

Vječna Vatra è la “fiamma eterna” al centro di Sarajevo, all’angolo tra la Maršala Tita e Fehradija, la via pedonale principale del centro storico. Si racconta che quella del memoriale alle vittime della seconda guerra mondiale e ai partigiani è l’unica fiamma che non si è mai spenta, nemmeno durante gli anni dell’assedio. La lapide ricorda la data del 6 aprile 1945, il giorno della liberazione della capitale bosniaca dall’occupazione nazista e della vittoria dell’esercito partigiano di Tito. Rappresenta la memoria visiva di una lotta comune, segnata dall’antifascismo degli slavi del sud. Muovendo dalla Vječna Vatra si risale verso Markale, il mercato. La strada è breve, pochi passi e compare la piazza con i banchi di ferro e di legno del coloratissimo mercato della frutta e della verdura. Come in tutti i mercati c’è un via vai di gente. Donne anziane e ragazze si aggirano con le loro sporte tra cassette colme di patate, cetrioli e zucchine, peperoni rossi e verdi, sedano, mele e pere, gialli limoni e lunghe carote di un’arancio sfolgorante, melanzane dai riflessi violacei, cipolle e lunghe trecce d’aglio. Per non parlare dei funghi e delle varietà di frutta secca. Si rimane storditi dall’effluvio di profumi e dall’esplosione dei colori.
Il vociare fitto è la colonna sonora di questo luogo d’incontro dove si chiacchiera, si ascoltano gli inviti dei venditori a comprare i loro prodotti, le domande curiose di chi, prima di scegliere, vuol sapere, soppesare, valutare la convenienza tra la merce e il prezzo. Nei mercati c’è vita e questo, tra i più antichi di Sarajevo, non fa eccezione. Non si dovrebbe far molta fatica ad immaginare cosa poteva essere questo luogo d’incontro durante l’assedio, con le poche cose offerte a prezzi da mercato nero, pagate a prezzo d’oro o scambiate per sigarette o medicinali. Negli occhi dei più anziani si nota ancora quel velo di tristezza e di dolore accumulati durante gli anni degli stenti e della guerra. In fondo al mercato, lungo la parete, una lunga lapide rossiccia ricorda i caduti delle stragi di Markale. Il plurale è d’obbligo, poiché per due volte le granate serbe massacrarono i civili in questo mercato, nel cuore antico della città. La prima volta, il 5 febbraio del 1994: 67 morti e 142 feriti. La seconda, il 28 agosto 1995, quando l’ultimo di cinque colpi di mortaio causò la morte di 37 civili e il ferimento di novanta. Adriano Sofri si trovava lì, in quel freddo giorno di febbraio del 1994. Così lo raccontò: “Arrivammo in mezzo alla strage, cominciavano appena a raccattare i corpi e i feriti. C’ era un rumore terribile di pianti, di urla, di richiami concitati, di auto caricate alla rinfusa che sgommavano via. C’ era una gamba artificiale, staccata e diritta sul suolo. C’ erano scarpe, è incredibile come le scarpe si spandano nelle carneficine. C’ erano uomini grandi e grossi che soccorrevano e piangevano a dirotto. Toni Capuozzo si buttò nella falcidie, io non seppi fare niente. Da giorni avevo adottato, e viceversa, una banda di ragazzini che faceva capo a quella piazza del mercato. Avevo appuntamento con loro là, ogni giorno fra le tre e le quattro. Conoscevo ormai quasi una per una le persone del mercato, le vecchie che vendevano calzettoni fatti a mano e bacche selvatiche, il bambino che vendeva a malincuore un gallo, i vecchi che vendevano rubinetti e distintivi e medaglie, le fioraie: ero il più prodigo compratore di fiori della città. Anche quando mancavano il pane e le candele, a Sarajevo le case avevano voglia di fiori; e poi tutti avevano qualche tomba fresca alla quale destinare un fiore. I morti di Markale furono 68, i feriti nessuno li ha contati”. Per conoscere è necessario raccontare qualcosa in più, oltre il sangue, l’odore della morte, il fumo tra le macerie. E’ la storia di una seconda violenza, quella del tentativo di rimuovere, nascondere, negare. Quello del mercato di Sarajevo va annoverato tra i casi più clamorosi. Bisogna tener conto, innanzitutto, che quella guerra fu seguita dai media come mai era accaduto prima e come mai, fino ai giorni nostri e alle guerre aperte, accadde poi. Per diverse ragioni, quella bosniaca fu una guerra che entrò direttamente nelle case di tutti e in tutto il mondo. Le immagini erano in presa diretta, senza filtri. I giornalisti potevano documentarla fino nei minimi particolari sia con i mezzi moderni della tecnologia sia con quelli tradizionali degli inviati che, taccuino alla mano e reflex al collo, rischiavano la loro pelle sulla front line.
