Dalla capitale subalpina fino a Trieste il battesimo italiano dell’aviazione civile.
La storia italiana del volo deve molto a Torino, nei primi anni del 1900 sui cieli della città , per esempio, si avvistò lo Zeppeling, un dirigibile ad ossatura metallica, mentre nel 1908 a Piazza d’Armi avvenne un esperimento di volo con un percorso di 250 metri a 60 km l’ora. Il primo vero decollo, però, si vide sui prati diMirafiori il 13 gennaio del 1909 con il Triplano Spa-Faccioli, progettato e costruito a Torino dall’ingegner Aristide Faccioli, ex direttore tecnico della Fiat. Il figlio Mario fu il fortunato pilota di quella memorabile avventura e il primo italiano ad ottenere il brevetto; nello stesso anno Luigi Mina e Guido Piacenza stabilirono il record mondiale di altezza con il pallone aerostatico.
Non è finita qui, una fabbrica di aeroplani venne avviata nelquartiere Crocetta nel 1909 (i primi aerei ad essere costruiti furonoi biplani “Farman” e i monoplani “Blériot”) e nel 1912, nella città della Mole, Modesto Panetti fondò il primo laboratorio d’aeronautica che diventò in seguito la Scuola di Aeronauticaampiamente apprezzata anche da Italo Balbo. Il 10 luglio 1916 venne inaugurato l’aeroporto Torino-Aeritalia, uno dei più anzianitra quelli operativi sul nostro suolo dove si potenziò gran partedell’industria aeronautica italiana, e proprio da qui, la capitale subalpina vantò il primo servizio di posta area che avvenne il 22 maggio 1917 fino Roma con a bordo 200 chili di posta e 100 copie del quotidiano La Stampa.
Nel 1926, precisamente il primo di aprile, dallo specchio d’acqua del Po, all’altezza del Parco Valentino, piccoli idrovolanti partirono per il primo volo passeggeri italiano alla volta di Trieste con soste a Pavia e Venezia. Per la somma di 300 lire, con grande spirito di avventura ed entusiasmo per l’ incredibile novità, si attraversava la Pianura Padana sfruttando come punti di riferimento sulla rotta linee ferroviarie e fiumi (in quell’epoca non esistevano i radar!). All’inizio gli idroplani, dei CANT 10, erano in grado di portare 3 persone ma con l’andare del tempo si potenziò il servizio arrivando fino a 6 viaggiatori. I passeggeri dei primi voli furono rappresentati istituzionali e giornalisti e in verità qualche problema meccanico si ebbe tanto che una volta si dovette anche ammarare, ma questo non impedì ottimismi e operatività fino al 1936 quando la linea fu poi soppressa. I dieci anni di servizio ebbero comunque molto successo con più di 570 collegamenti, circa 1590 ore di volo e quasi 1600 passeggeri.
L’utilizzo degli idrovolanti all’inizio fu considerato molto comodo perché non richiedeva infrastrutture dove far decollare e atterrare i velivoli e gli hangar per parcheggiarli potevano essere nelle vicinanze, poi però la necessità di avere un corso d’acqua nei pressi delle destinazioni divenne un limite e fu così che nel caso di Torino si optò per la costruzione di un vero aeroporto, il Gino Lisa, accanto a quello militare a Mirafiori da dove nel 1929 un Fokker inaugurò il volo Torino – Milano – Roma che con 5 ore scarse raggiungeva la sua destinazione finale, mentre nel 1936 otto passeggeri arrivarono direttamente a Roma con un aereo Fiat che viaggiava a 300 chilometri, i prezzi non erano proprio competitivi ma neanche impossibili. Dopo un breve periodo i voli partirono da Collegno, ma nel 1953 nacque l’aeroporto di Caselle, l’attuale scalo del capoluogo piemontese.
