Il Bello sotto esame: prevenire l’arte è meglio che curarla?

preraffaellitiOltre ai numeri raccolti nei tre mesi di apertura al pubblico della mostra “Preraffaelliti. L’Utopia della bellezza” è interessante scoprire come il progetto abbia coinvolto vari esperti del settore artistico, dai più noti curatori e mediatori culturali, ai meno conosciuti responsabili del monitoraggio degli spazi museali e delle collezioni

 

La città di Torino ha ospitato dal 19 aprile fino al 13 luglio la mostra “Preraffaelliti. L’Utopia della bellezza”, curata dalla Tate Britain di Londra, a cui appartengono le settanta opere in esposizione ora di ritorno verso casa. Data la grande affluenza di pubblico e le numerose recensioni positive in merito al secondo allestimento all’interno del nostro ristrutturato Palazzo Chiablese, è parso naturale dedicare una rinnovata attenzione ai frutti di questa collaborazione con il Sole 24 Ore Cultura, per la prima volta parte attiva negli eventi culturali della città. Oltre ai numeri raccolti nei tre mesi di apertura al pubblico, è interessante scoprire come il progetto abbia coinvolto vari esperti del settore artistico, dai più noti curatori e mediatori culturali, ai meno conosciuti responsabili del monitoraggio degli spazi museali e delle collezioni. Se ne sono accorti i visitatori, che una volta a settimana per tutto il periodo espositivo hanno visto le opere meticolosamente ispezionate e pulite, durante quello che viene definito comunemente il “check” della mostra. Non essendo una pratica poi così diffusa nei nostri spazi espositivi – nonostante sia ormai una condizione essenziale per coltivare rapporti di scambio culturale con altre prestigiose realtà museali, in particolare internazionali, – è interessante cogliere l’opportunità di imparare a conoscere la figura professionale del conservatore di beni culturali.

 

A questo scopo è stata coinvolta la dottoressa Francesca Cena, titolare della Clinica dell’Arte e responsabile del monitoraggio ambientale e della collezione della Tate Britain ospitata a Palazzo Chiablese. Francesca Cena si è laureata in Scienza e tecnologia per i beni culturali a Torino, ed ha scelto di specializzarsi in un settore affascinante, quello dell’analisi di opere d’arte, per imparare ad affrontare il degrado del nostro patrimonio culturale. Figlia d’arte, ha imparato a prendersi cura del bello vivendo a stretto contatto con il mondo dell’antiquariato, e, nel corso dei suoi studi universitari, si è resa conto che l’ambiente espositivo o di conservazione, i trasporti e la movimentazione delle opere giocano un ruolo fondamentale nella manutenzione delle collezioni.

 

Da questa consapevolezza ha preso vita nel 2011 la Clinica dell’arte, un luogo ideale entro cui si propone di prevenire il degrado e di affiancare gli altri addetti ai lavori durante l’allestimento e il disallestimento delle mostre, oltre che nel periodo di esposizione. Quella con il Sole 24 Ore Cultura è solo una delle collaborazioni che ha portato avanti in questi anni, ma è stata certamente motivo di grande soddisfazione, come ci spiega personalmente.

 

Dottoressa Cena, la sua è una specializzazione molto particolare, si potrebbe definire un settore di nicchia, soprattutto in Italia. È così? Come spiegherebbe brevemente di cosa si occupa è perché?

Più che di nicchia, si può dire che si tratta di un settore nuovo, poco conosciuto. Quando ho cominciato l’università avevo un desiderio: unire la passione per l’arte coltivata in famiglia a quella per la scienza, che da sempre mi contraddistingue. Dopo la laurea ho scelto di specializzarmi in un campo fruibile da un pubblico ampio, con servizi utili a costi accessibili a tutti e soprattutto che mi permettesse di emozionarmi ogni volta che studio un’opera con uno dei miei strumenti. Sono queste le ragioni per le quali ho deciso di dedicarmi alla prevenzione dei danni alle opere d’arte – attraverso il monitoraggio ambientale ed illuminotecnico – e ad affrontare le conseguenze di una tutela non corretta del bene partendo da una diagnosi dello stesso, attraverso le indagini non invasive.

 

Le analisi sulle opere d’arte sembrano un po’ fantascientifiche, una sorta di approfondimento per addetti ai lavori. Invece lei ci dice che sono più facili da comprendere di quanto si creda, e che andrebbero lette in un’altra ottica, ovvero quella della manutenzione, ci spiega perché?

