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Torino tra architettura e pittura: Giacomo Balla

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

3) Giacomo Balla (1871-1958)

Mi piace sempre fare un po’ di dibattito con i miei studenti, parlare, proporre loro delle tematiche su cui riflettere, ascoltare ciò che pensano è non solo stimolante e interessante per entrambe le parti, ma necessario per tenere attiva l’attenzione. Uno degli ultimi argomenti su cui ci siamo impelagati è stato davvero complesso, ma credo che abbia fatto comprendere alla classe quanto l’arte possa essere una materia interdisciplinare, diversificata e soprattutto ampia. La riflessione riguardava il concetto di “damnatio memoriae”, e il fatto che in tempi antichi non destasse tanto scalpore la distruzione di opere d’arte; tali accadimenti erano motivati da varie ragioni, politiche prima di tutto, ma anche religiose. Il discorso si è poi allargato e ci siamo ritrovati a dibattere sulla complessa questione dell’arte come “atto distruttivo”.
Le operazioni artistiche talvolta lavorano “in negativo”, rimandano al “disfare” e alla “distruzione creativa”, come per esempio i tagli di Fontana o le combustioni di Burri, inoltre molte “performance” di celebri artisti come Hermann Nitsch o esponenti della “body art”, di cui Marina Abramović è la regina indiscussa, sono allo stesso tempo “atti distruttivi” e “esibizioni spettacolari”.
Non sono pochi i testi e le interviste di esperti del settore che sottolineano il sottile e articolato legame tra tale particolare estetica artistica e la strategia del terrore, basata anch’essa sul “distruggere per richiamare l’attenzione del pubblico”. E se tale modo d’agire “funzionava” in passato, oggi risulta tragicamente vincente: viviamo ormai ai tempi dei “mass media”, una cosa non è vera finché non viene caricata su internet e non ottiene milioni di visualizzazioni. Si pensi ai tragici eventi del 2001, all’esplosione dei Buddha di Bamiyan o alla caduta delle Twin Towers: entrambi momenti angosciosi e tremendi, entrambi rigorosamente filmati e mostrati al mondo con il preciso scopo di spiazzare e terrorizzare gli spettatori.

Eppure l’atto di distruggere un’opera d’arte può avere anche un’altra valenza. Nella “graphic novel” di Alan Moore, “V for Vendetta” il protagonista, mascherato da Guy Fawkes, cospiratore cattolico protagonista della “Congiura delle Polveri”, vuole far esplodere il parlamento inglese, edificio simbolo di una dittatura violenta e totalitaria. La demolizione dell’edificio storico diventa, nel fumetto, simbolo di un nuovo inizio, della libertà del popolo che trionfa sulla dittatura.
L’arte come “atto di distruzione”, la distruzione di opere d’arte, qual è il confine tra i due concetti? Dove può condurre l’etica della spettacolarizzazione? Non basterebbe un ciclo di conferenze per esaurire tali argomentazioni, figuriamoci quarantacinque minuti di didattica a distanza.
Tanto per mantenere attivo il dibattito con la classe, ho voluto insistere su un particolare movimento artistico e culturale che a mio parere risulta più che azzeccato per la situazione.
“Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.” Questo dice il decimo punto del Manifesto del Futurismo, scritto da Tommaso Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909 sulla prima pagina de “Le Figaro”. Nasce così il movimento d’avanguardia con cui l’Italia si affaccia al panorama europeo dell’arte contemporanea; Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), con la stesura del Manifesto teorico del Futurismo, dà vita ad una corrente artistica che investe tutti i campi culturali, dalla poesia all’arte, dalla letteratura alla musica, dalla danza al teatro. I Futuristi sostengono che sia necessario “cancellare il passato e inneggiare al futuro tecnologico” ed esaltano la distruzione di musei, accademie, biblioteche, perfino di alcune città storiche, per fare spazio alle nuove forme di bellezza che vanno ricercate nel progresso, nelle città industriali, nelle macchine e nel concetto della velocità.