MARIA LA BARBERA
Il titolo omaggia anche il libro “La toga negata” di Clara Bounous, che ha narrato figura della Pöet, riportata in auge, a livello nazionale, anche da “Prime… sebben che siamo donne. Storie di italiane all’avanguardia” di Bruna Bertolo. «Anni fa “Elisa di Rivombrosa” portò alla ribalta Agliè e il Canavese. La differenza è che noi non abbiamo avuto la troupe a girare sul territorio: la serie diventa l’occasione per andare a vedere proprio dove Lidia è nata e vissuta. I luoghi veri, quelli della sua storia» sottolinea Rossana, Turina, la presidente del Consorzio Turistico Pinerolese e Valli. «Traverse, dove nacque Lidia, è una piccolissima frazione di Perrero: vederla fa molto più riflettere sul fatto che questa donna sia stata la prima avvocatessa d’Italia. Poteva incarnare questo ruolo una donna di Torino, invece lo è stata Lidia che arrivava da questo angolo di Val Germanasca». Lidia fu paladina di una battaglia ultradecennale per ottenere, fra il 1884 e il 1920, l’iscrizione all’Albo degli Avvocati, ma fu anche protagonista di battaglie sociali per l’emancipazione femminile (nel 1922 divenne la presidente del Comitato pro voto donne di Torino), si impegnò a favore dei minori, e fu promotrice di tante attività in campo giuridico e culturale. «La storia personale di Lidia Poët oggi è tornata con grandissima forza e ha raggiunto un pubblico enorme proprio grazie alla serie che Netflix e Groenlandia hanno scelto di raccontare, portando sullo schermo uno spaccato delle sue tante battaglie intraprese». Così commenta il Presidente di Film Commission Torino Piemonte Beatrice Borgia, aggiungendo che «siamo molto soddisfatti di aver sostenuto fin dall’inizio un progetto di forte impatto produttivo e di poter ospitare ora le riprese delle seconda stagione. Il successo internazionale della serie ha trovato un corrispettivo locale molto significativo, facendo nascere percorsi e tour nei reali luoghi della vita di Lidia Poët: un segnale davvero positivo che dimostra ancora una volta il potere del cinema e la sua capacità di creare un immaginario o, come in questo caso, di riportarlo alla luce».
Indossavano una tunica e un lungo manto nero con una croce azzurra cucita sopra il cuore e li chiamavano i Cavalieri del fuoco sacro. Anche se il nome incuteva a prima vista un certo timore non erano guerrieri armati in partenza per la Terra Santa ma pacifici e scaltri monaci che sul finire del XII secolo all’imbocco della Valle di Susa misero in piedi un complesso religioso-ospedaliero per assistere i pellegrini sulla Via Francigena e per curare i malati di herpes zoster, il terribile “fuoco di Sant’Antonio”, che cercavano aiuto e conforto nei santuari di Sant’Antonio Abate. Erano i canonici ospedalieri dell’Ordine medioevale di Sant’Antonio di Vienne, noti come Antoniani, chiamati anche “i cavalieri del Tau”, che nel 1188 crearono la Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso a Buttigliera Alta, a una ventina di chilometri da Torino tra boschi e antiche cascine agricole. Le Precettorie erano domus medievali composte dalla chiesa con chiostro, le camerette dei monaci, l’ospedale, i magazzini per gli alimenti, fattorie e terreni agricoli. Il suono delle campane di Ranverso accoglieva pellegrini e mercanti che dai valichi del Moncenisio e del Monginevro, lungo il sentiero della Via Francigena, tra l’Abbazia di Novalesa e la Sacra di San Michele, scendevano verso Rivoli e Torino. In questo luogo di sosta, di riposo e di spiritualità c’era anche la foresteria per i viandanti e un piccolo ospedale di cui resta solo la facciata a capanna del ‘400 decorata con intarsi in terracotta, una sorta di lazzaretto per chi veniva colpito dal “fuoco” che, a quei tempi, mieteva molte vittime non esistendo una cura, un po’ come quando dilagava la peste. Fu il conte Umberto III di