Trent’anni fa i giornalisti erano più liberi di fare il proprio lavoro, non erano“embedded” come al giorno d’oggi. “Embedded” è un termine anglofono che, applicato ai giornalisti, equivale a dire che quest’ultimi sono “incastrati” nell’esercito, che si muovono solo con le truppe, con l’impossibilità di informarsi da fonti che non siano quelle dei comandi militari (in uno studio di una università americana, su quasi un migliaio di articoli presi in esame le fonti in “divisa” rappresentavano l’unica voce nel 93% dei casi). Risulta evidente come questo voglia dire che oggi, agli inviati di guerra, è concesso di vedere, sentire, filmare e trasmettere solo quello che conviene alle gerarchie militari che li hanno autorizzati. In Bosnia, invece, la realtà stava lì, sotto gli occhi di tutti. C’erano prove palesi, visibili a occhio nudo, sanguinanti e urlanti. Nessuno poteva dire di non sapere. “In centinaia sono andati in Bosnia Erzegovina come inviati di guerra”, scriveva Azra Nuhefendic, giornalista e scrittrice bosniaca naturalizzata italiana che vive a Trieste dal 1995. “Giravano ovunque pareva loro, guardavano, toccavano, filmavano, registravano, vivevano con gli accerchiati, soccorrevano le vittime, entravano nelle città assediate, brindavano con i criminali, dibattevano con presidenti, ministri, generali, osservavano i bombardamenti dalle posizioni di tiro. A Sarajevo alcuni giornalisti si appostavano nei luoghi dove, solitamente, i cecchini uccidevano i passanti, o dove si faceva la fila per qualcosa. Sapevano che prima o poi potevano filmare la morte in diretta. A volte addirittura veniva offerto “un assaggino”, come è successo al mio collega e amico che lavorava per l’agenzia AP a Belgrado. Mi raccontava che, quando visitava le posizioni dei serbi sopra Sarajevo, gli offrivano grappa e anche, se gli faceva piacere, di “sparare un po’ sulla città”. Nonostante l’enorme mole di testimonianze dei sopravvissuti, un’infinità di libri, le innumerevoli fosse comuni scoperte e aperte, le tonnellate di documenti sui quali si sono basate le sentenze del Tribunale dell’Aja che condannarono all’ergastolo i principali criminali di guerra, c’è ancora chi cerca di negare tutto, di ricostruire le vicende con la menzogna, di distorcere le verità documentate. Un cumulo di menzogne per tentare, in modo maldestro ma insidioso, di ricostruire la storia, modificando i fatti e ribaltando le responsabilità. Per molto tempo è girata la macabra leggenda– di matrice serba e cetnica – secondo cui i bosniaci musulmani “si uccidevano da soli”. Un teorema assurdo che venen spesso utilizzato parlando del massacro al mercato di Markale. Le autorità serbe negarono ogni responsabilità, accusando il governo bosniaco di aver bombardato la propria gente per suscitare lo sdegno internazionale e il possibile intervento della NATO. Nel caso della seconda strage, l’allora presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić ( condannato all’ergastolo insieme al generale Ratko Mladić) affermò che a Markale era “stato tutto una messa in scena e una frode.” Non solo. Inviò una lettera ai presidenti di Russia e Stati Uniti, Eltsin e Clinton, affermando: “Dalle immagini TV si vede chiaramente che i cadaveri sono stati manipolati, e che tra i cadaveri ci sono anche pupazzi di stoffa e plastica.” Un giornalista serbo bosniaco, Risto Džiogo, andò oltre, ricostruendo in modo vergognoso lo scempio del mercato. Nello studio della televisione di Pale, dove lavorava, mise per terra dei pupazzi di plastica e di stoffa sdraiandovisi accanto e fingendo di essere uno dei serbi morti che sarebbero stati utilizzati nella messa in scena a Markale. Già all’indomani delle prime granate venne avviato il martellamento del regime di Slobodan Milošević e dei media serbi contro “il complotto bosniaco”, producendo “spiegazioni” e svelando i “retroscena” del massacro. Ovviamente, autoassolvendosi. Nel marzo del 1995, il ministero dell’Informazione della Repubblica di Serbia produsse un documento intitolato Dossier Markale Market nel quale gli autori spiegavano che la “auto-vittimizzazione” dei musulmani proveniva dalla stessa “mentalità islamica” e che faceva parte dell’assioma per cui “è un onore morire per l’Islam”. Puro razzismo e spregevole menzogna, ovviamente. Ma, a