STORIA- Pagina 4

Il Duca d’Aosta: sei ore per trasportarlo

Alla scoperta dei monumenti di Torino / La statua in bronzo fu  trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento

Il monumento è situato all’interno del Parco del Valentino, in asse con corso Raffaello e nel centro del piazzale nel quale confluiscono i viali Boiardo, Ceppi e Medaglie D’Oro. La statua che raffigura, sul cavallo ritto sulle zampe posteriori, il poco più che ventenne Amedeo di Savoia Duca d’Aosta durante la battaglia di Custoza, è posta su un dado di granito che poggia a sua volta su un basamento contornato da una fascia di coronamento in bronzo,rappresentante (in altorilievo) 17 figure tra cui numerosi personaggi celebri della dinastia sabauda. Ai gruppi di cavalieri si alternano vedute paesaggistiche come la Sacra di San Michele, il Monviso e Torino con il colle di Superga sullo sfondo.Sul fronte del basamento, poggiata sulla chioma di un albero al quale è appeso lo stemma reale di Spagna, un’aquila ad ali spiegate regge tra gli artigli lo scudo dei Savoia.Nato il 30 maggio 1845 da Vittorio Emanuele (il futuro re Vittorio Emanuele II) e da Maria Adelaide Arciduchessa d’Austria, Amedeo Ferdinando Maria Duca d’Aosta e principe ereditario di Sardegna, crebbe seguendo una rigida educazione militare.Nel 1866 gli venne affidato il comando della brigata Lombardia e partecipò alla battaglia di Custoza nella quale, nonostante fosse stato ferito da un proiettile di carabina, continuò a battersi distinguendosi così per il suo coraggio ed il suo valore.In seguito alla rivoluzione del 1868 e alla cacciata dei Borboni, in Spagna venne proclamata la monarchia costituzionale e nonostante la situazione risultasse molto difficile, Amedeo di Savoia accettò l’incarico così, il 16 novembre 1870, venne eletto Re di Spagna con il nome di Amedeo I di Spagna.Ma la situazione politica risultò ancora più instabile di come lui se la fosse prospettata e davanti a rivolte e congiure (nel 1872 sfuggì miracolosamente ad un attentato), nel 1873 abdicò rinunciando per sempre al trono.Tornato in Italia, venne nominato Tenente Generale e Ispettore Generale della Cavalleria; si spense il 18 gennaio 1890 a causa di una incurabile broncopolmonite.

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Signorilmente affabile con tutti, sempre pronto a prodigarsi per il bene della sua amata città, fu (anche durante il periodo della sua sovranità in Spagna) un personaggio molto popolare e ben voluto tanto che, neanche una settimana dopo la sua morte, la città di Torino costituì un comitato promotore per l’erezione di un monumento a lui dedicato, sotto la presidenza del conte Ernesto di Sambuy. Venne aperta una sottoscrizione internazionale alla quale, la stessa città di Torino, partecipò con la somma di L. 25.000 e in seguito, il 6 marzo 1891, venne bandito un concorso tra gliartisti italiani per stabilire chi sarebbe stato l’autore dell’imponente opera. Tra i ventinove bozzetti presentati ne furono scelti sei che vennero esposti nei locali della Società Promotrice di Belle Arti, in via della Zecca 25 ed in seguito, tra i sei artisti vincitori, venne bandito un nuovo e definitivo concorso che vide come vincitore (nel dicembre del 1892) Davide Calandra. La decisione, secondo le parole della Giuria, fu motivata “dal poetico fervore immaginoso della concezione, dall’eleganza decorativa dell’insieme, dalla plastica efficacia del gruppo equestre e dalla vivace risoluzione del difficile motivo della base“. Inizialmente l’ubicazione del monumento avrebbe dovuto essere, secondo la proposta del Comitato Esecutivo approvata dalla Città di Torino nella seduta del Consiglio Comunale dell’11 giugno 1894, il centro dell’incrocio dei corsi Duca di Genova e Vinzaglio, ma a causa delle dimensioni maestose del basamento si decise che fosse necessario uno spazio più ampio per ospitare l’opera. Dopo avere effettuato delle prove con un simulacro di grandezza naturale in tela e legname (costato alla Città la somma di L. 2480), si decise di collocarla nel Parco del Valentino sul prolungamento dell’asse di Corso Raffaello, presso l’ingresso principale dell’Esposizione Generale Italiana tenutasi del 1898: il 9 novembre 1899 il ConsiglioComunale approvò la scelta della Giunta di tale ubicazione.

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La statua in bronzo fu dunque trasportata, nel giugno del 1900, dalle fonderie Sperati (corso Regio Parco) al Parco del Valentino e per compiere quel tragitto di circa tre chilometri furono necessarie più di sei ore a causa appunto delle ingenti dimensioni del monumento. Il monumento venne inaugurato il 7 maggio 1902, in occasione della Prima Esposizione Internazionale di Arte Decorativa e Moderna di Torino, durante la quale lo scultore fu anche premiato per aver inserito nell’opera elementi di “Art Noveau”. Nel corso dell’inaugurazione il conte Ernesto di Sambuy, a nome del Comitato, consegnò l’opera al Sindaco di Torino. Originariamente il monumento venne circondato da una cancellata in ferro dell’altezza di circa 130 centimetri, disegnata dallo stesso Calandra, che venne rimossa probabilmente a causa delle requisizioni belliche durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 2004 il monumento è stato restaurato dalla Città di Torino. Per fare un piccolo accenno al Parco del Valentino, di cui certamente parleremo in modo più approfondito prossimamente, bisogna ricordare che ilmonumento ad Amedeo di Savoia è situato nell’area nella quale, fra Ottocento e Novecento, si tennero a Torino alcune tra le più importanti rassegne espositive internazionali. Nel 1949, proprio a fianco del monumento, sorse il complesso di Torino Esposizioni, un complesso fieristico progettato da Pier Luigi Nervi che, durante le Olimpiadi Invernali di Torino 2006, ha ospitato un impianto per l’hockey su ghiaccio dove sono state giocate circa la metà delle partite dei tornei maschili e femminili. Al termine delle Olimpiadi, la struttura è tornata all’originario uso abituale ripredisponendo un padiglione come palaghiaccio per i mesi invernali. Cari lettori anche questa ennesima passeggiata tra le “bellezze torinesi” termina qui. Mi auguro che il monumento equestre ad Amedeo di Savoia vi abbia incantato ed incuriosito proprio come ha fatto con me; nel frattempo io vi do appuntamento alla prossima settimana alla scoperta o meglio “riscoperta” della nostra città.