Savoia, nato nel castello di Avigliana, a donare ai monaci antoniani il terreno su cui costruire il complesso monastico. La Precettoria godette per secoli della protezione dei Savoia e, quando l’Ordine ospedaliero Antoniano fu soppresso e assorbito dall’Ordine di Malta nel 1775, passò all’Ordine Mauriziano cui appartiene ancora oggi. Sant’Antonio abate nacque in Egitto nel III secolo da genitori cristiani copti, ricchi mercanti, abbandonò ogni ricchezza per vivere da eremita dedicando la sua vita alla cura dei sofferenti. Morì a 105 anni. Gli Antoniani fondarono ospedali che si diffusero velocemente in tutta l’Europa grazie a rendite, elemosine e all’allevamento dei maiali. Nel Quattrocento assistevano migliaia di pazienti, oltre 4000, in centinaia di ospedali sparsi nel Continente. Nei dipinti Sant’Antonio viene sovente raffigurato vicino
a un maiale il cui grasso veniva usato per tentare di bloccare l’herpes zoster. Negli stessi ospedali vennero isolati gli ammalati di peste quando il morbo si diffuse nella seconda metà del Trecento. La chiesa a Buttigliera Alta, costruita all’inizio del Duecento in stile romanico, assunse in seguito forme gotiche e fu ampliata e modificata nei secoli successivi. L’edificio religioso, così come l’Ospedaletto, fu dotato di una facciata a ghimberghe in cotto con pinnacoli per volontà del priore del tempo mentre il campanile gotico risale al XIV secolo. All’interno spiccano gli affreschi del torinese Giacomo Jaquerio, attivo nella prima metà del Quattrocento e ideatore del gotico internazionale in Piemonte e il Polittico della Natività con i Santi Rocco, Sebastiano, Antonio abate e Bernardino da Siena realizzato nel 1531 dal chivassese Defendente Ferrari come voto per volere di Moncalieri durante l’epidemia di peste di quell’anno. La Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso è un luogo di notevole interesse storico e artistico: quando si transita da queste parti è consigliabile fare una tappa qui, lungo la statale per Avigliana. È aperta da mercoledì alla domenica con orario 9,30 -13,00 e 14 -17,30. Filippo Re

Dopo la suggestiva rassegna “Lustro e lusso dalla Spagna islamica”, il “MAO-Museo d’Arte Orientale” di Torino continua il suo viaggio di avvicinamento alla grande mostra del prossimo autunno, incentrata sull’arte dei “Paesi tra Estremo Oriente e Centro Asia fino alle sponde del Mediterraneo”, con la presentazione, all’interno della “galleria islamica” e fino a domenica 17 settembre, di un progetto espositivo dedicato ai più raffinati oggetti di arte islamica medievale in metallo. Dal titolo “Metalli sovrani. La festa, la caccia e il firmamento nell’Islam medievale”, la mostra – curata da Veronica Prestini – rappresenta la prima collaborazione fra il “Museo” di via San Domenico e la britannica “The Aron Collection”. Bruciaprofumi, bottiglie porta profumo, portapenne, candelieri, vassoi, bacili e coppe: in esposizione troviamo una mirata selezione di quella “metallistica” datata XII – XV secolo che, insieme alla “miniatura”, può essere considerata fra le più alte espressioni della creatività artistica islamica e che dalla Persia raggiungeva a Oriente l’India e la Cina, arrivando in Occidente fino alle pendici dell’Atlante e alla stessa Europa, dimostrando quanto le percezioni estetiche viaggino sempre per conto loro, assolutamente incuranti di frontiere politiche e religiose. Fra i soggetti preferiti, in fase di decorazione, al primo posto é sicuramente quello della “caccia”, in particolare l’iconografia del re a cavallo affiancato da alcuni animali (falconi e ghepardi, soprattutto) e da una schiava (artista scienziata o musicante); non meno “gettonati” i temi dell’“astronomia” e dell’“astrologia” che