Borsalino, non tutte le fabbriche sono uguali

IL COMMENTO di Enzo Biffi Gentili

In questo 2017 in agonia ricorre il 160° anniversario della fondazione dell’illustre manifattura alessandrina Borsalino, un pilastro nella costruzione dell’immagine internazionale del Made in Italy, e dell’ eccellenza industriale e artigianale subalpina. Ricorrenza evidenziata da due pubbliche celebrazioni: l’una festevole, l’emissione di un francobollo dedicato all’evento dalle Poste Italiane; l’altra funebre, la sentenza di fallimento decretata dal Tribunale di Alessandria. È la conclusione, dopo la messa in vendita della società da parte dell’ultimo erede dei fondatori, di una serie di passaggi di proprietà che hanno visto tra i loro protagonisti personaggi a volte discussi come Silvano Larini, Gabriele Cagliari, Marco Marenco, Philippe Camperio. È il mercato, ragazzi, direbbe qualcuno. Non è la prima volta che una “manifattura aristocratica” è travolta da vicende finanziarie variopinte: lo stesso è accaduto, per far solo un esempio, all’ancor più titolata Richard Ginori, dopo molti gravi guai salvata da un’industria del lusso come la Gucci, del gruppo mondiale Kering, ma per quanto riguarda il suo Museo, dal nostro Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Si impone quindi un ragionamento su un altro tipo di celebrazione, che da troppi anni ci affligge: quella, sovente proclamata dalla cosiddetta sinistra, della liberalizzazione e della autoregolamentazione del mercato.

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Perché non tutte le industrie sono uguali, e alcune “fabbriche estetiche” vanno tutelate anche dalla mano pubblica proprio per perseguire fini non raggiungibili attraverso “comportamenti spontanei” di un mercato a volte degradato. Senza arrivare quindi a casi estremi come quello francese della manifattura di Sèvres, i cui dipendenti sono funzionari statali, è indubbio che sarebbero necessarie varie iniziative, anche regionali, a supporto di attività produttive la cui storia è testimonianza simbolica del genio del luogo e per la promozione della sua immagine internazionale, con evidenti ricadute anche economiche. Non possiamo sperare che sempre e soltanto questi doverosi compiti vengano assolti da figure o strutture connesse a gruppi multinazionali specializzati nel settore del lusso, quali gli stranieri Kering o Richemont. Come a Milano, dove la Fondazione Cologni con la ginevrina Fondazione Michelangelo ha progettato di realizzare nel 2018 all’ Isola di San Giorgio a Venezia, nel contesto della prossima Biennale di Architettura, una grande nostra intitolata Homo Faber, interamente incentrata sui mestieri d’arte. Ma sempre a Milano, e sempre nel 2018, l’Amministrazione Comunale ha programmato a Palazzo Reale l’allestimento di un’esposizione intitolata Luxus, curata da Stefano Zecchi, che discende da quella omonima allestita quest’anno ai Giardini a Venezia nell’ambito della scorsa Biennale d’Arte, la cui concezione non riguarda tanto il denaro o il mercato quanto l’affermazione della bellezza come principio essenziale, estetico ed etico, della nostra cultura e delle nostre arti applicate. Torino e il Piemonte non possono stare a guardare, magari attendendo la cessata produzione di un’altra loro storica industria iconica: diciamo la Lancia, tanto per tirare a indovinare…

 

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