C’è sempre, in ogni storia, un antefatto che motiva i perché dei successivi accadimenti. E l’antefatto, in questo caso, per poco non finiva in tragedia. Sì, perché il direttore della ferriera, l’ingegner Scorbutici, se poteva ancora raccontare in giro per la città ciò che gli era accaduto, dopo essersela cavata al buon prezzo di un grande spavento, era perché Osvaldo aveva una pessima mira. E l’esasperazione per le angherie, i torti e le ingiustizie patiti sul lavoro avevano fatto tremare la mano all’operaio dell’altoforno, anticipandogli il colpo di pistola che passò due dita sopra la testa dell’incredulo Venanzio Scorbutici. Il proiettile si conficcò nel muro e il direttore crollo a terra, svenuto. I due impiegati che erano con lui si misero ad urlare. “Hanno ammazzato il direttore! Aiuto! Gli hanno sparato addosso!”. Osvaldo, di fronte a tutto quel trambusto, buttò la rivoltella giù dal ponte sul fiume e scappò via, insieme a Cecco e Nando che l’avevano accompagnato e, pistole in tasca, sarebbero stati lì per lì pronti a far fuoco se non fossero rimasti pietrificati da una fifa blu proprio sul più bello. Così, a perdifiato, fuggirono in montagna, cercando riparo nelle vecchie cascine abbandonate dopo la guerra. I loro compagni , in qualche modo, fecero avere cibo e notizie nei due giorni successivi ma poi, considerato che i carabinieri stavano intensificando le ricerche di quelli che, nella zona, venivano ormai indicati come “gli attentatori”, si pensò di organizzare l’espatrio dei tre. Senza tante chiacchiere si pensò di mandarli in Cecoslovacchia, via Svizzera e Austria. Il tempo strettamente necessario a preparare i documenti, ovviamente falsi, e predisporre i passaggi che avrebbero consentito a Osvaldo, Cecco e Nando di oltrepassare la “cortina di ferro”, e i tre si trovarono a Praga. L’impatto con il socialismo reale fu tutt’altro che semplice.
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Nel cuore dell’Europa divisa, nella Praga dei primi anni sessanta, si toccava con mano il clima difficile del tempo e anche i tre si trovarono alle prese con le situazioni, i problemi, le angosce, i drammi della gente comune di quel paese. Il Partito, dopo averli fatti espatriare, non li lasciò soli. Cecco e Nando lavorarono alla Škoda di Mladá Boleslav, in Boemia centrale, a circa cinquanta chilometri a nord-ovest di Praga, alla linea di montaggio della “Spartak”, che, per motivi legali legati al nome, venne poi ribattezzata “Octavia”: una berlina a tre volumi di schema classico (motore anteriore e trazione posteriore), di linea tradizionale ma elegante. Osvaldo, invece, fu dirottato alla fabbrica di birra “Staropramen”, una delle più antiche della città. Tutti e tre, comunque, oltre al lavoro, avevano un altro impegno: occuparsi di “Radio Oggi in Italia”, la radio clandestina che, dalla capitale cecoslovacca, trasmetteva dagli anni ’50,gestita da iscritti al PCI che erano emigrati lì, quasi tutti per sfuggire a processi. La speaker dell’emittente, Stella Amici, tanto per fare un esempio, era fuggita dall’Italia all’indomani degli scontri di Modena del 1950 davanti alle Fonderie Riunite, dove sei scioperanti erano rimasti uccisi dalla polizia. Tra gli altri che si occupavano della Radio, sempre da Praga, c’era Francesco Moranino, l’ex comandante partigiano biellese “Gemisto”, parlamentare comunista riparato in Cecoslovacchia perché inseguito da una condanna per fatti avvenuti nel corso della guerra partigiana. “Radio Oggi in Italia” era praticamente unica nel suo genere a parte un solo precedente, molto più limitato, con un’emittente in lingua francese che visse soltanto un anno e mezzo , tra l’estate del ’54 e il dicembre del ’55. Anch’essa diffusa da Praga, faceva esplicito riferimento al PCF. Il primo ministro francese Pierre Mendès-France ne pretese la chiusura e la ottenne in cambio di accordi commerciali con la Cecoslovacchia.