rivestivano un ruolo centrale nella vita dei sovrani, influenzandone le scelte politiche, militari e perfino amorose. Altri soggetti, realizzati non di rado dagli artigiani del tempo, erano le “scene di festa e banchetto”, legate al genere letterario Bazm-o-Razm, ovvero “banchetto e battaglia” ad indicare come le piacevolezze della pace non potessero mai disgiungersi dal ciclico ardore dei combattimenti. E’ dunque un repertorio artistico “straordinario e metafisico”, quello che possiamo leggere in mostra, associato ad uno stupefacente “rigore calligrafico” applicato in prevalenza negli oggetti destinati all’illuminazione, quali candelieri e lampade, fondamentali nella vita quotidiana, ma anche nella più sfarzosa dimensione spirituale e sacra.Fra gli oggetti più raffinati in esposizione troviamo un “Portapenne incrostato in argento” (Mosul, Iraq, fine XIII secolo), che reca una raffigurazione del sole
circondato dai pianeti (motivo iconografico tipico degli oggetti destinati a governanti e ad altri membri dell’élite nonché emblema dell’iconografia astrologica nell’Islam medievale) e un grande “bacile in ottone inciso e ageminato in argento” (Fars, Iran meridionale, XIV secolo) dalla decorazione altamente simbolica, con scene di caccia che ricorrono su tutta la superficie dell’oggetto, espressione di una prerogativa reale che, rimandando alle eccezionali qualità di combattente del sovrano, ne legittimavano il potere.
Il lungo telone rosso separa la zona degli scavi dal resto della chiesa in cui si tengono regolarmente le funzioni religiose. Si continua a scavare nella cattedrale di Susa dopo l’eccezionale ritrovamento di una cripta dell’XI secolo rimasta sepolta sotto l’abside per mille anni. È la cripta della cattedrale romanica di San Giusto venuta alla luce di recente durante i lavori di restauro del coro ligneo del Trecento. L’hanno individuata gli archeologi della Soprintendenza di Torino dopo uno scavo di 3-4 metri sotto il pavimento dell’abside. Una scoperta inaspettata e affascinante. La cripta dell’XI secolo era sepolta sotto metri di macerie e sono state trovate pitture, una scala ad anfiteatro con sei gradini in pietra, stucchi di animali, reperti in bronzo del Duecento e il reliquario che potrebbe essere proprio quello di San Giusto.
dentro una cattedrale. La chiesa originaria, consacrata nel 1027, quasi 1000 anni fa, fu fatta costruire dal marchese di Torino Olderico Manfredi II per conservare le spoglie di San Giusto Martire e nel Settecento divenne cattedrale. È l’epoca di uno dei matrimoni più influenti nella storia del Piemonte, quello tra la contessa Adelaide di Torino e di Susa, figlia di Olderico e cugina di Matilde di Canossa, e il marchese Oddone di Savoia. Nozze importanti perché consentirono ai Savoia di penetrare in Piemonte dalla Francia e dare vita ad una delle più grandi e potenti dinastie del mondo.
fine lavori mentre il pavimento di tutta l’area absidale è stato rimosso. È una scoperta importante perché il cantiere, del costo di un milione di euro tra fondi della Cei (Conferenza Episcopale Italiana) con l’8 per mille e fondi del Ministero dei Beni Culturali, metterà in risalto le vestigia romane e medievali individuate al di sotto dell’altare. Resta una domanda: perché la cripta è stata coperta lasciando tutto al suo posto? Forse la causa è da ricercare in un terremoto o in qualche altra calamità. Ulteriori studi daranno forse una risposta certa. Ora si guarda al 2027 per celebrare i mille anni di vita della cattedrale.
Ricorre il Centenario della morte dell’Arcivescovo di Torino, dal 1897 al 1923, Agostino Richelmy.
di Benedetto XV e nel 1922 per quella di Pio XI.
Giacomo Maria Martinacci ha indossato durante la partecipata celebrazione il prezioso paramentale donato dal Cardinale.