forza di menzogne e di propaganda, s’insinuava il tarlo. Si citarono documenti segreti, si pubblicarono “prove storiche”. Venne chiamato in causa un testimone ( rigorosamente anonimo) , pronto a giurare che “la notte prima del massacro sul mercato sono stati portati i cadaveri, e che la maggior parte dei feriti musulmani proveniva dai campi di battaglia di Mostar e Vitez”. Sempre Azra Nuhefendic ricordò “come a cerchi concentrici queste affermazioni, ripetute varie volte, aumentavano e si diffondevano nel tempo e nello spazio”. Un quotidiano di Belgrado, Kurir, nel 2009, scriveva che i servizi segreti albanesi del Kosovo possedevano una copia del piano dei bosniaci che provava la teoria secondo cui la strage di Markale fu tutta una messa in scena del governo di Sarajevo. Il Presidente della Repubblica Serba di Bosnia, Milorad Dodik, non ha mai nascisto il suo pensiero, ripetendo, di tanto in tanto, che “la strage di Markale è stata una messa in scena, come anche la strage dei giovani a Tuzla”. Persino Radovan Karadžić, nel suo processo davanti al Tribunale dell’Aja, non perse l’occasione per sostenere quello che diceva all’epoca in cui guidava il governo di Pale: “Il massacro al mercato di Markale 2 è stato organizzato dalle forze governative bosniache, e la maggior parte dei corpi ritrovati erano vecchi cadaveri e manichini“. Ma davvero i “bosniaci si sparavano da soli”? Già in quegli anni, in un rapporto sulla seconda strage di Markale, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite concludeva che “tutti e cinque i proiettili erano stati sparati dall’esercito della Republika Srpska”. Davanti al Tribunale dell’Aja venne documentato come, nel caso della prima strage, il colpo di mortaio venne sparato dalle posizioni dell’esercito dei serbi bosniaci. L’ex capo degli affari civili delle Nazioni Unite in Bosnia, David Harland, davanti alla corte internazionale dell’Aja , testimoniò che lui personalmente aveva suggerito all’allora comandante delle Nazioni Unite, Rupert Smith, “di fare una dichiarazione neutra” per non allarmare i serbo bosniaci, che sarebbero stati in questo modo avvisati degli imminenti attacchi aerei della NATO contro le loro posizioni. “Se avessimo puntato il dito contro i serbi, le truppe dell’UNPROFOR, stazionate nel territorio sotto il controllo dell’esercito serbo bosniaco, potevano essere esposte ad attacchi di rappresaglia”, spiegò Harland.
Questa versione venne confermata dal generale Rupert Smith davanti allo stesso tribunale e in un suo libro. Smith sosteneva che già allora (ndr. 1995) aveva una relazione tecnica secondo la quale “al di là di ogni ragionevole dubbio” a sparare erano stati i servi che assediavano Sarajevo. E sui musulmani che si sparavano da soli? Confermando di aver sentito quelle voci, dichiarò che “nessuno mai mi ha dato una prova di ciò”. Ovviamente, verrebbe da dire. Due generali serbi, Dragomir Milošević e Stanislav Galić, vennero processati e condannati, rispettivamente a 33 anni di carcere e all’ergastolo, per l’assedio e il bombardamento di Sarajevo, comprese le stragi di Markale. Eppure c’è ancora chi, trent’anni dopo, si ostina a falsare la verità dei fatti. Ignoranza, indolenza nel voler cercare la verità, menefreghismo, voglia di rimuovere tutto perché tanto i morti sono morti ? Può darsi. Ma chi ha responsabilità pubbliche, chi fomenta il nazionalismo, chi insiste sulle falsità a sei lustri di distanza non lo fa per ignoranza, ma per uno scopo ben preciso. La Nuhefendic, in un articolo, parlando di questi fatti, citava George Orwell: “Il linguaggio politico è progettato per rendere la bugia veritiera, l’omicidio rispettabile, e per dare al vento un aspetto solido”. Il mercato, come tutti i giorni dopo le 17.00, si sta svuotando. I banchi sono tristi, senza la merce. Un vecchio ritira le sue patate in una cassetta e un altro – avranno la stessa età? – rovista tra gli scarti della verdura alla ricerca di qualcosa da buttar in pentola. E’ un’istantanea della città che ha fatto immensi sforzi per tornare alla normalità ma che sente sulle spalle la fatica e la stanchezza del passato.
Marco Travaglini
1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi
L’evento che più di ogni altro segna il XVIII secolo è senz’altro la Rivoluzione Francese.
