Novembre 2017- Pagina 6

Tolte dopo oltre 5 mesi dal 3 giugno le barriere dall'”area maledetta” di piazza San Carlo

Gli operai sono al lavoro da ieri in piazza San Carlo per rimuovere le barriere che delimitavano, ormai da cinque mesi (da quella maledetta sera della finale di Champions del 3 giugno) la zona sottoposta a indagine. Ad essere recintato era l’ingresso del parcheggio sotterraneo da cui potrebbe essere partita una delle ondate di panico che provocarono oltre 1500 feriti e la morte di una donna. Nelle prossime ore l’area, dissequestrata dalla procura, sarà di nuovo libera e fruibile per tutti i torinesi e i turisti.

 

(foto: il Torinese)

Gerda Taro. La vita ribelle e breve di una fotoreporter


Nel cimitero di Père-Lachaise, il grande cimetière de l’Est sulla collina che sormonta la rive droite e il Boulevard de Ménilmontant, nel ventesimo arrondissement di Parigi, è sepolta, tra i tanti illustri defunti, Gerda Taro. La sua tomba è nella 97° divisione, non lontana da quella di Edith Piaf e dal “muro dei Federati“, un luogo-simbolo dove, il 28 maggio del 1871, furono fucilati dalle truppe di Thiers gli ultimi 147 comunardi sopravvissuti alla “semaine sanglante”, la settimana di sangue che pose fine al sogno ribelle del governo rivoluzionario della Comune di Parigi. Questo è, senza dubbio, il luogo ideale per custodire le spoglie mortali della prima giornalista di guerra a cadere sul campo durante lo svolgimento della sua professione, entrata nella storia della fotografia per i suoi reportage realizzati durante la Guerra di Spagna. Gerda Taro, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nasce nel 1910 a Stoccarda e, nonostante le sue origini borghesi entra giovanissima a far parte di movimenti rivoluzionari di sinistra. Le idee politiche, la militanza e la sua origine ebraica, con l’avvento del nazismo in Germania, la costringono a rifugiarsi a Parigi. Nella ville Lumière degli anni folli, magistralmente descritta da Ernst Hemingway in “Festa mobile”, la stella cometa della Taro travolge le vite degli amici e degli amanti con un’energia inesauribile. E’ a Parigi che Gerta Pohorylle conosce André Friedmann, ebreo comunista ungherese e fotografo, che le insegna le tecniche del mestiere. Formano una coppia e iniziano a lavorare insieme. L’atmosfera magica della città e l’estro creativo e vulcanico della giovane la portano a creare per il compagno una figura del tutto nuova. Nasce così Robert Capa, un fantomatico fotoreporter americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Con questo pseudonimo il mondo intero conoscerà Friedman e il fotografo finirà per sostituirlo al suo vero nome, conservandolo per tutta la vita. Lei stessa cambia il nome in Gerda Taro.

Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola. Si tratta di una scelta importante che li coinvolgerà e segnerà così profondamente da farli diventare alcuni tra i più importanti testimoni del conflitto, che seguono e raccontano al mondo attraverso scatti sensazionali e numerosi reportage pubblicati su periodici come “Regards” o “Vu“, la prima vera rivista di fotogiornalismo. Gerda con incredibile coraggio e sprezzo per il pericolo, rischia più volte la vita per fermare, attraverso le immagini, un momento del conflitto. Helena Janeczek ne “La ragazza con la Leica” ci regala un ritratto incisivo e significativo della Taro, raccontando che si “trascinava dietro la fotocamera, la cinepresa, il cavalletto, per chilometri e chilometri. Ted Allan ha raccontato che con le ultime parole ha chiesto se i suoi rullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri”. Gerda fotografa prevalentemente con una Rolleiflex, formato 6×6, mentre Robert preferisce la Leica. Poi anche lei inizia ad utilizzare la piccola fotocamera. Nello stile di Gerda predomina l’individuo, i suoi scatti mettono a fuoco i protagonisti della guerra, le vittime, i combattenti, le donne e i bambini, immagini forti che descrivono, in punta di obiettivo, l’evento storico che anticipò come un tragico prologo la seconda guerra mondiale. Le sue foto sono come la sua vita tumultuosa, simile ad una corsa a perdifiato, una vita segnata da passioni forti, da un’incredibile vitalità e da un desiderio di affermazione e di emancipazione che, storicamente, le donne avrebbero raggiunto solo molto più tardi. Questa vita viene spezzata dai cingoli di un carro armato che la travolge proprio mentre torna dalla battaglia di Brunete dove aveva realizzato il suo servizio più importante, che viene pubblicato postumo sulla rivista “Regards”. Sotto quel carro armato si spengono i sogni, l’entusiasmo, tutte le foto che il futuro avrebbe potuto regalarle e la breve ed intensa vita della 26enne Gerda Taro.Trasportata a Madrid, la fotografa resta cosciente per alcune ore, giungendo a vedere un’ultima alba: quella del 26 luglio 1937. Il suo corpo viene riportato a Parigi, la patria della sua vita di artista, e, accompagnato da un corteo funebre di duecentomila persone, viene tumulato al cimitero del Père Lachaise. Il suo elogio funebre viene scritto e letto da Pablo Neruda e Louis Aragon. Robert Capa, distrutto dalla morte della sua compagna di vita e d’arte, un anno dopo la scomparsa di Gerda, pubblica in sua memoria “Death in the Making“, riunendo molte delle foto scattate insieme. La vita di Capa, da quel momento, sembra procedere in uno strano, inquietante e provocatorio “gioco a rimpiattino” con la Morte che il fotografo sfida, conflitto dopo conflitto, scattando immagini sconvolgenti e sempre fedeli al suo motto “se le foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino”. La morte gli dà scacco matto attraverso una mina antiuomo, nel 1954, nella guerra in Indocina, mentre Capa cerca, ancora una volta, di regalare all’umanità un’altra testimonianza dell’orrore dei conflitti bellici. Un fotoreporter, in fondo, non deve fare niente altro se non testimoniare la realtà e semplicemente “dare la notizia”.

Marco Travaglini

Le pitture digitali di Marchetti

 

Domenica 3 dicembre 2017 alle ore 17.30 presso la Sala Esposizioni Panizza di Ghiffa (Vb), l’Officina di Incisione e Stampa in Ghiffa “il Brunitoio” inaugura la mostra di pitture digitali “Oltre” di Alessandro Marchetti. La mostra verrà curata e presentata dalla critica d’arte Giulia Grassi. Alessandro Marchetti, conosciuto da molti solo come attore, è anche un artista capace di conciliare la sua attitudine a calcare le scene dei teatri con la pitture, la scultura in terracotta e bronzo e opere di pittura digitale come che saranno esposte a Ghiffa. Giulia Grassi, curatrice di questa mostra, ha scritto che “le opere di Alessandro Marchetti testimoniano soprattutto di come pittura e rappresentazione teatrale si contaminino profondamente l’una con l’altra. La pittura digitale è la tecnica più recente che l’artista utilizza per presentare piccole figure sul palcoscenico di originali “rappresentazioni”: “scatole” teatrali che nella loro scansione e disposizione sincronica ci riconducono, dai padovani affreschi giotteschi, alle moderne pellicole cinematografiche”. L’esposizione sarà visitabile dal 3 dicembre 2017 al 31 marzo 2018 nella sala “Panizza” di Corso Belvedere 114, Ghiffa (Vb).  Orario : da giovedì a domenica 16.00 – 19.00.

M.Tr.

Baci di dama gustosi (e salati)

baci

La versione salata dei tipici biscottini tondi piemontesi, eleganti, raffinati, romantici, l’uno la meta’ dell’altro uniti nell’abbraccio di un velo di morbida robiola

Queste piccole delizie sono la versione salata dei tipici biscottini tondi piemontesi, eleganti, raffinati, romantici, l’uno la meta’ dell’altro uniti nell’abbraccio di un velo di morbida robiola. Stuzzichini ideali per un buffet, un aperitivo, o un antipasto sfizioso per le prossime feste.