Va tuttavia sottolineato che il Futurismo non è stato un movimento unitario e spesso la carica di attrazione che esercitava sugli artisti si esauriva in fretta.
Al Manifesto letterario presto ne seguono altri: nel 1910 Umberto Boccioni, (1882-1916), scrive il Manifesto relativo alla pittura futurista, due anni dopo Giacomo Balla, (1871-1958) e Fortunato Depero, (1888-1916) redigono il Manifesto della scultura futurista; di questo gruppo di artisti fanno parte altresì Carlo Carrà, (1881-1966), Luigi Russolo, (1885-1947), e Gino Severini, (1883-1966). Nel 1914 viene proclamato il Manifesto dell’architettura futurista, steso da Antonio Sant’Elia (1888-1916).
La progettazione dell’ideale “città futurista” viene immaginata da Sant’Elia in una serie di disegni che rappresentano grattacieli dotati di alte torri, edificati in metallo, vetro e cemento; all’interno dei progetti urbanistici sono compresi aeroporti, centrali elettriche, ponti e strade a vari livelli. Le architetture risultano imponenti e si ergono come “volumi puri”; al di là della vera e propria funzione, tali costruzioni paiono dei “monumenti” volti a celebrare “il trionfo della tecnologia”.
Una città brulicante e in continuo fermento, affollata e caotica, un po’ viene da chiederselo: Sant’Elia sarebbe poi effettivamente sopravvissuto ad un sabato pomeriggio in centro all’ora di punta? Bisogna sempre fare attenzione a ciò che si dice.
Per i Futuristi la protagonista indiscussa della rappresentazione artistica è “la realtà in movimento”, studiata e approfondita nel suo continuo divenire e nella sua incessante trasformazione.
In pittura, ad esempio, i soggetti prediletti sono le automobili, i treni, gli aerei, ma anche i cavalli al galoppo, uomini in azione, che camminano, che danzano, o colti mentre corrono; inoltre sono spesso rappresentate le strade, traboccanti di traffico convulso o costellate di cantieri edilizi, emblemi della città che cresce.
Gli artisti sono fortemente influenzati dalla cronofotografia e dal cinema, mezzi che permettono di registrare le fasi di un’azione, istante dopo istante. È per questo motivo che nei dipinti dei Futuristi il movimento viene scomposto nelle diverse fasi, come se si trattasse di studi scientifici in cui i vari momenti vengono visualizzati separatamente e poi sovrapposti. Più che esplicativo in tal senso è il “Dinamismo di un cane al guinzaglio (guinzaglio in moto)”, opera del 1912, realizzata da Giacomo Balla.

Questa modalità di rappresentazione del movimento risulta totalmente nuova e avrà larga eco nelle figurazioni grafiche dei fumetti. Il ritmo del moto viene sottolineato e accentuato da linee curve, oblique, ondulate o a spirale, che accompagnano il soggetto nella sua traiettoria, come a visualizzare le “scie” delle parti che fendono l’aria. I futuristi, oltre a preferire soggetti dinamici, amano l’uso di colori intensi e vivaci, contrapponendosi ai cubisti, che privilegiano tinte smorzate o monocrome e soggetti statici.
Vorrei ora soffermarmi proprio su Giacomo Balla, uno dei principali esponenti della pittura futurista. Egli nasce a Torino nel 1871, qui frequenta l’Accademia Albertina di Belle arti, dove conosce Pelliza da Volpedo; incomincia a dipingere quadri di matrice “pointilliste”, ma non segue rigorosamente il programma di Seurat e Signac. Nel 1895 Balla lascia definitivamente la città natale e si stabilisce a Roma, qui si avvicina in un primo momento al “Divisionismo”. Tra il 1908 e il 1910 si conclude il momento puntinista e si apre quello futurista; l’opera che segna il passaggio da un movimento all’altro è “Lampada ad arco”, tela databile al 1909, lo stesso anno in cui viene proclamato il Manifesto letterario di Marinetti.

In ambito futurista, Balla si dedica alle ricerche sulla scomposizione del colore e sulle fasi del movimento, percorso che si può constatare, oltre che nel già citato “Dinamismo di un cane al guinzaglio”, nell’opera “Ragazza che corre sul balcone, linee di velocità + paesaggio”, tela che risente degli studi che nel frattempo sta portando avanti la fotografia, come dimostra in particolar modo il lavoro di Anton Giulio Bragaglia. Essenziale, per quel che riguarda la scomposizione della luce e del colore, è il ciclo intitolato “Compenetrazioni iridescenti” (1912-1914), costituito da una folta serie di quadri e lavori ormai completamente astratti.
Negli anni in cui aderisce al futurismo, Balla si dedica anche alla scultura e allo studio di diversi materiali: in questa fase del suo percorso artistico lo si può considerare precursore del dadaismo.
Dopo il fervore iniziale, l’artista ritorna su temi più tradizionali, quali la raffigurazione di città, paesaggi e ritratti, riprendendo tecniche più convenzionali, anche se è giusto sottolineare che non abbandonò mai del tutto gli studi futuristi.
Certo non è sufficiente un’ora di lezione per discorrere di certi argomenti, così come non è questa la sede per spiegare in modo esaustivo le diverse complessità del Futurismo.
Credo tuttavia che il compito di un buon insegnate sia anche quello di stimolare nei propri studenti pensieri e riflessioni e, soprattutto, di pungolare la curiosità che mette in moto la mente e fa sì che ognuno possa approfondire in autonomia le tematiche proposte. D’altra parte ciò che si studia a scuola non è fine a se stesso, anzi sovente, è più attuale di quanto si creda.