(Foto: www.museo.torino.it)

Simona Pili Stella

Monte Verità, culla dell’utopia

Ascona è un comune svizzero del Canton ticino, sul lago Maggiore. E’ lì che s’incontra “il luogo che non c’è”, la culla dell’utopia: il monte Verità. A partire dall’inizio del ventesimo secolo , su questa  collina appena sopra la perla dell’alto Verbano, tra Brissago e Locarno, si riunirono intellettuali e artisti alla ricerca di valori e modi di vita alternativi. Un’umanità varia composta da vegetariani, predicatori del ritorno alla vita rurale, sostenitori dell’utilità delle pratiche igeniste all’aria aperta (ginnastica, sole e bagni freddi) e anche da chi propagandava l’anarchia e il libero amore.

I fondatori del movimento Henry Hoendekoven, figlio di un industriale belga, e Ida Hoffmann, femminista e insegnante di pianoforte, arrivarono sulle rive del lago Maggiore dalla Germania. Vi giunsero a piedi, rifiutando le abitudini di una società sempre più materialistica, alla ricerca di uno stile di vita a contatto con la terra, la natura, la semplicità. A quel tempo il monte Verità si chiamava Monescia e i naturisti comprarono terreni e costruirono case seguendo stili precisi. All’epoca sul colle non c’era neppure l’acqua ma non per  questo si persero d’animo e per tutto il primo ventennio del ’900 il Monte Verità  diventò la “piccola patria” di pensatori, scrittori, artisti, anarchici e di chiunque fosse interessato a sperimentare in completa libertà le proposte rivoluzionarie del gruppo. Vi soggiornarono le menti più vivaci dell’epoca: Carl Gustav Jung, Erich Maria Remarque, Thomas Mann ,André Gide, Herman Hesse ( che viveva a Montagnola, nel ticinese distretto di Lugano ). E non mancarono gli anarchici e rivoluzionari come Bakunin e Lenin. I valori condivisi erano l’emancipazione femminile, il vegetarianismo, la danza di gruppo (o euritmia, spesso fatta alla luce della luna), l’abolizione del denaro con la sostitutiva pratica del baratto, l’originalissima abolizione delle maiuscole nei testi. La comunità sosteneva che la coltivazione della terra in costumi adamitici portava benefici al raccolto. Nel giro di pochi anni gli abitanti di Ascona iniziarono a guardare con sospetto a cosa stava accadendo sulla loro collina. Ma non protestarono, si limitarono a chiamare quei nudisti ballerini, agricoltori, musicisti e messaggeri dell’amore libero, con un innocuo nomignolo: i “balabiòtt”. Sarà pur bizzarra la storia del Monte Verità e dei suoi “danzatori nudi” ma, come mi disse un vecchio intellettuale ticinese e storico del lago Maggiore, “è la bellezza di questa landa libertaria dove le idee si rispettano anche quando non si condividono”.

Marco Travaglini

Il conte Camillo nella piazza della Ghigliottina

Alla scoperta dei monumenti di Torino / In età Napoleonica nel centro di  piazza Carlina venne collocata la ghigliottina, sostituita poi dalla forca negli anni della Restaurazione.  La piazza insieme alla Contrada San Filippo (via Maria Vittoria) fece parte dell’insediamento ebraico

Prosegue il nostro affascinante viaggio alla scoperta della “grande bellezza” di Torino. Questa volta cercheremo di sollecitare la vostra attenzione e curiosità introducendo un personaggio che fu uno dei maggiori protagonisti della nostra città. Stiamo parlando della statua eretta in onore di Camillo Benso Conte di Cavour, situata in piazza Carlo Emanuele II conosciuta da tutti come piazza Carlina. 

Situato al centro della piazza, l’articolato monumento celebrativo presenta un complesso programma iconografico imperniato sull’allegoria. In alto, avvolta in un’ampia toga classicheggiante, campeggia la figura idealizzata di Camillo Benso Conte di Cavour, che nella mano sinistra tiene una pergamena su cui è scritto “Libera Chiesa in libero Stato” mentre, inginocchiata ai suoi piedi, vede l’Italia porgergli la corona civica (corona d’alloro). Nel piedistallo si snodano le quattro figure in marmo che rappresentano le allegorie del Diritto, del Dovere, dell’Indipendenza e della Politica. Completa il piedistallo, nella parte alta, un fregio continuo in bronzo decorato da ventiquattro stemmi delle Province italiane.

Nel basamento vi sono quattro bassorilievi in bronzo che rappresentano due avvenimenti storici ( “Il Congresso di Parigi” e “Il ritorno delle truppe sarde dalla Crimea”) e gli stemmi della famiglia Cavour incorniciati da una corona d’alloro e da una ghirlanda di frutti. Nato il 10 agosto 1810 da una famiglia aristocratica e di forte spirito liberale, Camillo Paolo Filippo Giulio Benso frequentò in gioventù il 5° corso dellaRegia Accademia Militare di Torino fino a diventare Ufficiale del Genio. Abbandonata la carriera militare, il giovane si dedicò (sia per interesse personale che per educazione familiare) alla causa del progresso europeo, viaggiando all’estero soprattutto in Francia ed Inghilterra. Ricoperto il ruolo per diciassette anni come sindaco del Comune di Grinzane, affina le sue doti di politico ed economista e dal 1848, diviene deputato al Parlamento del Regno di Sardegna; in seguito con il governo D’Azeglio diventa Ministro dell’Agricoltura, del Commercio, della Marina e nel tempodelle Finanze.

Fondatore del periodico “Il Risorgimento” (assieme al cattolico liberale Cesare Balbo), Cavour manifesta costantemente la sua distanza dalle idee insurrezionali di Mazzini, promuovendo una linea di cambiamento moderata che ottenne più consensi nei cittadini borghesi ed aristocratici. Diventato nel 1848 Presidente del Consiglio dei Ministri promosse riforme economiche sia per lo sviluppo industriale che per l’agricoltura del Regno perseguendo, inoltre, una forte politica anticlericale volta a creare uno stato laico e ad abolire i privilegi della Chiesa. Essendo un abile diplomaticoriuscì ad accordarsi sia a livello internazionale con Francia ed Inghilterra, sia a livello nazionale, riuscendo a destreggiarsi fra le esigenze della monarchia e gli impulsi repubblicani, riuscendo così ad ottenere le annessioni al Regno di Sardegna di numerose province attraverso peblisciti.