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Ingredienti :

 

100gr. di farina 00

100gr.di farina di mandorle

100gr. di burro freddo

3 cucchiai di parmigiano grattugiato

1 cucchiaio di brandy

sale, pepe q.b.

robiola tipo Osella q.b.

(con questa dose si ottengono circa 16 baci)

 

Miscelare nel mixer le due farine, unire il parmigiano, il burro a pezzi, il brandy, il sale, il pepe. Lavorare sino ad ottenere un impasto morbido. Formare delle palline, tagliarle a meta’, appoggiarle distanziate tra loro sulla teglia foderata di carta forno. Cuocere in forno a 100 gradi per circa 30 minuti. Lasciar raffreddare, farcire con la robiola e servire in pirottini di carta. Dolci come i baci…..buoni come le cose salate.

Paperita Patty

 

4^ MARATONINA DELLA FELICITA’

Ottimo risultato organizzativo e di partecipazione per la 4^ Maratonina della Felicità, facilitata da una giornata splendida
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
Nonostante il blocco auto, circa 500 partecipanti al via tra i quali, come sempre, podisti di ottimo livello (1h e 20 minuti il tempo impiegato dal più veloce partecipante alla 21 km), persone alle prime armi persino in una 5 km e tanti appassionati della corsa e della camminata sportiva che si sono cimentati a scelta sugli anelli da 10 o 21 km.
Il percorso principale – scandito da 21 pannelli alti 2 metri con i messaggi di buon senso tratti dalla guida scritta da L. Ron Hubbard intitolata appunto “La Via della Felicità” – è stato apprezzato da molti sia per la sua qualità tecnica e paesaggistica che per il suo il significato sociale.
La Maratonina della Felicità infatti vuole essere anche un veicolo di integrazione e di sensibilizzazione, di convivenza e di coinvolgimento andando non a caso a svilupparsi in aree significative e critiche delle periferie torinesi, con l’obiettivo a medio termine di contribuire in modo determinante alla riqualificazione di queste stesse aree. 
Tra i rappresentanti delle istituzioni il presidente della Circoscrizione 7 Luca Deri ha dato formalmente il via alla corsa assieme all’ultramaratoneta Simone Leo reduce dalla sua ultima impresa sportiva, ultramaratoneta piemontese finisher della Atene – Sparta – Atene490 km no stop e co-fondatore della Maratonina della Felicità.
L’associazione Fitwalking Settimo Chilometro si è aggiudicata il primo premio per i gruppi numerosi, al secondo posto Peace Road, terzi classificati O.A.S.I. di Cantù.
Beppe Tesio, presidente dell’associazione PRO.CIVI.CO.S. onlus, ideatrice e organizzatrice della Maratonina della Felicità nata nel 2014, ringrazia tutti “gli sponsor, i partner, la Polizia Municipale, le istituzioni e i numerosi volontari di altre associazioni che hanno contribuito in modo determinante all’ottima riuscita di questa edizione”. L’appuntamento è ormai d’obbligo al 2018. 

“Italia ripensaci: Firma il bando ONU contro le armi atomiche”

Martedì 28 novembre 2017, ore 16,30 sala Colonne di Palazzo civico, P.zza Palazzo di Città 1, Torino

l’incontro dal titolo Italia ripensaci: Firma il bando ONU contro le armi atomiche con Francesco Vignarca, Coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo, interlocutore in Italia dell’ICAN, Premio Nobel per la pace 2017

Dopo l’introduzione di Enzo Lavolta, Vice-presidente Vicario del consiglio Comunale di Torino, Paolo Candelari del coordinamento, porrà alcune domande a Francesco Vignarca sul Trattato ONU che mette al bando le armi nucleari, approvato il 7 luglio scorso, e sulla campagna in corso per convincere il governo italiano a ratificarlo.