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La radio del PCI ,invece, continuava la sua battaglia dell’etere al servizio del più grande partito comunista dell’Occidente, pur senza apparire come espressione diretta di Botteghe Oscure. I testi delle note e dei commenti arrivavano alla redazione dai giornalisti dell’Unità e di Paese Sera o, addirittura, da dirigenti del PCI. Uno dei collaboratori più assidui era Sandro Curzi. Da dove trasmettesse era un mistero e il governo italiano si dannava l’anima nel far la guerra a questa emittente, ascoltata dai comunisti e non solo, che arrecava un gran fastidio. Infatti, una radio non conosceva ostacoli e poteva arrivare senza problemi anche dove comprare l’Unità in edicola o riceverla in abbonamento non era cosa facile. Furono promosse, soprattutto da parte democristiana, azioni parlamentari e persino diplomatiche da parte dell’Italia verso la Cecoslovacchia, ma senza alcun esito. Osvaldo si occupava di smistare le notizie, Nando – che era patito di musica classica – s’ingegnava con le colonne sonore e Cecco dei turni di vigilanza perché, diceva “siamo in un paese socialista, ma non si sa mai”. “Radio Oggi in Italia” era sempre “sul pezzo” tanto che nel luglio del 1960, durante il governo Tambroni, quando a Genova e poi a Reggio Emilia avvennero violenti scontri tra dimostranti e polizia per protesta contro l’indizione di un congresso nazionale del Movimento Sociale, quella che veniva definita la “radio fantasma del PCI” riuscì a seguire gli avvenimenti praticamente in diretta, con una tempestività sorprendente (mentre Radio Rai operò con la consueta ufficialità di ispirazione governativa e solo attraverso i comuni notiziari). Ma quel tran-tran non andava a genio allo sfortunato attentatore che seguiva con grande attenzione ed entusiasmo le notizie provenienti dall’isola caraibica di Cuba dove Fidel Castro e “Che” Guevara stavano costruendo, giorno dopo giorno, la rivoluzione sotto il naso degli americani.
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Già nell’aprile di quell’anno ( era il 1961) i mercenari, armati e sostenuti dagli americani, erano sbarcati alla baia dei Porci, dirigendosi verso la Playa Larga e la Playa Girón. Ma il tentativo da parte di esuli cubani e mercenari addestrati dalla CIA di conquistare la parte sud-ovest di Cuba, fallì e i cubani – in tre giorni di combattimenti -sconfissero gli aggressori. Lo stesso presidente degli Stati Uniti, J.F. Kennedy, ammise le responsabilità degli Usa e annunciò, come risposta, l’embargo totale contro Cuba. Quell’isola ribelle,terra di musica e socialismo “caliente”, dello zucchero di canna e del rum, esercitava un’attrazione incredibile e Osvaldo pensò che era il caso di offrirsi volontario per andar là, al caldo dei tropici, “ ad edificare il socialismo”. Che ci fosse un gran lavoro da fare non vi era alcun dubbio. Negli anni ’50, secondo l’UNESCO, un cubano su tre era analfabeta e quel paese apparteneva a un gruppo di nazioni il cui reddito medio pro capite oscillava tra i 300 e i 499 dollari l’anno. L’eredità del latifondismo era pesante e si poteva toccar con mano l’entità della disuguaglianza sociale. Così, con il primo viaggio utile, Osvaldo partì per la terra di Fidel , animato delle migliori intenzioni e pronto ad esportare le sue esperienze di pedagogia socialista. L’entusiasmo rivoluzionario subì un rapido raffreddamento che, in breve, diventò delusione quando s’accorse che i cubani erano ben felici di ricevere un aiuto “internazionalista” ma che questo consisteva nel partecipare alla campagna agricola della raccolta della canna da zucchero. Tagliare la canna è un mestiere duro, che stanca all’inverosimile. Quando le canne misurano 4 o 5 metri d’altezza vanno tagliate con il machete per essere poi raccolte e portate allo zuccherificio; se non vengono lavorate immediatamente diminuisce il loro contenuto zuccherino. Lì vengono schiacciate dalle macine per far uscire il succo, molto scuro e pieno di impurità che viene raccolto in vasche, dove – al caldo – l’acqua evapora e il succo si trasforma in sciroppo o melassa, che viene gradualmente raffinato. A quel punto i cristalli di zucchero si formano da soli, allo stesso modo dei cristalli di sale in una pozza d’acqua marina che si asciuga sole. Tra quelle canne, Osvaldo si sentiva perso, come un elfo in una foresta di giganti. Lui a cuba voleva dare una mano a “tirar su il socialismo e far capire ai cubani l’importanza di sentirsi compagni” ma non pensava che questo equivalesse a farsi venire i calli spessi e duri sulle mani e tagliuzzarsi dappertutto in un campo “de caña de azúcar”. Così fece richiesta di tornare a Praga, insistendo a tal punto che il suo desiderio venne esaudito. E dopo qualche mese nella capitale cecoslovacca, tra la birra da imbottigliare e i programmi della radio, ormai prescritto il reato per il quale era stato condannato in contumacia, lasciò il modesto alloggio a Malá Strana e rientrò in Italia. Un viaggio lungo e complicato lo riportò sulle rive del lago dov’era nato, negli anni a venire, oltre a pronunciare in ogni occasione la sua frase rituale (“compagni, la situazione è grave”), a chi l’interrogava sulla scelta di andare e poi tornare in fretta da Cuba, rispondeva con una certa gravità: “Ho avuto un insanabile dissenso politico con il compagno Fidel e, insieme, abbiamo concordato che era meglio lasciar stare e non insistere nel manifestare le nostre contrarietà”.
Marco Travaglini
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