Cavour morì il 6 giugno del 1861 all’età di cinquantuno anni, compianto da tutta l’Italia appena unificata.Nei giorni successivi alla sua scomparsa venne espressa, in una seduta della Giunta di Torino, l’intenzione di erigere un monumento a Camillo Benso Conte di Cavour; fu aperta una sottoscrizione per l’erezione del monumento alla quale parteciparono istituzioni e cittadini da tutta Italia e anche dall’estero ed in un anno, si riuscì a raccogliere la cifra di L. 550.000. A gennaio del 1863 venne bandito il concorso e la Commissione incaricata, dopo aver fissato la cifra di L.500.000 per i premi e per la realizzazione, scelse come localizzazione piazza Carlo Emanuele II.L’architetto napoletano Antonio Cipolla si aggiudicò il progetto ma, una volta esposta la relazione alla Giunta (nel giugno del 1864), dopo una lunga discussione tra i membri della Commissione, venne sospeso ogni provvedimento; l’anno dopo una seconda Commissione affidò l’incarico direttamente a Giovanni Duprè, che lo assunse ufficialmente nell’aprile 1865.

La realizzazione dell’opera richiese otto anni e dopo aver spostato più volte la data dell’inaugurazione, l’8 novembre 1873 venne finalmente inaugurato, davanti alla presenza del Re, il monumento a Camillo Benso Conte di Cavour. Per quanto riguarda la piazza che ospita il celebre monumento, sappiamo che piazza Carlo Emanuele II fu oggetto di un primo progetto seicentesco redatto da Amedeo di Castellamonte su commissione dello stesso Carlo Emanuele II, che aveva richiesto una piazza celebrativa della sua persona con monumento equestre centrale. In realtà, in seguito, la piazza venne semplificata nel disegno e destinata a mercato.

Con la decisione di erigere il monumento a Cavour la Giunta comunale approfitta dell’occasione per ripensare la piazza, proponendo l’abbattimento di una serie di casupole e facendo sorgere la Chiesa di Santa Croce, il palazzo Roero di Guarene e l’ex Collegio delle Provincie (ora Caserma dei Carabinieri). In età Napoleonica nel centro della piazza venne collocata la ghigliottina, sostituita poi dalla forca negli anni della Restaurazione.  La piazza insieme alla Contrada San Filippo (via Maria Vittoria) fece parte dell’insediamento ebraico; il ghetto venne istituito per regia costituzione, in vigore sino al 1848, quando lo Statuto pose fine alle restrizioni imposte agli ebrei.

Nota curiosa riguardante la piazza, è il fatto che essa sia sempre stata conosciuta (almeno da tutti i torinesi) come “Piazza Carlina”. Riguardo a questo nomignolo esistono varie leggende, ma pare che la più diffusa sia quella che vede il soprannome “Carlina” legato all’atteggiamento molto effeminato di Carlo Emanuele II e al sospetto che le sue attenzioni sessuali fossero indirizzate più agli uomini che non alle donne. Le maligne voci, nate durante il suo trono, diedero così vita all’ormai riconosciuto toponimo Piazza Carlina. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili stella

Nel ricordo di Anna Frank

ACCADDE OGGI

Era il 12 Giugno del 1942 e tra i regali di compleanno Anna Frank, che oggi compirebbe novantasei anni, ( 1929 – 1945 ) ricevette un diario con la copertina in tela a quadretti rossi, appunto quello che divenne il suo famosissimo diario letto da tutti, a tutte le età, tradotto in 60 lingue, venduto in tutto il mondo.

Proprio ciò che lei non avrebbe voluto che avvenisse. Nei suoi progetti doveva essere uno scrigno confidenziale e segreto come per ogni adolescente di questo mondo, ma per lei non fu così. Chi non conosce questa ragazzina divenuta simbolo della Shoah, giovane ebrea tedesca nata nel periodo più sbagliato per la sua vita di bimba, lei con la sua dote di scrittrice, sensibile, ottimista e profonda ? E così nei suoi scritti annotò ogni dettaglio della sua vita di rifugiata ad Amsterdam con la famiglia ( nella foto la casa – museo dove è custodito il manoscritto originale ) e dal 42 vita di clandestinità per sfuggire alle persecuzioni naziste. Scoperti nel 44 e arrestati nei campi di sterminio, questa storia di dolore e deportazione si concluderà per Anna con la sua morte avvenuta per tifo nel 45 nel campo di Bergen – Belsen. A lei oggi il nostro ricordo, il nostro affetto ed una rosa rossa sulle tante pagine bianche di un diario di vita mai scritto!

Patrizia Foresto

Gina Lombroso: quando le donne fanno scienza

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Torino e le sue donne

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce. 

Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Emmeline Pankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan. Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.  (ac)

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2. Gina Lombroso: quando le donne fanno scienza

Nell’articolo precedente ho voluto ripercorrere, per sommi capi, la storia delle “Venusiane”, (se vogliamo seguire la leggenda secondo cui le donne vengono dal pianeta “Venere” e gli uomini da “Marte”), e sottolineare le numerose battaglie e inauditi sforzi che esse hanno coraggiosamente affrontato in passato e che continuano a fronteggiare a testa alta nell’eterna sfida della vita quotidiana. Moltissime sono state le protagoniste femminili che hanno dato il loro contributo rivoluzionario per modificare il mondo negli ambiti più svariati, dalla politica alla cultura, dalla letteratura alla scienza.  Anche Torino ha avuto le sue paladine coraggiose, le quali hanno lasciato una forte impronta nel tempo, si pensi, ad esempio, a quanto hanno contribuito le Madame Reali per lo sviluppo delle arti e la magnificenza della città, promuovendo costruzioni di chiese, palazzi e residenze. In tempi più recenti le donne torinesi si sono messe in luce anche per il loro intelletto, infatti proprio di Torino era Maria Fernè Veledda, seconda donna laureata del Regno d’Italia in Medicina, nel 1878, e, sempre torinese, è stata la brillante Rita Levi Montalcini, nota per le scoperte nel campo delle neuroscienze, ma che ci ha lasciato anche pensieri profondi e illuminanti sulla condizione femminile, su cui, forse, dovremmo soffermarci a meditare ogni tanto. Un’ultima considerazione in chiave poetico-esoterica sulla nostra città, da sempre divisa in due, in cui alla sfera maschile rappresentata dal Po, ha sempre fatto da contraltare una lunare sfera femminile, silenziosa ma non meno importante, rappresentata dalla Dora. Non a caso a Torino è una delle poche città in cui sorge una chiesa specificatamente dedicata alla Grande Madre: ognuno ne tragga le proprie conclusioni. Le vicende sono molte e bisogna pur scegliere e da qualche parte iniziare. Con piacere mi accingo a raccontare la storia di alcune donne torinesi, con l’intento che le loro vicende possano ispirare la nascita di altre storie. 
Gina Lombroso nasce a Pavia nel 1872 da Nina De Benedetti e Cesare Lombroso. La famiglia appartiene ad una alta e colta borghesia legata alle tradizioni ebraiche, in cui è centrale la figura del padre, Cesare, celebre antropologo, sociologo e filosofo, padre della moderna Criminologia. Già da adolescente Gina partecipa al lavoro scientifico del padre in veste di segretaria e collaboratrice, seguendo la corrispondenza e affiancandolo nel lavoro redazionale della celebre rivista l’“Archivio di psichiatria”, fondata nel 1880. Fondamentale per la crescita di Gina è la figura di Anna Kuliscioff, ospite frequente del salotto di casa Lombroso. E’ grazie all’influenza di Anna che Gina si avvicina agli ideali socialisti, che si concretizzeranno poi in alcuni studi svolti insieme alla sorella Paola, su temi quali la condizione di vita degli operai, il problema dell’analfabetismo e gli scioperi. Sempre nello stesso periodo Gina collabora alle riviste “Critica sociale” e “Il socialismo”. Nel 1895 Gina si laurea in Lettere presso l’Università di Torino e, successivamente, si iscrive alla Facoltà di Medicina. Pubblica poi alcuni saggi, tra i quali “L’atavismo nel delitto” e “L’origine della specie”. Nel 1901 conclude gli studi di medicina a pieni voti discutendo una tesi intitolata “I vantaggi della degenerazione” davanti ad una commissione che includeva l’igienista Luigi Paliani e il Fisiologo Angelo Mosso. L’argomento della tesi si dimostra estremamente rilevante per il dibattito scientifico dell’epoca, tant’è che verrà approfondito in un volume dallo stesso titolo pubblicato nel 1904. La giovane Lombroso affronta il tema della degenerazione in modo nuovo, avvicinandosi all’ottica biologica con una prospettiva sociologica. I caratteri della degenerazione vengono letti non tanto come un progressivo deterioramento dell’umanità, quanto come la capacità di adattamento dell’uomo alla conseguenze dell’industrializzazione, con particolare attenzione alla relazione uomo-ambiente.