Seguirà dibattito con i presenti.

La difficile situazione internazionale con intensificarsi di scontri politico/militari dalle conseguenze imprevedibili ma comunque catastrofiche, mette in evidenza la necessità di invertire la tendenza al riarmo. La presenza di più di 15000 ordigni nucleari sparsi per il mondo e posseduti da 9 stati, a cui altri potrebbero aggiungersi rende il mondo altamente insicuro. Alcuni degli stati non nucleari, delusi dalla sostanziale inerzia del trattato di non proliferazione hanno accolto la proposta di diverse associazioni della società civile di tutto il mondo che chiedevano di mettere al bando le armi nucleari così come è stato fatto con le mine anti-uomo, le bombe a grappolo e le armi chimiche e biologiche. Si è così arrivati al Trattato del 7 luglio scorso ora alla ratifica dei vari stati. L’Italia, come tutti i membri della Nato ha deciso di non ratificarlo. Noi vorremmo convincere il nostro governo del contrario tramite una campagna di pressione popolare.

Abbiamo pertanto invitato Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana Disarmo e referente per l’Italia della campagna internazionale per il disarmo atomico (ICAN) a parlarci delle motivazioni che dovrebbero spingere il nostro governo e dell’attuale stato della campagna.

La consegna del Premio Nobel per la pace 2017, all’ICAN, e il simposio internazionale sul disarmo atomico, convocato dalla Santa Sede il 10-11 novembre speriamo aiutino a prendere coscienza dell’improrogabile necessità di arrivare al più presto ad un mondo senza armi nucleari.

 

Per il Coordinamento di cittadini, associazioni, enti e istituzioni locali

contro l’atomica, tutte le guerre e i terrorismi

 

Paolo Candelari

In città l’aria torna (quasi) pulita. Revocati per il momento i blocchi del traffico

Sono revocati i blocchi del traffico contro lo smog. Lo ha deciso il Comune prendendo atto delle  rilevazioni degli ultimi due giorni dell’Arpa in base alle quali risulta  che la concentrazione di PM10 nell’atmosfera è tornata inferiore al limite di 50. Martedì  saranno attive come di consueto le limitazioni permanenti che riguardano gli Euro 0, 1 e 2 diesel ed euro 0 benzina, metano, gpl.

Rivalta da oggi è città

Mille anni di storia Il 25 ottobre scorso il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto presidenziale con cui attribuisce a Rivalta il titolo di Città. Si tratta di un riconoscimento che viene concesso ad alcuni Comuni in virtù della loro storia, del loro patrimonio artistico e culturale e per l’attuale importanza. Rivalta ha da poco compiuto i suoi primi mille anni ed è ricca di storia, di cultura e di tradizioni. Così il sindaco di Rivalta di Torino Nicola de Ruggiero: «Il primo ringraziamento sincero va al nostro Presidente per la fiducia che ha voluto accordare alla nostra comunità, al Ministro dell’Interno Marco Minniti per aver relazionato positivamente al Presidente e al Prefetto Renato Saccone per aver seguito con cura la nostra richiesta». «È una notizia che abbiamo accolto con emozione e orgoglio, in quanto si tratta di un riconoscimento che viene concesso solo ad alcuni Comuni, con caratteristiche e storie peculiari. È il giusto riconoscimento alla storia millenaria di Rivalta. Una storia ricca di cultura, di natura e di memoria. Una storia di lavoro e fatica, prima nei campi e poi nelle fabbriche». «Rivalta ha vissuto da protagonista gli anni della Liberazione e della lotta partigiana, dell’industrializzazione e della deindustrializzazione, dell’immigrazione degli anni cinquanta e di quella di oggi». Il titolo di Città non porterà più risorse nelle casse comunali, né contribuirà, da solo, a migliorare la qualità della vita dei rivaltesi. Non si tratta però neanche di un semplice cambio di nome. «Diventare Città -ha detto ancora Nicola de Ruggiero- vuol dire continuare a valorizzare le peculiarità della cultura locale che non risiedono solo negli edifici e nelle tradizioni, ma anche e soprattutto nelle persone, vecchie e nuove, che hanno scelto di abitare a Rivalta. Il compito che abbiamo adesso di fronte è non deludere la fiducia che il Presidente Mattarella ha voluto accordare alla nostra comunità». Rivalta nei prossimi mesi organizzerà incontri e appuntamenti in tutti i quartieri, per far conoscere e per far vivere questo riconoscimento nei rivaltesi. Si comincia già il 16 dicembre prossimo, giorno in cui verrà inaugurata la nuova Biblioteca nelle sale Castello.