Alessia Cagnotto

Il centro Pannunzio ricorda Umberto II a quarant’anni dalla scomparsa

L’ULTIMO RE D’ITALIA. APPUNTAMENTO A PALAZZO CISTERNA

GIOVEDÌ 16 MARZO ALLE ORE 17,30 nella sede della Città Metropolitana di Torino a Palazzo Cisterna (via Maria Vittoria, 12), in collaborazione con l’Associazione internazionale Regina Elena, verrà ricordato il quarantennale della scomparsa dell’ultimo Re d’Italia Umberto II, nato a Racconigi nel 1904. L’incontro verrà aperto dal suono dell’Inno sardo. Verrà letto dall’attrice Ornella POZZI un racconto di Giovannino Guareschi dedicato all’esilio di Umberto II e verrà proiettato uno straordinario servizio televisivo di Enzo Tortora inviato speciale ai funerali del Re ad Altacomba.  Prenotazione obbligatoria con whatsApp o sms al 3488134847.

Davanti alla Corona ferrea tra fede e leggenda

“Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!”. Troppo bella, troppo preziosa. Non sbagliava di certo Napoleone quando pronunciò quella famosa frase mentre, da solo, si metteva in testa la Corona ferrea auto-incoronandosi re d’Italia nel Duomo di Milano.

La Corona ferrea, risalente al IV-V secolo, è il pezzo più pregiato conservato nel Duomo di Monza, al centro della cappella di Teodolinda, in una teca nell’altare. Vederla da vicino, a così tanti secoli di distanza, è un’autentica emozione, un grande spettacolo. Siamo dinanzi ad un oggetto incredibile, a tu per tu con la Storia. Una delle tante meraviglie della nostra penisola che possiamo ammirare solo per pochi minuti. Millecinquecento anni di storia ti passano di fronte in un istante, quel diadema immortale brilla di luce e colori, irradia un’energia straordinaria e ti ricorda che in quel momento sei davanti alla storia d’Italia e dell’Europa cristiana. Un oggetto antico utilizzato per l’incoronazione dei re d’Italia, per dare un riconoscimento quasi divino al loro regno, dai re longobardi a Carlo Magno, dal Barbarossa a Carlo V fino a Napoleone. La Corona ferrea è un vero gioiello formato da sei piastre in oro e argento decorate di gemme, zaffiri, smalti, rosette e petali dorati uniti tra loro da cerniere e legate da un anello di ferro. Secondo la tradizione cristiana il ferro fu ricavato da un chiodo con cui fu crocifisso Gesù e per la Chiesa cattolica si tratta di una reliquia che Sant’Elena avrebbe trovato nel 326 d.C. durante un viaggio in Palestina e inserito nella corona del figlio, l’imperatore Costantino. Ancora oggi, una domenica di settembre, la Corona ferrea viene portata in processione per il centro storico di Monza. Il suo valore è simbolico, la sua fama sta nell’incoronazione di grandi personaggi della storia. Tutto ciò è custodito nel Duomo di Monza ma non è questo l’unico tesoro pieno di fascino in cattedrale. La Corona di ferro risplende al centro di uno stupefacente tempietto, a sinistra dell’abside centrale del Duomo: è la celebre cappella di Teodolinda e, quando si accendono le luci, la cappella lascia di stucco chi la guarda. Sulle pareti, affrescate alla metà del ‘400 dai pittori milanesi Zavattari, c’è tutta la storia di Teodolinda in 45 scene di vita, le storie descritte risalgono al VI secolo, all’epoca di Teodolinda, ma i costumi indossati da uomini e donne sono del Quattrocento. Teodolinda era una regina longobarda, bavarese, cattolica, saggia e colta, che decise di fare di Monza la sede estiva del regno longobardo. Si sposò due volte, con Autari che morì un anno dopo le nozze, e poi con Agilulfo, duca di Torino, che convertì al cattolicesimo insieme al popolo longobardo. Esercitò molta influenza sulle scelte politiche del nuovo sovrano a tal punto che gli storici sostengono che le decisioni principali del regno furono prese da entrambi. Il loro figlio, Adaloaldo, fu il primo re longobardo ad essere battezzato cattolico. La regina e suo figlio sono sepolti in un grande sarcofago posto dietro l’altare della cappella. Anche Agilulfo ha il suo gioiello, è la Croce di Agilulfo, custodita nel Tesoro del Duomo.                Filippo Re
nelle immagini
la Corona ferrea
la cappella di Teodolinda
Duomo di Monza