 

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Dopo la laurea prosegue la sua attività di ricerca con il ruolo di assistente volontaria nella clinica psichiatrica dell’Università di Torino, tale incarico verrà portato avanti fino a i primi anni del matrimonio avvenuto nel 1901 con Guglielmo Ferrero, collega di Cesare Lombroso, con cui egli aveva collaborato per scrivere nel 1893 la monografia “La donna delinquente, la prostituta, la donna normale”. Sempre in questo periodo Gina svolge studi clinici sulla pazzia morale, sull’epilessia e sulla criminalità, non tralasciando mai l’intensa collaborazione con la rivista del padre. Nel 1907 segue il marito in un viaggio in sud America, visitando carceri, scuole e manicomi. Le sue riflessioni su tale esperienza verranno stampate l’anno successivo in un volume intitolato “Nell’America meridionale (Brasile Uruguay Argentina)”. Gina, per non farsi mancare nulla, è anche studiosa di lingue straniere, e, grazie a tale competenza, rimane a stretto contatto con l’ambiente scientifico internazionale oltre che italiano. Alla morte del padre, nel 1909, Gina si dedica con affetto alla risistemazione e ripubblicazione delle opere paterne, nell’intento di mantenerne vivo il pensiero nella comunità accademica. Nel 1916 lascia Torino e si trasferisce con la famiglia a Firenze, qui la sua casa diviene sede di incontri e scambi con l’ambiente intellettuale cittadino. Tra i frequentatori più assidui i Salvemini e i Rosselli. In questi anni la Lombroso si dedica allo studio della condizione femminile, teorizzando l’“alterocentrismo” della donna, cioè un innato altruismo fondato biologicamente e legato alla “missione” della maternità. Nei numerosi scritti su tale argomento, Gina intende negare la convinzione imperante dell’inferiorità femminile, in nome di una forte differenziazione dei sessi, che dovevano essere concepiti non in un rapporto gerarchico ma in uno di “complementarietà”. Nel 1917 pubblica l’“Anima della donna”, testo che vede diverse traduzioni e ristampe in Italia e all’estero; nello stesso anno fonda con Amalia Rosselli e Olga Monsani la “Associazione divulgatrice donne italiane”(ADDI) con lo scopo “indurre la donna italiana a prendere parte allo sviluppo scientifico, sociale, politico, filosofico del paese”. A seguito delle persecuzioni politiche da parte del Regime, nel 1930 Gina e il marito Guglielmo sono obbligati a trasferirsi a Ginevra, rimanendo però in contatto con l’ambiente antifascista. Durante l’esilio, Gina approfondisce la problematica del rapporto uomo-macchina, affrontando gli sviluppi della nuova epoca industriale in una prospettiva sociologica. In “Le tragedie del progresso” e “Le retour à la prosperité”, di fronte alle profonde trasformazioni introdotte dalla industrializzazione, viene messa in discussione la fiducia positivista in un progresso indefinito. 
La storia di Gina non ha un lieto fine, l’amore per la scienza che dalla giovinezza l’accompagna non riesce a salvarla né a riportarla a casa. Gli anni dell’esilio vedono la morte del figlio Leo Ferrero, giovane poeta e intellettuale. Gina Lombroso morirà nel 1944 due anni dopo il marito, assistita dalla sorella Paola che l’aveva raggiunta nella città Svizzera. L’ignoranza violenta della guerra ogni tanto vince e l’oscurantismo allarga di un po’ la sua ombra, ma non dobbiamo dimenticarci che “senza cultura e la relativa libertà che ne deriva, la società, anche se fosse perfetta, sarebbe una giungla.” (Albert Camus). Gina ha contribuito a estirpare le erbacce, anche da lontano.

 

Alessia Cagnotto

Torino, 1872: quando la statua di Balbo traslocò

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / I lavori per il ricongiungimento della città storica con il Borgo Nuovo, stravolsero completamente l’area implicando la demolizione dello spalto al quale si appoggiava il giardino. Durante questa fase il monumento a Cesare Balbo subì uno spostamento provvisorio, per poi essere riposizionato, nei primi mesi del 1874, nella nuova Aiuola Balbo

Cari amici lettori e lettrici, eccoci nuovamente pronti per un’altra piacevole (si spera) ed interessante passeggiata per le vie della città alla scoperta delle sue affascinanti opere. Questa settimana vorrei parlarvi di un noto personaggio storico nato nel capoluogo piemontese e divenuto un personaggio di rilevante importanza per la città di Torino; sto parlando di Cesare Balbo e del monumento a lui dedicato. (Essepiesse)

La statua è situata in via Accademia Albertina sull’asse centrale dell’Aiuola Balbo, ai margini della vasca d’acqua centrale. Cesare Balbo è ritratto in posizione seduta, vestito in abiti borghesi con un ampio mantello sulle spalle; con la mano destra stringe gli occhiali, mentre sul ginocchio sinistro tiene aperto con la mano il libro “Le speranze d’Italia”, libro da lui scritto, pubblicato nel 1844 a Parigi e dedicato all’ideale politico dell’unificazione italiana.