Le prime opere in concorso di TFF 35

Il vento e il paesaggio dell’isola di Jersey fanno da sfondo a Beast di Michael Pearce che ha aperto i titoli in concorso del TFF 35. Dove Moll, irrequieta 27enne costretta a restare sotto il tetto di casa dalla malattia del padre e da una madre troppo protettiva, ne fugge il giorno del suo compleanno per passare la notte in un pub ed il mattino successivo fare l’incontro con Pascal, un ragazzo problematico, qualche condanna alle spalle, rassicurante e violento, un rebus per chiunque gli stia vicino. Clima non troppo tranquillo se nell’isola nei medesimi giorni la polizia è alla ricerca di un assassino che ha già rapito e ucciso quattro ragazzine e sembra sfuggire a ogni cattura. Mentre tutti sono contro questo amore che è nato tra i due ragazzi, Moll nasconde a se stessa i dubbi sulla vera natura di Pascal, cerca di vederne soltanto i lati positivi, la bontà e la solitudine, le idee preconcette e le idee sbagliate che l’intera isola ha da sempre su di lui. Poi qualcuno verrà catturato e la vita pare tornare nella sua normalità: ma Moll avrà davvero cancellato i dubbi verso quel ragazzo. Pearce racconta una storia con una ammirevole tensione, in cui alterna sospetti e attrazioni, costruisce rapporti intensi e un thriller delle anime che si fa seguire fino al termine, cercando lo spettatore dove stiano pirandellianamente la verità e la finzione: avendo una protagonista femminile bravissima nelle luci e nelle ombre del proprio personaggio, tesa come una corda di violino, esplosiva nel proprio passato come nel destino altrui. Magari già pronta a farsi avanti per il premio alla migliore attrice.

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Invece non è sufficiente la presenza di Isabelle Huppert a salvare Barrage di Laura Schroeder, triplice bandiera Lussemburgo/Belgio/Francia, dove la regista mette come dentro ad un gioco di specchi i conflitti e gli affetti e le incomprensioni di tre generazioni. Una madre, Catherine, non si è mai curata della figlia, abbandonata ad una nonna che l’ha allevata secondo il suo modo vivere, di pensare, di scegliere. Quando la donna torna per reclamare d’improvviso un po del tempo perduto, non tutto fila liscio come ognuno si augurerebbe, troppe cose andrebbero cambiate, troppe lacune andrebbero colmate. Potrebbe anche essere un racconto con il suo perché, se avesse una sceneggiatura capace di calarsi più a fondo e una regia non pronta ad appiattire tutto quanto, in cerca di sobbalzi narrativi ma facile al contrario a cadere in depressive (per lo spettatore) zone di noia, impelagandosi in inquadrature e in attimi stiracchiati oltre il dovuto. Ancora per la serie passiamoci sopra, l’argentino Arpòn, con contributi venezuelani e spagnoli, diretto da Tomàs Espinoza, che confessa di aver impiegato quattro anni tondi tondi della sua vista a portarne avanti i preparativi e solo quattro settimane per la realizzazione. Male per lui. Perché si è messo in testa di narrarci, e fin qui ci è riuscito, le strane, disordinate giornate di un preside che vive col chiodo fisso di andare a controllare gli zainetti di ogni singola sua allieva, con la decisione di trovarci chissacché. Capita che in quello di una piccola ribelli ci scovi una siringa che serve ad fare iniezioni nelle labbra delle compagne; ma che poi tutto si perda in sentieri affatto suoi e si sfilacci in incidenti, scomparse, sospetti, puttane e pappa, licenziamenti, nuovi incontri, dentro un film che rimane confuso, disordinato, inafferrabile.