Il rogo della Vijećnica negli scatti di Siccardi

 

Tra le immagini esposte nella mostra fotografica di Paolo Siccardi “La lunga notte di Sarajevo”, organizzata da La Porta di Vetro e giunta alla quinta settimana ( resterà aperta al pubblico nel Mastio della Cittadella di Torino, tra corso Galileo Ferraris e via Cernaia, fino al prossimo 19 marzo ) quella dedicata al rogo della biblioteca nazionale di Sarajevo è particolarmente evocativa.

La prima cosa che viene in mente è la canzone intitolata Cupe Vampe, contenuta nell’album Linea Gotica che il Consorzio Suonatori Independenti pubblicò nel 1996: “Di colpo si fa notte e s’incunea a crudo il freddo. La città trema, livida trema. Brucia la biblioteca, i libri scritti e ricopiati a mano che gli ebrei sefarditi portano a Sarajevo in fuga dalla Spagna. S’alzano i roghi al cielo, s’alzano i roghi in cupe vampe. Brucia la biblioteca degli Slavi del Sud, europei dei Balcani..”. La Vijećnica è uno dei simboli tragici dell’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna. Prima del conflitto che insanguinò i Balcani occidentali rappresentava il solo archivio nazionale di tutte le pubblicazioni bosniache. Un  milione e mezzo di libri, tra i quali oltre centocinquantamila esemplari rari e preziosi e numerosi manoscritti unici al mondo. La sua imponente maestosità in stile pseudo moresco, opera degli austroungarici che nel 1894 la eressero ai piedi delle colline dove nacque la città, la pone da allora  in stridente contrasto con le  case e le vie strette dellaBascarsija, l’antico mercato ottomano. Le altissime finestre di vetro intarsiato si affacciavano sul fiume Miljačka e  sul monte Trebević. All’interno tra panchine, sedie e scrivanie di legno massiccio “c’era un odore misto di polvere antica e di quel grasso che un tempo si usava per conservare il legno”. I visitatori entravamo in silenzio,  quasi con il fiato sospeso, cercando di smorzare il suono dei passi. Avvertivano l’importanza di quel grandioso palazzo dove si conservavano libri che a Sarajevo erano sempre stati considerati alla stregua degli oggetti sacri. Il 25 agosto 1992, scoccata la mezzanotte, dalle colline che circondano la città i serbi spararono le prime bombe incendiarie sulla Vijećnica. La biblioteca fu bersagliata dall’artiglieria degli assedianti per tre intere giornate. L’accuratezza dei lanci non lasciava dubbi sul fatto che il bersaglio fosse proprio l’ostentato e  volgare desiderio di cancellare le memorie, i percorsi, le storie, le vite degli altri. Dopo tre giorni di incendi della biblioteca rimasero solo lo scheletro di mattoni anneriti e una montagna di cenere. Un disastro che rimase impresso nella memoria di Kemal Bakaršić, uno dei bibliotecari: ”Tutta la città fu coperta da brandelli di carta bruciata. Le pagine fragili volavano in aria, cadendo giù come neve nera. Afferrandola, per un attimo era possibile leggere un frammento di testo, che un istante dopo si trasformava davanti ai tuoi occhi in cenere”. Perché bombardare una biblioteca? Perché lanciare proiettili e bombe, impiegando mezzi, uomini e tempo per distruggere qualcosa che non spara, che non offende? Una semplice domanda, quasi ingenua, che si fecero in molti mentre cercavano, armati di secchi di acqua sporca, di spegnere i roghi e smorzare le  fiamme. La risposta, che valeva allora come vale oggi, la diede il mite bibliotecario Bakaršić: “perché lì dentro la loro guerra non esiste. Perché lì dentro gli scrittori serbi sono nello stesso scaffale di quelli bosniaci”. Una convivenza culturale inaccettabile per l’ottuso, ignorante e violento nazionalismo. Solo tre mesi prima i medesimi incendiari avevano distrutto alla stessa maniera l’Istituto Orientale a Sarajevo. Un odio aggressivo verso il sapere degli altri e di tutti che mandò in fumo la grande collezione di manoscritti e testi rari, spesso documenti unici in arabico, persiano o ebraico che testimoniavano mezzo millennio di storia della Bosnia e dell’Erzegovina. In quel momento la perdita aprì gli occhi a molti esponenti della cultura e della scienza. Tra loro si fece strada la consapevolezza che stava accadendo qualcosa di terribile. Ma quando toccò alla Biblioteca Nazionale, il dolore venne avvertito da tutti i sarajevesi, compresi quelli che non avevano mai preso in prestito  un suo libro. I cecchini e l’artiglieria serba non stettero a guardare e concentrarono il fuoco sui vigili del fuoco, sui bibliotecari e sui giovani volontari che formavano una catena umana nel tentativo di salvare i libri. Una ragazza che lavorava alla Vijećnica, Aida Buturović, perse la vita per salvare quei preziosi documenti. Lo scrittore bosniaco Goran Simić , guardando dalla sua finestra la Biblioteca in fiamme, in preda alla disperazione, prese carta e  penna e  con rabbia  lanciò il suo urlo di dolore in versi:”Liberati dalla canna fumaria, i personaggi girovagavano per la città, mescolandosi con i passanti e le anime dei soldati morti. Ho visto Werther seduto sul recinto del cimitero distrutto; Quasimondo dondolante sul minareto di una moschea; Raskolnikov e Mersault sussurravano, per giorni, nella mia cantina; Yossarian già commerciava con il nemico; il giovane  Tom Sawyer era pronto a vendere, per pochi soldi, il ponte Principov”. Le foto di Siccardi, fotoreporter torinese che frequentò a lungo la “Gerusalemme d’Europa” e i Balcani, restituiscono trent’anni dopo ricordi tragici e emozioni che non possono lasciare indifferenti.

