollacciate” o, come s’amava dire, “senza veli”. Un luogo proibito dal quale stare alla larga, più per evitare la vergogna d’esser visti varcare l’entrata che per il giudizio sulla qualità di quanto appariva su quello schermo. Più raramente puntavamo alla sala d’Essai dove, con aria da incalliti cinefili, c’intrufolavamo per vedere film in lingua originale il più delle volte nemmeno sottotitolati. Al vecchio e dimenticato Splendor si arrivava dopo un viaggio di poco più di un’ora. Partivamo all’avventura con il treno e, giunti a destinazione, a due passi dalla stazione ferroviaria, ci aspettava la sala cinematografica. Lì, insieme a “Tex” Rabitti e al compianto Giulio Scirocchi ( detto “Tom Mix”), abbiamo visto i più bei western all’italiana, girati da Sergio Leone. Al paese dove siamo nati e cresciuti , per un bel po’ di anni il “Cinema”, quello con la “c” maiuscola, c’è
stato eccome. Il pomeriggio della domenica ,preferibilmente d’inverno e in alternativa alla partita di calcio al campo sportivo, ci si avviava con il solito gruppo di amici verso il “cine” (dove oggi c’è una birreria), richiamati dalla promessa di un paio d’ore di svago. All’entrata, fatti gli scalini che portavano al piano rialzato, c’era ad attenderci – nel botteghino del bigliettaio – la signora Alida, una gran bella donna. Truccatissima, con i capelli biondi cotonati e un seno che dire prominente
non basta a render l’idea di quella taglia veramente “super”(credo portasse la sesta).Nell’aria il suo profumo alle violette,piacevolmente garbato, si mescolava alla fragranza dei pistacchi abbrustoliti che stavano là, ancora tiepidi, nei loro sacchetti di carta sul tavolino, pronti per essere comprati per un ventino.Quando finivano nelle nostre mani sparivano in un attimo, sgranocchiati senza pietà,dal primo all’ultimo. A quei tempi si beveva la gazzosa, e la bottiglietta era chiusa con una pallina di vetro verde, più pesante e più grossa delle normali biglie: quella pallina, nel gergo milanese che –grazie ai villeggianti– condizionava anche la nostra parlata, era la “gagna”,parola intraducibile ma evocativa. Più grande era la sete e più lentamente t’obbligava a bere poiché la pallina – se alzavamo troppo il gomito – “tappava” il collo della bottiglietta. Dopo il rito dello “strappo” del biglietto ad opera della “maschera” ( il signor Tullio, fratello di Alida, svolgeva questa e tutte le altre
funzioni), scostato il pesante tendone rosso scuro ci si accomodava sui sedili cigolanti delle lunghe panche di legno. Che emozioni nell’antro buio del vecchio cinema, dove “Via col vento” aveva fatto sognare un’intera generazione. Ricordo i sussulti, gli “ohh!” di stupore per il dramma con Clarke Gable e Vivien Leigh, nella parte di Rossella O’Hara. Con “Lawrence d’Arabia” fummo risucchiati nell’avventura, sotto il caldo sole del deserto, immaginando di montare i dromedari con Peter O’Toole e Omar Sharif. E che dire delle risate per il susseguirsi di gag nei film-parodia del duo Franchi-Ingrassia? Nelle ultime file ci si baciava mentre nelle prime, i più giovani, quasi sotto lo schermo facevano caciara. E nell’aria galleggiava la nuvola del fumo delle sigarette che, incrociando il fascio di luce del proiettore, diventava azzurrina. Si usciva, durante la stagione fredda, che era già buio e si tornava a casa, fischiettando qualche motivo appena imparato, dando calci ai sassi. Se penso a quel tempo, a quegli anni , riesco a immaginare i più impensati e piccoli particolari:i bambini che giocavano al “Giro d’Italia” con le biglie di plastica raffiguranti i ciclisti o con il Meccano,le calze di nylon con la riga e le gonne strette ai fianchi e gonfie di crinolina, Amedeo Nazzari , Mastroianni e gli attori del momento sulle copertine dei rotocalchi, il “Corriere dei Piccoli” e “L’Avventuroso“, i prodotti e le figurine della Mira Lanza e l’Idrolitina, sapientemente sciolta nella bottiglia d’acqua prima di cena. Non so dirvi se erano bei tempi ma certo erano un briciolo più spensierati di oggi. Non foss’altro perché nelle vene ci scorreva la gioventù.
Marco Travaglini


La prima edizione venne stampata nella capitale francese da Sylvia Beach, fondatrice della leggendaria libreria “Shakespeare and Company”, uno dei principali centri della vita culturale parigina degli anni Venti, frequentato da artisti e romanzieri come Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald
La città in cui James Joyce visse fino al 1919 (seppur con diverse interruzioni per soggiorni a Pola, Roma e in Irlanda)fu l’austera, elegante e mitteleuropea Trieste. Città di carattere del tutto particolare ( come la descrisse Umberto Saba: “Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace. Con gli occhi azzurri e le mani troppo grandi per regalare un fiore;come un amore, con gelosia”), affascinò l’irlandese Joyce. Durante il suo lungo soggiorno triestino, oltre ad insegnare inglese alla Berlitz School, lo scrittore della “terra del trifoglio” completò la raccolta di racconti Gente di Dublino, pubblicando una seconda stesura della raccolta di poesie Musica da camera, scrisse il poema in prosa autobiografico Giacomo Joyce, ed iniziò, oltre al dramma Esuli, i primi tre capitoli del lavoro che gli diede fama internazionale: l’Ulisse, appunto. Dopo Trieste, Joyce visse per vent’anni a Parigi e morì in Svizzera, a Zurigo, a metà gennaio del 1941. A Trieste, oltre al museo a lui dedicato, si può ammirare la sua statua che si trova in uno dei luoghi più belli della città, il Ponterosso che attraversa il Canal Grande, nel quartiere teresiano. Il monumento in bronzo, raffigura lo scrittore mentre cammina sul ponte, assorto nei suoi pensieri, con un libro sottobraccio e il cappello in testa. La targa, riprendendo la “Lettera a Nora” del 1909, recita: “…la mia anima è a Trieste”. Alcune curiosità, tra le tante. Il 16 giugno è celebrato nelle maggiori città del mondo occidentale come “Bloomsday”. In occasione del centenario della giornata narrata nell’ Ulisse (il 16 giugno del 2004), a Dublino venne organizzato un pranzo per diecimila persone nella via principale. In Italia, a Genova, dal 2006 si celebra il “giorno di Bloom” con la lettura quasi integrale in italiano e brani in inglese dell’opera, dalle nove del mattino alla mezzanotte e in luoghi analoghi a quelli del romanzo. Chissà cosa ne penserebbe Joyce?!