 

Cesare Balbo nacque a Torino il 21 novembre del 1789 da Prospero Balbo già sindaco di Torino e ambasciatore di Parigi ed Enrichetta Taparelli D’Azeglio, fu un uomo politico, scrittore e Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna. Cesare Balbo maturò culturalmente in varie città europee a causa della continua peregrinazione che il padre dovette subire nei difficili anni del regno di Vittorio Amedeo III di Savoia; fu così che venne a contatto con le nuove teorie illuministiche che, in quegli anni, stavano prendendo sempre più piede nei maggiori centri culturali europei.

Fu propugnatore dell’indipendenza d’Italia dal dominio austriaco ed uno dei più importanti esponenti della cultura liberale piemontese. Nel 1848, dopo la concessione dello Statuto Albertino, divenne presidente del primo Ministero costituzionale piemontese e fu deputato del Parlamento Subalpino fino alla sua scomparsa. Immediatamente dopo la sua morte, avvenuta a Torino il 3 giugno 1853, alcuni cittadini torinesi decisero di erigergli una statua alla memoria. Venne istituito il “Comitato per l’erezione di un monumento a Cesare Balbo” presieduto da Cesare Alfieri di Sostegno e del quale facevano parte Giuseppe Arconati, Ottavio di Revel, Federico Scoplis e Luigi Torelli.

Apertasi una pubblica sottoscrizione, in pochi mesi la cifra raggiunta superò le 10.000 lire delle quali circa la metà fu costituita da oblazioni private, mentre la restante parte venne donata da enti pubblici. Per ciò che riguardava invece il concorso del Municipio di Torino, si fu inizialmente orientati su due ipotesi diverse: rendere disponibile un’area all’interno del Camposanto generale oppure, nel caso il Comitato avesse voluto erigerlo in sito pubblico, concorrere economicamente alla sua realizzazione. Essendo scelta la seconda opzione, il Municipio decise di stanziare la somma di 3.000 lire, alla quale si aggiunsero i contributi dei Municipi di Pinerolo, Susa e della Provincia di Torino (1.000 lire), raggiungendo così la cifra di 10.554 lire.

Della realizzazione dell’opera venne incaricato Vincenzo Vela (lo stesso autore dell’opera già vista da noi “Alfiere dell’ Esercito Sardo”), da pochi mesi professore di scultura dell’Accademia Albertina di Torino. Vela scelse di rappresentare Cesare Balbo in una posa “naturale”, in un atteggiamento anche posturale, che ricordasse la sua vita, il suo lavoro ed anche il suo impegno di letterato e di scrittore. Per la realizzazione del monumento vennero versate a Vela circa £ 10.000, mentre le rimanenti 554 lire furono spese per la realizzazione di una cancellata di protezione.

Nei primi mesi del 1856, Cesare Alfieri propose al Sindaco Notta di posizionare l’opera nel Giardino dei Ripari, tra il nascente Borgo Nuovo e la città storica; il 5 giugno 1856 il Consiglio Comunale, venendo incontro a questa richiesta, diede il suo consenso alla collocazione della statua in cima al declivio che dalla via della Madonna degli Angeli conduce al Giardino. Il monumento a Cesare Balbo venne inaugurato l’8 luglio del 1856 ed in questa occasione venne donato al Municipio che lo accettò ufficialmente nella seduta del Consiglio Comunale del 15 novembre 1856.

In seguito però, nel 1872 delle nuove politiche condussero alla riconfigurazione dell’area occupata dal Giardino dei Ripari; i pesanti lavori per il ricongiungimento della città storica con il Borgo Nuovo, stravolsero completamente l’area implicando la demolizione dello spalto al quale si appoggiava il giardino. Durante questa fase il monumento a Cesare Balbo subì uno spostamento provvisorio, per poi essere riposizionato, nei primi mesi del 1874, nella nuova Aiuola Balbo dove ancora oggi si può ammirare. Purtroppo, durante la seconda guerra mondiale l’opera venne danneggiata durante i bombardamenti.

 

Visto che abbiamo accennato alla realizzazione della “nuova” Aiuola Balbo, ricordiamo che essa è un giardino d’origine tardo ottocentesca; è caratterizzata dall’essere realizzata su terrapieno e quindi delimitata da un perimetro murario che la isola, sollevandola, dalle strade che la circondano. Di forma rettangolare, ha come fulcro una importante fontana centrale ed è piantumata con alberi disposti in modo naturale lungo tutto il perimetro.

Il disegno definitivo dell’Aiuola Balbo venne realizzato nel 1873 dall’ingegnere capo Pecco, che progettò un giardino totalmente verde, sollevato di circa un metro e mezzo al di sopra del piano stradale. I monumenti a Cesare Balbo, Eusebio Bava e Daniele Manin vennero ricollocati in modo simmetrico e armonico nell’Aiuola Balbo, nel centro del giardino sul suo asse longitudinale; l’ inserimento dell’ importante fontana centrale vennedeciso solo più tardi, nel febbraio 1874. L’Aiuola Balbo, inaugurata il 19 settembre 1874, oggi ospita complessivamente sei monumenti che la caratterizzano come un giardino dedicato ai patrioti attivi nei moti per l’indipendenza degli stati europei.

Simona Pili Stella

Foto  G i a n n i  C a n e d d u

La Farina, il siciliano sabaudo

Alla scoperta dei monumenti di Torino Una nota curiosa per quanto riguarda il monumento è la presenza, sul lato posteriore della balaustra, di un pannello decorato con il simbolo della Trinacria

Collocata all’interno di piazza Solferino, quasi all’altezza dell’intersezione con via Lascaris, la figura di La Farina è ritratta in piedi, appoggiata ad una balaustra. Le gambe sono leggermente sovrapposte in posizione rilassata ed indossa un cappotto chiuso dove sulla spalla sinistra, si dispiega un mantello che ricade sull’elemento architettonico. La Farina viene rappresentato mentre sta lavorando ad uno scritto: nella mano sinistra sorregge dei fogli che corregge con una penna stretta nella mano destra appoggiata anch’essa alla balaustra,mentre alle sue spalle un libro ferma alcuni fogli già letti. La balaustra presenta posteriormente un pannello decorato con il simbolo della Trinacria inquadrato tra due colonnine dal disegno complesso.

 

Nato a Messina il 20 luglio del 1815, Giuseppe La Farina fu un patriota, scrittore e politico italiano. Avvocato dalle idee liberali, sviluppò un interesse crescente per gli studi storici e letterari che lo portarono a pubblicare, lungo tutta la sua vita, numerosissimi scritti (tra i quali la Storia d’Italia dal 1815 al 1850) e a collaborare con giornali e riviste (è stato fondatore e collaboratore del giornale L’Alba che fu tra i primi a tendenza democratica-cristiana).