Marco Travaglini

“Feste ebraiche” al Centro Pannunzio. Conferenza con il rabbino capo Finzi

GIOVEDÌ 9 MARZO ALLE ORE 17,30 presso la sede di Via Maria Vittoria 35h a Torino

Ariel FINZI, Rabbino capo della comunità ebraica di Torino, terrà una conferenza sul tema “LE FESTE EBRAICHE”. Introdurrà Pier Franco QUAGLIENI. L’ebraismo prescrive numerose festività, intese come giorni in cui si ricorda un avvenimento particolare o un particolare momento dell’anno. Il termine festività non deve far pensare che tutte queste ricorrenze siano felici: alcuni infatti sono giorni di lutto e digiuno a ricordo di momenti tragici nella vita del popolo ebraico. Sono riferite al calendario ebraico, di tipo calendario lunisolare e non anno solare come il comune calendario. Manifestazione con il patrocinio della Comunità Ebraica di Torino.

Tour tematici per i 200 anni della Scuola di Cavalleria

Tra Pinerolo e dintorni

Due tour tematici si svilupperanno tra Pinerolo e i dintorni in occasione dei duecento anni dalla Fondazione dell’Arma di Cavalleria a Pinerolo. In programma il 18 e 19 marzo prossimi.
La mattinata sarà dedicata alla Visita guidata del Museo dell’Arma della Cavalleria e delle sale
recentemente restaurate. Seguirà poi un tour a piedi verso il centro storico alla scoperta di quanto per un
secolo la Scuola di Cavalleria abbia contribuito a plasmare la Pinerolo della Belle Epoque, tra cui la
Cavalleria Caprilli, costruita tra il 1909 e il 1910 dal Genio Militare e oggi la più antica struttura nel suo
genere e il più grande maneggio coperto d’Europa.
Il 19 marzo prossimo si terrà un pomeriggio dedicato alla visita guidata delle due dimore storiche fuori città, il palazzo Conti di Bricherasio e il castello di Miradolo, entrambi già di proprietà dei Conti Caccherano di Bricherasio e strettamente legati a vicende di primissima importanza per gli sviluppi storici e economici,
ben oltre i confini del Pinerolese.
Il tour terminerà al Castello di Miradolo con una degustazione della Torta Zurigo-Castino e caffè/te.
MARA MARTELLOTTA

Donne celebri, il libro. Presentazione a Palazzo Madama

Mercoledì 8 marzo 2023 ore 11

 

Palazzo Reale

Appartamento di rappresentanza, Sala Lavaggio

Piazzetta Reale 1, Torino

 

 

 

In occasione della Giornata Internazionale della Donna, mercoledì 8 marzo alle ore 11 i Musei Reali presentano il volume Donne celebri nel Gabinetto delle Miniature del Palazzo Reale di Torino (Editris edizioni), pubblicato con il sostegno di Rotary Club Torino Palazzo Reale, Rotary F.R.A.C.H. e Zonta Torino.