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Divertimento al contrario – anche se il bel carico di critica che ne potrebbe nascere rimane parecchio in superficie, pur costringendo lo spettatore a riguardare al “paese perfetto” e a quel tutto che si è sempre fatto per il bene del popolo – in The death of Stalin, a gennaio sugli schermi come Morto Stalin se ne fa un altro, di Armando Iannucci, di padre napoletano e madre gallese, ovvero i giorni che seguirono a quel 2 marzo del ’53, quando con la scomparsa del padre della patria sovietica, colpito nel suo studio da emorragia cerebrale, i suoi sottoposto Malenkov, Kruscev, Berja, Molotov e compagnia scalpitarono per nascondere documenti, imbandire alle masse i funerali, respingere le stesse per ordine e per terrore con i mezzi più finali, soccorrersi e annientarsi a vicenda in un balletto di facce annichilite, impaurite, ancora disumane, affidare a Kruscev (uno sfrenato Steve Buscemi, che sa difendersi bene dalle altrettanto efficaci caratterizzazioni dei suoi colleghi) la nuova guida dei popoli. Forse se il regista avesse reso più “storico” il film e non fosse caduto, a tratti, nel trabocchetto dello sberleffo, tutto sarebbe apparso più tremendamente vero. Davanti alle immagini, ci regaliamo un sorriso infelicemente amaro. Qualcuno, forse, non riesce a spremere neppure quello.

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In questo clima di tentennamenti iniziali, finisce con il soddisfare del tutto e divertire The disaster artist, scritto interpretato e diretto da James Franco. Il quale ha scommesso sul film peggiore mai apparso nella storia di Hollywood, quel The room che Tommy Wiseau sceneggiò diresse e interpretò nel 2003, flop colossale con un budget di 6 milioni dollari e un incasso di 1800. Con la ambiziosa volontà di inseguire i propri sogni, sempre lontano dall’arrendersi, con la frenesia intima e distruttiva di voler ripercorrere le strade di Ed Wood, Franco nelle vesti smoderate e senza ritegno di Wiseau dai teatrini in cui tenta di recitare Shakespeare piomba a Los Angeles in compagnia di Greg Sestero (sarà lui a raccontare in una autobiografia la storia di The room), un altro che vuole scalare il mondo della celluloide. Un rapporto nato sul culto di James Dean, fatto di amicizia e di speranza, di tanti tentativi, soprattutto di quella fiducia che vuol credere in Tommy. Non si sa da dove venga, né quanti anni abbia, né da dove gli arrivino tutti quei soldi che la produzione del film gli intacca, per tacere di un povero linguaggio in suo possesso che il doppiaggio prossimo dovrà rendere con esattezza. Se Greg è più timoroso e guarda anche ad altre occasioni umane e professionali, Tommy viaggia con i suoi capelli lunghi, con il suo lato eccentrico, con la doppia cinghia dei pantaloni a mettergli meglio in evidenza le chiappe, con il culo in piena visione per rendere assai più veritiera con la partner infastidita. Respinto da un mondo che pur tra i suoi lustrini l’ha già messo da parte, Tommy il film se lo farà da solo, compra l’attrezzatura sia in pellicola che in digitale, mette su una troupe presto stanca, ripete nel ridicolo scena dopo scena. Sino alla serata della prima, tra le risate della sala. Non volute e non dovute per un drammone di una passione a tre risolto con un colpo di pistola, prologo all’etichetta di film culto nelle proiezioni di mezzanotte nei cinema americani. Un successo postume, mentre oggi Tommy insegue ancora parecchi progetti e si dedica ai suoi studi di psicologia. Da vedere, per il ritratto di questo squinternato attore/autore, per una memoria messa all’angolo, per l’operazione che James Franco costruisce, a cominciare dalla sua interpretazione, fantastica, per l’allineamento con l’esempio iniziale (e si resti in sala seduti per gustare l’appaiamento dei vecchi e dei nuovi brani), per i camei di certi colleghi (Sharon Stone, Melanie Griffith, Zac Efron), per il divertimento che sparge lungo la storia, per la approfondita “povertà” di un uomo che pur aveva creduto in un sogno.