Nel 1837 cominciò a sostenere la causa per la liberazione della Sicilia, partecipando al primo movimento insurrezionale anti-borbonico. Dopo un periodo di esilio dall’isola, nel 1848 venne eletto deputato alla camera dei Comuni di Messina assumendo, in seguito, la carica di Ministro della Pubblica Istruzione; fece anche parte (assieme ad Emerico Amari) della missione incaricata di offrire la corona di Sicilia al Duca di Genova.

A seguito della riconquista borbonica della Sicilia, l’anno successivo si rifugiò in Francia da dove continuò la sua attività letteraria. Nel 1854 si stabilì a Torino e poco dopo fondò la “Rivista Enciclopedica Italiana”, il giornale politico “Piccolo Corriere d’Italia” e nel 1857 la Società Nazionale Italiana, un’associazione politica finalizzata a realizzare l’unità del Paese sotto la guida della Casa Savoia. La Società Nazionale Italiana aveva come presidente Daniele Manin e come vice presidente Giuseppe Garibaldi.

Dal 1856 venne chiamato a collaborare con Cavour che, nel 1860, gli affidò il delicato incarico di rappresentare in Sicilia il governo; dopo essere rientrato a Torino nel 1861, venne eletto al Parlamento italiano e nominato vice presidente della Camera dei Deputati. Muore a Torino il 5 settembre 1863. Subito dopo la sua scomparsa un comitato, composto da alcuni uomini politici, iniziò a sostenere l’erezione di un monumento alla sua memoria ma la proposta venne sospesa a causa dei lavori collegati al trasferimento della capitale da Torino a Firenze.

Nel novembre del 1866, grazie a Filippo Cordova (a quel tempo ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio), l’idea venne ripresa e fu aperta una pubblica sottoscrizione a livello nazionale; nel dicembre 1868 il Comitato promotore per l’erezione del monumento a Giuseppe La Farina, incaricòGiovanni Duprè, autorevole scultore toscano, della realizzazione dell’opera. Tuttavia fu solo dopo dieci anni e cioè nel 1878, che il progetto cominciò a prendere vita; Giovanni Duprè venne sostituito dallo scultore e scrittore palermitano Michele Auteri Pomar, che con le 24.000 lire raccolte, creò un monumento di una certa rilevanza.

Il monumento venne collocato nell’aiuola a mezzogiorno di piazza Solferino e fu inaugurato il 1 giugno del 1884, esattamente sedici anni dopo l’approvazione del progetto; il giorno precedente l’inaugurazione, i rappresentanti del Comitato promotore lo donarono con atto ufficiale alla Città di Torino.  Nel febbraio 1890, a seguito del progressivo distacco delle lettere bronzee che compongono l’epigrafe, il testo dell’iscrizione venne inciso sul fronte del basamento.

Una nota curiosa per quanto riguarda il monumento è (come già ricordato prima) la presenza, sul lato posteriore della balaustra, di un pannello decorato con il simbolo della Trinacria. Questo antico simbolo (Triscele per i greci e Triquetra per i romani), raffigura una testa gorgonica, con due ali, dalla quale si dispongono in giro simmetrico tre gambe umane piegate. La sua presenza sul monumento ricorda non solo le origini siciliane del personaggio, ma anche l’impegno da lui profuso nella lotta per l’indipendenza della Sicilia, durante la quale il bianco vessillo gigliato dei Borboni fu sostituito dal tricolore che recava al centro il simbolo triscelico.

 

Avendo già accennato la storia riguardante Piazza Solferino, grazie alle precedenti opere di cui abbiamo parlato, aggiungerò semplicemente che il monumento commemorativo a Giuseppe La Farina, dopo essere stato inaugurato nel 1884 all’interno dell’aiuola centrale meridionale, vi rimase fino al 2004, anno in cui la statua fu spostata per permettere alla piazza di ospitare i padiglioni Atrium per i Giochi Olimpici Invernali 2006. Il monumento fu provvisoriamente ricoverato all’interno di un deposito comunale per poi essere ricollocato, all’interno della piazza, il 16 giugno 2013. Oggi il monumento si erge in tutto il suo splendore all’interno di piazza Solferino.

 

Anche per oggi il nostro viaggio in compagnia delle opere di Torino termina qui. L’appuntamento è sempre per la prossima settimana per la nostra (mi auguro) piacevole passeggiata “con il naso all’insù”tra le bellezze della città.

 

 

Simona Pili Stella

“Bianco al Femminile”. In mostra sei secoli di autentici capolavori tessili

Appartenenti alle Collezioni di “Palazzo Madama”

Fino al 2 febbraio 2026

Occasione contingente, il riallestimento della “Sala Tessuti”. Da questa pratica incombenza, nasce una mostra di notevole valore culturale, storico e didattico che racconta, attraverso sei secoli di altissima arte tessile una storia che passa per ricami minuti e intricati e preziosi merletti, arrivando al più iconico degli abiti femminili di colore bianco, il colore naturale della seta e del lino: l’abito da sposa. Si presenta così la mostra dal titolo (non per nulla) di “Bianco al Femminile” curata da Paola Ruffino e allestita nella “Sala Tessuti” di “Palazzo Madama” fino a lunedì 2 febbraio 2026. In rassegna, trovano adeguato spazio cinquanta manufatti tessili, appartenenti alle Collezioni del Palazzo che fu “Casa dei secoli” per Guido Gozzano, di cui sei restaurati per questa precisa occasione e quattordici esposti per la prima volta: autentici capolavori nati dal sorprendente lavoro (più che artigianale) passato, per tradizioni secolari, attraverso “mani femminili” che hanno operato con minuta diligenza sul “ricamo in lino medievale”, così come sulla lavorazione dei “merletti ad ago” o “a fuselli” o ancora sul “ricamo in bianco su bianco”. Donne artigiane, donne artiste, donne “autrici, creatrici, nonché raffinate fruitrici e committenti di tessuti e accessori di moda”. Comune fil rouge, per tutte, il colore bianco, colore “in stretta connessione, materiale e simbolica, proprio con la donna”. E che trova il suo massimo apice in Francia e in Europa, sul finire del XVIII secolo, complice il fascino esercitato dalla statuaria greca e romana su una moda che guarda, affascinata non poco, all’antico. “Le giovani – si legge in nota – adottano semplici abiti ‘en-chemise’, trattenuti in vita da una fusciacca; il modello del ‘cingulum’ delle donne romane sposate, portato alto sotto al seno, dà avvio ad una moda che durerà per trent’anni. I tessuti preferiti sono mussole di cotone, garze di seta, rasi leggeri, bianchi o a disegni minuti, come le porcellane dei servizi da tè”.