Le indagini diagnostiche permettono di andare “oltre il visibile”, ovvero mettono in risalto delle situazioni non ancora percepibili dall’occhio umano. Non è magia! Avere la possibilità di indagare tutte le componenti di ogni opera è un vantaggio incredibile. Le analisi di cui mi occupo restituiscono ognuna un risultato diverso in base all’obiettivo che ci si prefigge (ad esempio datazione, conservazione, manutenzione) e la loro sinergia è fondamentale per comporre la “scheda clinica” dell’opera in esame. Nella maggior parte dei casi utilizzare le indagini in tal senso, abbinate ad un accurato programma di conservazione, permette di prevenire il manifestarsi del degrado o comunque di rallentarne il processo, prima ancora che sia percepibile dal nostro occhio. Ed ecco l’enorme vantaggio: è possibile intervenire tempestivamente, anche evitando il restauro, che inevitabilmente ha dei costi importanti e comunque compromette l’originalità dell’opera.

 

Per quale motivo istituzioni come la Tate Britain richiedono il monitoraggio ambientale di uno spazio espositivo come Palazzo Chiablese? Si suppone che essendo appena stato restaurato sia in perfette condizioni, non è una precauzione eccessiva?

L’ambiente microclimatico rientra nelle principali cause di degrado delle opere d’arte, quindi dovrebbe essere uno dei primi fattori da considerare quando si tratta di esposizioni, temporanee o permanenti. Infatti, anche negli ambienti di nuova costruzione o comunque ristrutturati, è indispensabile verificare costantemente come l’edificio architettonico risponde alle condizioni climatiche esterne, all’affluenza di pubblico e al funzionamento della climatizzazione. Nella maggior parte dei casi gli impianti di condizionamento hanno delle sonde poste nei propri locali, ed installare dei rilevatori nelle sale espositive permette di controllare se i valori di funzionamento impostati all’interno delle macchine si mantengono ed in caso contrario è possibile intervenire di conseguenza, al fine di ottenere i valori per una corretta conservazione.

Inoltre, le istituzioni richiedono questo tipo di intervento per tutelarsi: attraverso il monitoraggio è possibile risalire agli eventi traumatici che possono verificarsi in occasione delle esposizioni temporanee (ad esempio guasti agli impianti, infiltrazioni, scorretta conservazione). Lo stesso discorso può essere fatto da parte dell’istituzione ospitante: è un’ottima garanzia offrire questo tipo di servizio! Sicuramente all’estero sono più propensi ai prestiti quando si propone il monitoraggio ambientale, data la loro abitudine a trattare l’argomento.

 

Se i restauri delle opere d’arte del nostro Paese sono così difficili da affrontare economicamente in questo momento di crisi, chissà che costo ha effettuare il monitoraggio di un museo o di una collezione!

Spesso quando si sente parlare di microacquisitori, rielaborazione dati, diagrammi di benessere, etc. è difficile comprendere in concreto l’entità del lavoro e si pensa subito a cifre astronomiche. In realtà esistono in commercio strumenti per tutti i gusti, e questo permette di pianificare un monitoraggio ad hoc sia per le grandi istituzioni pubbliche, sia per il privato particolarmente attento alla propria collezione. È mia abitudine formulare i progetti sulla base di step successivi, sia per le indagini che per il monitoraggio. Questo approccio ha diversi lati positivi: innanzitutto ogni fase può essere riformulata in base alle esigenze ed alle possibilità della committenza ed inoltre – quando si dovessero raggiungere gli obiettivi prima del completamento di tutti gli step – il progetto può essere interrotto anche solo momentaneamente, consentendo alla committenza di risparmiare.

 

Pensa che Torino e il Piemonte in generale siano sufficientemente all’avanguardia nel campo dell’arte non solo antica, ma moderna e contemporanea, per stare al passo con gli standard richiesti da istituzioni museali famose come la Tate?

Basandomi sulla mia esperienza lavorativa, posso dire che sul nostro territorio esistono diverse realtà estremamente sensibili alla Conservazione Preventiva e per questo motivo di vanto per la gestione degli spazi e delle collezioni. Attualmente però sono ancora molti gli spazi non all’altezza degli standard internazionali, e spesso emerge come, al di là della crisi economica che indubbiamente flagella il campo della cultura, questa mancanza sia dettata fondamentalmente da una mancanza di consapevolezza degli argomenti trattati fino ad ora e sui costi effettivi di progetti legati alla prevenzione. Parte del mio lavoro consiste anche nel cercare il più possibile di favorire la circolazione delle informazioni riguardanti il mio settore (attraverso conferenze, incontri privati, iniziative di vario genere). Credo sia l’approccio migliore per far sì che la situazione migliori e per guadagnarmi l’emozione che provo ogni volta che infilo camice e guanti.

 

Benedetta Bodo di Albaretto

 

(Foto: il Torinese)

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