 

Elio Rabbione

 

Thyssen 10 anni dopo. Voci dalle fabbriche dell’acciaio

Con Giorgio Airaudo, Loris Campetti, Alessandro Portelli, Eugenio Raspi. Letture di Anna Abate, Gianni Bissaca, Vilma Gabri. Giovedì 30 novembre, ore 18, Binaria centro commensale – Fabbrica del Gruppo Abele, via Sestriere 34 a Torino

 

Ridare voce agli uomini che hanno visto la loro vita intrecciata e fusa con quella della fabbrica, una fabbrica particolare, violenta e coinvolgente, come quella che produce acciaio. È il tema dell’incontro organizzato, a pochi giorni dal decennale del rogo della ThyssenKrupp di Torino, dal Premio Italo Calvino e da Binaria centro commensale, giovedì 30 novembre alle ore 18, negli spazi della Fabbrica del Gruppo Abele (via Sestriere 34, Torino). Al centro, i libri La città dell’acciaio di Alessandro Portelli (Donzelli, 2017) e Inox di Eugenio Raspi (Baldini&Castoldi, 2017), che costituiscono due importanti narrazioni delle voci provenienti dalle fabbriche dell’acciaio di Terni e di Torino: due stabilimenti siderurgici con una storia che percorre tutto il Novecento, e non solo, e che ha coinvolto i maggiori poteri industriali italiani, culminando con la loro convergenza nella ThyssenKrupp. Una storia che coincide con il declino della produzione dell’acciaio in Italia, ma che può essere letta anche come la parabola della grande industria italiana e del concetto di classe operaia.

 

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Insieme agli autori, saranno presenti Giorgio Airaudo, che nei giorni dell’incidente di Torino era segretario provinciale della Fiom torinese, e Loris Campetti, giornalista da sempre impegnato sui problemi del lavoro. Immagini e letture dai testi di Portelli e di Raspi completeranno un incontro che vuole essere, insieme, un atto di conoscenza del presente e un omaggio ai sette operai che, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007, vennero uccisi da un’ondata di fuoco nello stabilimento torinese. Protagonisti di “Torino – Terni. Dall’orgoglio al disincanto” sono due città legate a doppio filo alla nascita della grande industria, e i loro operai. Individui orgogliosi e combattivi, pur nell’estrema durezza della loro vita, che, per buona parte del secolo scorso, sono stati l’anima, il senso e la cultura di Terni e di Torino. Di questi uomini, Alessandro Portelli ci restituisce la memoria attraverso l’uso della sua fonte prediletta: la testimonianza orale.