Dal XIV – XV secolo fino al Novecento (dietro l’angolo) l’iter espositivo prende avvio dai primi “ricami dei monasteri femminili”, in particolare di area tedesca e della regione del lago di Costanza (lavorati su tela di lino naturale e poi diffusisi, per la povertà dei materiali e per la facilità di esecuzione, anche in ambito domestico – laico, per la decorazione di tovaglie e cuscini) per poi passare a documentare la lavorazione del “merletto” nell’Europa del XVI e XVII secolo che vide protagonisti i lini bianchissimi e la straordinaria abilità delle “merlettaie veneziane e fiamminghe”. In rassegna una scelta di bordi e accessori in pizzo italiani e belgi illustra gli eccezionali risultati decorativi di quest’arte “esclusivamente femminile”, che nel Settecento superò gli stretti confini della casa o del convento e si organizzò in “manifatture”. E proprio l’inizio della “produzione meccanizzata” causò, nel XIX secolo, la perdita di quell’insostituibile virtuosismo nell’arte manuale del “merletto”, che riemerse invece nel ricamo in filo bianco sulle sottili “tele batista” (in trama fatta con filati di titolo sottile) e sulle “mussole” dei “fazzoletti femminili”. Quattro splendidi esemplari illustrano l’alta raffinatezza raggiunta da questi accessori, decorati con un lavoro a ricamo che restò sempre un’attività soltanto al femminile, anche quando esercitata a livello professionale.

L’esposizione si conclude nel XX secolo con uno dei temi che più vedono uniti la donna e il colore bianco nella nostra tradizione, l’ “abito da sposa”, con un abito del 1970, corto, accompagnato non dal velo ma da una avveniristica cagoule (cappuccio), scelta non scontata “che ribadisce la forza e la persistenza del rapporto tra l’immagine della donna e il candore del bianco”.

La selezione di tessuti è accostata nell’allestimento a diverse “opere di arte applicata”, fra cui miniature, incisioni, porcellane e legature provenienti dalle Collezioni del “Museo”. 

In occasione del nuovo allestimento delle Collezioni Tessili, “Palazzo Madama” propone, inoltre, un laboratorio di cucitura in forma meditativa” a cura di Rita Hokai Piana nelle giornate di sabato 15 e 22 marzo, 5 12 aprile,  dalle ore 10 alle ore 13. Tutte le info su: www.palazzomadamatorino.it

Gianni Milani

“Bianco al Femminile”

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it

Fino al 2 febbraio 2026

Orari: lun. e da merc. a dom. 10/18; mart. chiuso

 

Nelle foto: “Sala Tessuti” (Ph. Studio Gonella); Caracò, Italia 1750-60; Corpetto, Germania sud-occidentale, 1750-75

Museo Nazionale della Montagna: “Guido Rey. Un amateur tra alpinismo, fotografia e letteratura”

Un’importante mostra dedicata all’eclettica figura del grande alpinista, pronipote di Quintino Sella

Fino al 19 ottobre

“Io credetti, e credo, la lotta coll’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede … La Montagna è fatta per tutti, non solo per gli Alpinisti: per coloro che desiderano il riposo nella quiete come per coloro che cercano nella fatica un riposo ancora più forte”. C’è in queste parole tutta l’essenza e la complessità dell’uomo, grande appassionato di montagna e alpinismo, e, al contempo, profondo narratore e, pur anche (quale fu) attento illustratore per parole ed immagini di quell’universo roccioso che seppe tenerlo a sé legato per l’intera vita. Sono parole tratte dall’introduzione di “Alpinismo acrobatico” (1914), fra le varie opere dedicate alla montagna e scritte fra i primi del ‘900 e la metà degli anni ’30, da Guido Rey (Torino, 1861 – 1935) “figura chiave al crocevia tra alpinismo, fotografia e letteratura” della cultura piemontese e del panorama nazionale ed internazionale a cavallo di Otto e Novecento. Pronipote di Quintino Sella, ministro del Regno e fondatore nel 1863 del “Club Alpino Italiano” (in cui anche Guido tenne sempre un ruolo di primissimo piano) a lui il “Museomontagna” di Torino dedica, fino a domenica 19 ottobre, una nuova retrospettiva, dopo la monografica già proposta nel 1986. Il progetto, curato da Veronica Lisino e Mattia Gargano, nasce dal riordino del complesso dei “Fondi Guido Rey”, conservato dal “Centro Documentazione” del “Museo” di Piazzale Monte dei Cappuccini e catalogato nel 2024.

Curioso l’aggettivo amateur parte del titolo. Si tratta di un termine, spiegano i curatori, “che – privo dell’odierna accezione negativa ‒ indicava chi, tra XIX e XX secolo, si dedicava a un’attività per puro passatempo. L’essere ‘dilettante’ consentì a Rey di esprimersi in maniera più libera e disinvolta, tra scrittura, disegno e fotografia. Ciascuno di questi linguaggi diventa un filtro che gli permette di prendere le distanze da una realtà per lui limitata e di proiettarsi così in un ‘mondo altro’”. In un mondo ideale che accanto “all’intimità delle scene famigliari”, fu soprattutto per Guido rifugio inviolabile dove toccare vedere e ascoltare i luoghi amatissimi delle sue “terre alte”, in particolare di “quella montagna” a pronunciata forma piramidale che, per mano allo zio Quintino, Guido imparò a conoscere fin dal 1874, all’età di soli 13 anni. Era un bimbo e quello fu il suo primo grande grandissimo amore: quei 4.478 metri del “Cervino” (settima vetta e terza montagna italiana per altitudine), cui più tardi (1904) dedicò anche un libro “Il Monte Cervino”, con splendide vedute disegnate dall’amico – scultore Edoardo Rubino e l’introduzione di Edmondo De Amicis, al quale insieme al figlio Ugo, lo legò una profonda e sincera amicizia. Sul Cervino, Rey ebbe modo di salire più di cinque volte, attraverso imprese (anche letterarie e fotografiche) che ne fecero l’alpinista italiano più amato e tradotto prima di Walter Bonatti.

Al centro dell’iter espositivo, uno spazio dedicato alle sue vicende biografiche. Attorno si sviluppano quattro sezioni tematiche: Letteratura alpinistica, Fotografia di montagna, Fotografia tra montagna e pittorialismo, Fotografia pittorialista, quella attraverso cui Rey amava ricreare quadri famosi con effetti di “tableaux vivants”. Si tratta di aree da vedersi come ambienti in continua connessione tra loro che consentono al visitatore di muoversi liberamente, senza obblighi di percorso, tra le imprese alpinistiche, la cultura fotografica e gli interessi letterari, accompagnati dagli “occhi pieni di visioni” e dall’“animo ricco di ardimenti” di Guido Rey.