Il volume, curato da Lorenza Santa con la collaborazione di Gelsomina Spione del Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino, è dedicato ai ritratti femminili che si conservano nel prezioso Gabinetto delle Miniature dell’Appartamento della regina Maria Teresa, al primo piano del Palazzo Reale.

 

Il Gabinetto delle Miniature è un piccolo e raffinato ambiente rivestito di specchi in cui è incastonata la straordinaria collezione di 232 dipinti di piccolo formato, in gran parte a soggetto dinastico, con ritratti realizzati nel Settecento da Giuseppe Lavy, fino alla serie novecentesca commissionata da Vittorio Emanuele III di Savoia.

 

La sfilata dei ritratti femminili si apre con Caterina di Schiren, moglie del leggendario Beroldo vissuto nell’anno Mille, per concludersi con la seconda regina d’Italia, Elena del Montenegro. A questo nucleo si affiancano ritratti di dame di corte e donne celebri per bellezza e virtù: tra queste Hélène Fourment, moglie di Pieter Paul Rubens, la celebre pittrice Lavinia Fontana ed Elisabetta di Borbone Francia, sposa di Filippo IV di Spagna, dipinte all’inizio del Settecento dall’abate Giovanni Felice Ramelli. La collezione comprende anche le tele del veneziano Giuseppe Nogari, dipinte nel 1740-1742 con soggetti ispirati alla pittura di genere olandese.

 

Il volume presenta 99 immagini di donne, riunite per la prima volta, con una selezione di schede biografiche che ripercorre il filo secolare della storia che le ha viste protagoniste nella famiglia, nella politica e nelle arti. Le ricerche sono state realizzate grazie al contributo di un gruppo di studentesse e studenti del Corso magistrale in Storia dell’Arte dell’Università di Torino.

 

Parte del ricavato della vendita della pubblicazione sarà devoluta al Telefono Rosa di Torino – Centro Antiviolenza e di Orientamento per i Diritti delle Donne.

Il volume è disponibile nel Museum Shop dei Musei Reali, al primo piano della Galleria Sabauda.

 

In occasione della Festa Internazionale della Donna, nei musei e nei luoghi della cultura statali mercoledì 8 marzo l’ingresso è gratuito per le donne.

 

Dal 14 marzo al 6 aprile 2023 il Gabinetto delle Miniature nell’Appartamento della regina Maria Teresa sarà aperto al pubblico con visite accompagnate, comprese nel biglietto dei Musei Reali.

 

Torino, 7 marzo 2023

 

Donne celebri nel Gabinetto delle Miniature del Palazzo Reale di Torino (Editris edizioni)

Disponibile nel Museum Shop dei Musei Reali, al primo piano della Galleria Sabauda

Costo del volume 16 euro

 

Sito internet: museireali.beniculturali.it

 

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I Bizantini a Palazzo Madama?

Dopo la Regina Margherita arrivano i Bizantini a Palazzo Madama?