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La città dell’acciaio è infatti il frutto di una ricerca storica di grande respiro perseguita lungo il corso di quarant’anni: oltre duecento interviste – che coprono almeno un secolo – agli operai delle acciaierie di Terni, danno vita al ritratto corale di un’Italia che passa dall’universo rurale a quello post industriale. Attraverso il racconto scandito dalla voce dei protagonisti, si assiste alla formazione di una centralità industriale che sembrava invincibile, e poi al suo declino, preparato dal sistematico smantellamento, pezzo dopo pezzo, degli stabilimenti. Insieme alla fabbrica, è un mondo intero ad andare in frantumi, con il progressivo e inesorabile sfaldamento di un’identità operaia che aveva nella dimensione collettiva della condivisione e della lotta la sua modalità di espressione privilegiata. Dell’ultima generazione operaia, quella del disincanto – ossia di quelli che arrivano in fabbrica “già scazzati e con la voglia di essere altrove” – Eugenio Raspi ci offre un ritratto dall’interno. Con il suo romanzo Inox, Raspi che per oltre vent’anni, fino al licenziamento, ha lavorato all’interno della Acciai Speciali di Terni fa entrare il lettore in ciò che resta dell’ex cattedrale ternana dell’acciaio. Centro del racconto è infatti il lavoro in fabbrica: un lavoro “sporco”, fatto di turni pesanti, di gesti precisi fuori dai quali il rischio di incidenti è quasi sempre un rischio mortale, ma anche dei conflitti che si instaurano tra operai, capisquadra, dirigenza e sindacati a causa di un contestato e difficile passaggio di proprietà. Come spiega l’autore nella nota finale al testo, “questo romanzo è il mio personale omaggio alla fabbrica in cui ho lavorato per venti anni, ma non solo: è un omaggio alla grande industria italiana che sta scomparendo per l’impotenza – o peggio ancora l’indifferenza – delle forze economiche e politiche del nostro Paese”.

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Giorgio Airaudo è nato a Torino nel 1960. Nel 1988 la Camera del Lavoro di Torino gli dà il compito di sindacalizzare i primi contratti di formazione e lavoro nello stabilimento Fiat di Mirafiori. Passa alla Fiom-Cgil e ne diviene prima segretario provinciale, poi regionale. Dal 2010 entra nella segreteria nazionale della Fiom come responsabile del settore auto. Nel 2013 viene eletto deputato con Sinistra Ecologia Libertà. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi La solitudine dei lavoratori.

 

Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Dopo la laurea in Chimica nel 1972, ha insegnato per anni nella scuola media. Entra nel mondo del giornalismo alla fine degli anni ’70, dirigendo per circa dieci anni la redazione torinese de «il manifesto». Negli anni successivi, sempre per «il manifesto», è inviato per le questioni europee, caposervizio dell’economia e caporedattore. Esperto di relazioni industriali, i suoi articoli sono dedicati a questioni sindacali. Ha pubblicato Non Fiat. Come evitare di svendere l’Italia (Cooper, 2002) e Ilva connection (Manni, 2013).

 

Alessandro Portelli è nato a Roma nel 1942. È considerato tra i fondatori della storia orale. Professore di Letteratura angloamericana all’Università «La Sapienza» di Roma, ha fondato e presiede il Circolo Gianni Bosio per la conoscenza critica e la presenza alternativa della cultura popolare. Collabora con la Casa della Memoria e della Storia di Roma e con «il manifesto». Ha scritto Biografia di una città. Storia e racconto: Terni, 1830-1985 (Einaudi, 1985). Per Donzelli, oltre a Le città dell’acciaio. Due secoli di storia operaia (2017), ha pubblicato L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (Premio Viareggio 1999), Canoni americani (2004), Città di parole (2006), Acciai speciali (2008), America profonda (2011), Badlands. Springsteen e l’America (2015).

 

Eugenio Raspi è nato a Narni nel 1967. Per ventidue anni ha lavorato come tecnico specializzato nella più grande fabbrica di Terni, la Acciai Speciali. Dal 2014, al termine del rapporto di lavoro e in attesa di nuova occupazione, scrive storie. È stato finalista della XXIX edizione del Premio Italo Calvino con Inox, pubblicato da Baldini&Castoldi nel 2017.

 

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Torino-Terni. Dall’orgoglio al disincanto. Voci dalle fabbriche dell’acciaio.

A dieci anni dal rogo della Thyssen. Con Giorgio Airaudo, Loris Campetti, Alessandro Portelli, Eugenio Raspi, letture di Anna Abate, Gianni Bissaca, Vilma Gabri

 

Giovedì 30 novembre 2017 – ore 18

Binaria centro commensale – Fabbrica del Gruppo Abele

via Sestriere, 34 – Torino