Sottolineano ancora i curatori: “La mostra ha l’obiettivo di riconsiderare la sua figura, confinata in passato entro schemi fin troppo rigidi e che invece merita di essere rivalutata nella molteplicità delle sue manifestazioni. Riprendendo le parole del suo amico e compagno di cordata Ugo De Amicis, è un pregiudizio pensare che l’acuta sensibilità artistica sia incompatibile con quella dell’uomo d’azione, poiché quel dualismo interiore ed esteriore, cioè del sentire e dell’agire, significa integrazione e ricchezza, invece che contraddizione e debolezza. Questa visione si riflette nella varietà dei materiali in mostra, che spaziano dalle fotografie e dagli apparecchi fotografici a schizzi, disegni, volumi, riviste, diari e lettere, fino all’attrezzatura alpinistica, offrendo un ritratto sfaccettato del suo universo creativo ”.

Gianni Milani

“Guido Rey. Un amateur tra alpinismo, fotografia e letteratura”

“Museo Nazionale della Montagna”, Piazzale Monte dei Cappuccini 7, Torino; tel. 011/6604104 o www.museomontagna.org

Fino a domenica 19 ottobre

Orari: mart. – ven. 10,30/18; sab. e dom. 10/18

Nelle foto: Ugo De Amicis “Guido Rey guardando il Cervino”, stampa alla gelatina bromuro d’argento, post 1910 e (tableau vivant) da Caspar David Friedrich “Il viandante sul mare di nebbia”, olio su tela, 1817, “Amburgher Kunsthalle”, credit WikimediaCommons; Guido Rey “Grandes Jorasses”, stampa alla celloidina, 1905 ca.; Guido Rey “L’Hotel del Giomein e il Cervino”, stampa alla gelatina bromuro d’argento, 1899 ca.

A Cuneo “Red Carpet” per le gloriose “auto d’epoca”

Auto quasi centenarie alla rievocazione della “Cuneo – Colle della Maddalena”. Madrina, Stefania Belmondo

Sabato 7 e domenica 8 giugno

Cuneo

Mancano pochi giorni e nel capoluogo della “Granda” fervono a tutto spiano i preparativi per la rievocazione storica della leggendaria corsa automobilistica “Cuneo – Colle della Maddalena ”, a 100 anni dalla sua prima edizione del 9 agosto 1925, anni davvero pionieristici per il mondo dell’automobile. L’evento, organizzato dall’“Automobile Club Cuneo”, avrà inizio sabato 7 giugnoalle 9, con l’esposizione in piazza Galimberti delle “auto d’epoca” partecipanti, fra le quali alcuni “modelli Lancia” del 1926 e del 1928, accanto ad un’ “Alfa Romeo” del 1928.

Il giorno dopo, domenica 8 giugnole stesse attraverseranno la Valle Stura per salire fino in cima al Colle della Maddalena. Sono già oltre cinquanta le vetture iscritte: tra queste alcuni modelli ormai centenari di Lancia e Alfa Romeo , identiche a quelle che presero parte alle prime edizioni della corsa. A tenere a battesimo la manifestazione sarà Stefania Belmondo , ex fondista (l’italiana vincente più di sempre nel circuito mondiale), pluridecorata campionessa olimpionica, nativa proprio della Valle Stura e scelta come madrina dal “Comitato Organizzatore”.

Le iscrizioni alla rievocazione sono ancora aperte: possono partecipare le auto d’epoca “Storiche” ovvero immatricolate fino al 1961, e le auto d’epoca “Classiche” immatricolate dal 1962 al 1977. Chi fosse in possesso di vetture di quegli anni può contattare l’“Automobile Club Cuneo” al numero 0171/440031 o scrivere all’indirizzo e-mail eventi@acicuneo.it.

moduli di iscrizione sono scaricabili dal sito internet www.cuneo.aci.it

Le vetture costruite entro il 31 dicembre 1961 parteciperanno anche al “Concorso d’eleganza”, la cui premiazione è prevista per la sera del sabato insieme alla “cena di gala”.

Domenica 8 giugno ci sarà la rievocazione su strada: le auto ripercorreranno la Valle Stura fino al Colle della Maddalena con successivo rientro a Vinadio in località Goletta per il pranzo dove si concluderà la manifestazione. Lungo il percorso saranno predisposte alcune “prove di precisione” per chi vorrà provare a cimentarsi ed avvicinarsi alla “Regolarità”.

Sottolinea il presidente dell’“Automobile Club Cuneo”, Francesco Revelli“Ci prepariamo ad accogliere a Cuneo, per questo importantissimo centenario, numerose auto d’epoca che hanno scritto la storia del motorismo italiano del secolo scorso. Tra queste, vetture di marchi storici come ‘Lancia’ e ‘Alfa Romeo’, che hanno contribuito a rendere questa corsa un vero e proprio patrimonio di memoria e passione. Non mancherà ovviamente la ‘Fiat’, così come vetture ‘Renault’, ‘Porsche’, ‘Lambda’, ‘Innocenti” e tante altre ancora. Questo evento, infatti, non solo vuole celebrare la storia e la tradizione dell’automobilismo, ma rappresenta anche un’occasione unica per appassionati e pubblico di rivivere un passato ricco di emozioni e di innovazione tecnica. Invitiamo perciò tutti gli appassionati a partecipare per contribuire a mantenere vivo il patrimonio delle auto storiche italiane”.

Un patrimonio di altissimo livello tecnico e stilistico. A dimostrarlo, alcune delle auto già iscritte fra cui spiccano una “Lancia Lambda VI Serie” del 1926 e un’altra del 1928, comparsa nel film “La sposa bella” del 1960 con l’attrice americana Ava Gardner; da casa “Fiat” arriveranno una “508 SS Coppa Oro” del 1933 e una “1100 Sport” del 1950 che prese parte alle “Mille Miglia” del 1951; altre “meraviglie”, una “Porsche 356 A TI coupè GT” immatricolata per la prima volta a Parigi nel 1956 da un capitano dell’esercito americano, un’“Alfa Romeo 6C 1750 Gran Sport VI Serie – spider carrozzeria Touring” che rappresenta l’ultima versione del modello che portò all’“Alfa Romeo” innumerevoli e straordinari successi internazionali.

Per info dettagliate su programma e iscrizioni: “ACI Cuneo”, piazza Europa 5, Cuneo; tel. 0172/440031 o www.cuneo.aci.it o segreteria@acicuneo.it

g.m.

Nelle foto: Un’auto in partenza da piazza Galimberti in occasione di una delle primissime edizioni della “Cuneo – Colle della Maddalena”; un recente raduno a Cuneo; Francesco Revelli