La voce circola nelle sedi museali ma nulla è ancora confermato. Si deve trovare una rassegna per “riempire” la primavera quando, a Pasqua, calerà il sipario sull’attuale mostra “Le chiavi della Città”. Intanto al Mann di Napoli, il Museo archeologico nazionale, prosegue la mostra “Bizantini, un impero millenario” prorogata di due mesi, fino al 10 aprile, per il grande successo di pubblico. La prossima tappa di questa rassegna potrebbe essere proprio Torino. Cosa c’entra Bisanzio con la nostra città? C’entra molto anche se il capoluogo subalpino non può certo competere con città come Ravenna, Venezia e la stessa Napoli che fu legata a Bisanzio per molto tempo.
Eppure il vessillo di Bisanzio sventolò per secoli sulle terre del Monferrato e proprio a Palazzo Madama si trovano tesori bizantini tra i quali gioielli e fibule d’oro e d’argento, alcuni dei quali sono stati prestati alla mostra di Napoli che racconta il mondo affascinante dell’Impero d’Oriente mettendo in vetrina mosaici, sculture, affreschi, monete, ceramiche, smalti, suppellettili d’argento, oreficerie e sigilli. Sono oltre 400 le opere allestite al Mann di Napoli che fu città “bizantina” per sei secoli dopo la conquista del generale Belisario nel 536 dopo Cristo. Torino fece parte, anche se per pochi anni, nel VI secolo, dell’impero bizantino e lo stemma attuale del Monferrato riprende il vessillo del Marchesato del Monferrato (967-1574), con l’aquila bicipite d’oro dell’Impero bizantino e lo stemma del Paleologo con quattro “B greche”. Non solo ma c’è anche una bella e interessante storia che parte proprio dal Piemonte. Una ragazza alessandrina sposò, otto secoli fa, nientemeno che l’imperatore di Bisanzio. Ecco perché è importante una mostra sui Bizantini a Torino. La giovane in questione si chiamava Violante del Monferrato, nota anche come Jolanda degli Aleramici, nacque nel 1273, probabilmente a Casale Monferrato, e morì nella città sul Bosforo nel 1317. Fu un personaggio femminile di notevole prestigio per la storia del Monferrato. Era figlia del marchese Guglielmo VII di Monferrato e di Beatrice di Castiglia. Dal Monferrato al trono di Bisanzio, è questa la storia di Violante e Andronico II Paleologo, il basileus bizantino. Un tal giorno la giovanissima principessa Violante salpò da Genova a bordo di una galea e dopo un lungo viaggio raggiunse Costantinopoli insieme ad un’ambasceria. Non tornò mai più nel suo Monferrato. Nella capitale imperiale sposò Andronico. Lei, divenuta imperatrice d’Oriente, aveva solo 12 anni, lui ventitré e già vedovo con due figli. Dall’unione con l’imperatore nacquero sette figli, tre dei quali morirono poco dopo la nascita. Lei visse in una delle corti più splendenti e sfarzose del Medioevo ma non fu una vita felice, fu un matrimonio combinato, come si usava a quell’epoca, per rendere più saldi e forti i rapporti, già secolari, che legavano la dinastia degli Aleramici a Bisanzio e all’Oriente, niente di più. Dopo la nascita del primo figlio Violante divenne imperatrice con il nome greco di Irene di Bisanzio. Il figlio più importante fu il secondo, Teodoro I.
Principe greco, il giovane Teodoro Paleologo si trasferì in Piemonte nel 1306, divenne signore del Monferrato e diede inizio in terra piemontese alla nuova dinastia dei Paleologi del Monferrato che continuò fino alla prima metà del Cinquecento. E come annotano gli storici, l’influenza della corte bizantina nel periodo di Teodoro si fece sentire con molto vigore nelle terre dei marchesi. Tra Violante e Andronico l’unione non fu felice, come detto, i rapporti della coppia imperiale divennero sempre più complicati per contrasti di natura politica. Violante andò a vivere nel vecchio regno aleramico di Tessalonica, ceduto dopo le nozze ad Andronico, ma per poco tempo. Si ammalò e morì nel 1317.
Filippo Re
nelle foto:
mostra “Bizantini, un impero millenario” al Mann di Napoli
imperatore Andronico II
Stemma del Monferrato

“Gianduja e il Bogo” Un libro per la storia e la cultura di Torino

Marco Albera, Giorgio Enrico Cavallo, Gianduja e il Bogo: cento anni di carnevali a Torino, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2022 –

Il volume, con introduzione di Gustavo Mola di Nomaglio eAlbina Malerba, rispettivamente vicepresidente e direttrice del Centro Studi Piemontesi, e postfazione di Dino Aloi, è stato realizzato con il contributo di Baggio dal 1919 «per il traguardo secolare della ditta» fondata dal nonno materno di Albera, e si sofferma sull’interessante collezione, che, messa insieme negli anni da Albera, egli ora ci presenta nelle pagine di questo saggio che ha scritto a quattro mani con Cavallo. Sarebbe riduttivo credere che si tratti di un generico approfondimento sui carnevali subalpini, infatti, fin da subito, si coglie la forte valenza storica del saggio di questi due studiosi: storia della Città, dei suoi abitanti e, naturalmente, di Gianduja e del Bogo.

Ma considerare solo un saggio questo volume sarebbe riduttivo, anzi troppo riduttivo, perché si tratta di un vero e proprio catalogo, il catalogo di una insolita raccolta di documenti e cimeli storici sui carnevali torinesi che, per un percorso temporale di poco più di cento anni, testimonia la presenza in Città della “maschera” torinese per antonomasia (quel Gianduja, personaggio così espressivo del sentimento subalpino che Viriglio preferì definirlocarattere) e del suo degno aiutante una figura che ha tutte le caratteristiche del testimonial più valido (Bogo, appunto).

Sul filo della memoria documentaria ricostruita con la passionedel collezionista, la narrazione si offre alla lettura come “memoria scientifica vivace e appassionante che ci offre diversi spunti di riflessione. Una memoria storica! e la Storia si fa avvincenteperché l’accompagna in riproduzione fotografica  un cospicuo numero di cimeli della Collezione Albera incentrata sui carnevali torinesi nel tempo, una memoria che vuole ricordare rendendo loro testimonianza tanti personaggi reali, non tutti individualmente famosi, ma tutti degni di memoria per aver contribuito nel tempo a dare vivacità al carnevale con un senso profondo di umanità, che da sempre, in area torinese, si è preoccupata di chi correva il rischio di essere messo da parte, perché escluso da chi emergeva.Questo, però, a Torino non è mai successo, perché sempre si è colta questa festa come un pretesto per unire davvero tutti quanti, cercando di aiutare i meno fortunati. Lo scorrazzare della festa chiassosa e variopinta dell’anno, infatti, da sempre, ha costituito un’occasione per assistere tutti quegli altri che altrove sarebbero stati relegati a spettatori della ‘follia’. Il Carnevale di Torino dunque, nasce con un forte coinvolgimento popolare e non è mai stato una festa salottiera riservata a pochi fortunati dal diritto di annoiarsi. Carnevale è anche stato un momento politico perché occasione  nella quale si poteva esporre liberamente anche un parere contrario. E il momento storico in cui prese vita e si sviluppò tra noi questo evento è coinciso con i fermenti del Risorgimento nazionale e ha seguito, attraverso le guerre di indipendenza tutta la sua evoluzione storica fino all’impresa d’Africa: tanto che, in città, i Savoia partecipavano alla festa di piazza e avevano un ruolo diretto nella carnevalata popolare. Per questo, all’estero questa festa era nota, apprezzata e partecipata…

Gianduja non può essere mai considerato un tipo che sta sulle sue perché lo vedremo pronto, già dai suoi primi anni, ad aprire il suociabòt” per accogliere i colleghi venuti da tutta Italia! Pronto a proclamare con tutti il suo “viva noi”, diretto ad unire e assimilare tra  le sue fila i compagni di ogni parte dello Stivale, sempre con bonarietà e bon ton, senza trascendere in volgarità o in imperdonabili cadute di stile (Gianduia non per nulla è interlocutore di Don Bosco in una sua poesiola). Questo è in sintesi il senso più notevole che queste pagine evidenziano e, per questo, è un peccato ancora più grave che, col trascorrere degli anni, il tutto si sia stemprato in senso meramente ‘commerciale’.

Il Carnevale però non è più, lo si legge chiaramente tra le righe, anche se ha cercato di mantenere saldi i suoi valori originali e l’ha fatto ogni volta che il delegato a rappresentarli ricordava l’importanza che poteva avere il suo andare in giro per dichiararea tutti, soprattutto ai meno fortunati, ai più lontani, e a tutti quelli che religiosamente e civilmente celebravano di volta in volta la Città.

A sostegno delle parole c’è, e lo si presenta molto bene, un cospicuo e variegato insieme di disegni, fotografie, incisioni ed anche oggetti, che, raccolti con passione, attentamente studiati e catalogati, vengono raccontati in questo volume, con il piacere di partecipare al lettore ogni sfumatura, ogni vivacità utile per comprendere la storia niente affatto ‘minore’ che qui, però, viene raccontata per la prima volta. Per questo l’edizione merita l’attenzione e il riguardo delle opere prime, quelle vere, non quelle propinate come tali per futili motivi commerciali…

Il volume, esteticamente segue l’impianto di un catalogo d’arte e procede  a blocchi passando dalla comparsa di Gianduja sulla stampa periodica e sui fogli d’occasione poi questo nostro personaggio, rustico magari di lineamenti ma curato nell’abito e dignitosissimo (per cui porta una livrea ma senza mai rinunciare alla dignità conquistata) sa dare la mossa che è il via ai riti carnevaleschi perché, da sempre è il maestro di cerimonia (primo al mondo) autorizzato a sostituirsi alle autorità cittadine. La sua solidità ha fatto sì che fosse adottato dalla pubblicità che ha visto in lui un emblema di continuità innovativa e per questo, pur diventando espressione commerciale, è rimasta viva la sua figura nei colori tradizionali del suo abbigliamento in costume quasi settecentesco. A Bogo, invece che trae le origini dal primo personaggio pupazzo usato dalla propaganda per la quale sembra nato, l’essere costituito soprattutto d’aria ha fatto sì che fosse presto esploso, dopo i festeggiamenti effimeri della settimana grassa. Che dire ancora, se non che, il volume lo rileva a ogni istante Carnevale a Torino nasce come espressione di buon gusto e di gusto contando soprattutto sul coinvolgimento degli artisti che s’ingegnarono nel loro Circolo per studiare ogni volta nuove forme, nuove attrattive visive, tutte rispettose del buon cliché ricco  di bellezza e privo di volgarità che è innato nella torinesità.

Carlo A. M. Burdet