Il movimento parigino che si batte per i diritti dell’uomo riecheggia in tutta Europa e anche la nostra bella Torino non ne rimane indifferente, e non solo per ciò che riguarda gli alti ideali proposti ma soprattutto per via dell’occupazione militare francese che, nel 1798, porta l’impeto rivoluzionario all’interno delle stesse mura cittadine.
Nello stesso anno Carlo Emanuele IV di Savoia abdica e si ritira con la sua corte in Sardegna, lasciando la cittadinanza ad affrontare un periodo di forti trasformazioni politiche e sociali: Torino è pronta ad un ulteriore mutamento che presto la porterà ad assumere la forma di una moderna città borghese ottocentesca.
Il nuovo governo repubblicano prende il posto della monarchia, abolisce molti privilegi aristocratici e ridimensiona non di poco l’influenza della Chiesa.
Tale situazione tuttavia non ha vita lunga, la parentesi repubblicana termina appena un anno dopo, nel 1799, quando le armate austro-russe invadono il Piemonte, sconfiggono i Francesi e occupano la città.
Sarà necessario attendere l’arrivo di Napoleone, nel giugno 1800, per assistere ad una nuova riorganizzazione politica della penisola italica, assetto che vede il Piemonte riannesso al Primo impero francese e costringe i Torinesi a sottoporsi al Codice napoleonico, accettando di conseguenza di sottostare al sistema giuridico e amministrativo francese.
Torino non è più la città-fortezza dei Savoia, e per sottolineare tale circostanza il generale di origini corse, protagonista indiscusso della prima fase della storia contemporanea, ordina lo smantellamento delle fortificazioni cittadine, rendendo l’urbe una “città aperta”, dall’impianto più similare a quello urbanistico francese, giocato su un’impostazione ad ampio raggio. Il regime governante impone ai costruttori l’edificazione di nuove piazze, strade e ponti, come ad esempio quello realizzato tra il 1810 e il 1813 sul Po, viene poi abolita l’antica divisione in isolati della città a favore di un’amministrazione basata su quattro distretti denominati Po, Dora, Moncenisio e Monviso, corrispondenti alla circolazione dell’andirivieni da e verso il centro abitato.
Ancora una volta, anche il potere ecclesiastico viene colpito duramente, nelle stessa Torino ben ventinove tra monasteri e conventi vengono chiusi, con conseguente confisca delle terre di cui disponevano gli stabilimenti.
La città pedemontana risponde ormai alle nuove procedure in voga nella Francia napoleonica: si introduce il concetto di uguaglianza tra cittadini, si esalta il valore dell’autorità imperiale, del progresso razionale e del servizio pubblico.
La nuova legislatura torinese si basa sul Codice napoleonico, che riconferma l’abolizione dei privilegi della nobiltà, estende i diritti civili, amplia la tolleranza religiosa, specie nei confronti della comunità ebraica presente sul territorio piemontese e – fatto che mi piace rimarcare in questi periodi “così moderni”– considera il matrimonio più come un contratto civile di competenza statale che un sacramento religioso, logica che porta anche alla legalizzazione del divorzio.
Le nuove norme investono anche il campo amministrativo-commerciale. Napoleone ordina l’eliminazione delle corporazioni, cancella i dazi doganali e tutte le difficoltà che possono recare danno alle vendite, inoltre istituisce nuovi organi quali la Camera del commercio, la Borsa e il Tribunale commerciale, tutti enti appositamente pensati per promuovere rapporti di mercato tra i Torinesi e gli imprenditori francesi.
Questa generale spinta modernizzatrice investe le autorità di nuovi poteri, ad esempio il ruolo del sindaco acquisisce un maggior valore, si ampliano le mansioni dell’amministrazione municipale, che ora si occupa anche del mantenimento dell’ordine pubblico, della sanità, dell’assistenza ai bisognosi nonché della gestione degli ospedali.
Altro aspetto determinante del dominio napoleonico riguarda proprio l’ambito della cura alla persona, l’assistenza medica rispecchia ora dei canoni moderni, in più gli stretti contatti tra Torino e Parigi fanno sìche si crei una sorta di infrastruttura amministrativa interna che rende più veloci le mansioni burocratiche, snellendo il carico di lavoro che prima ricadeva su medici e infermieri, che ora possono dedicarsi quasi esclusivamente allo studio delle terapie. Il punto di riferimento per la sanità, nello specifico per le malattie non infettive e curabili, diviene l’ospedale San Giovanni, a cui è riconosciuto lo status di “ospedale nazionale” ed è posto sotto il diretto controllo del ministero degli interni di Parigi; si affiancano a tale struttura specifiche istituzioni con compiti precisi, ognuna appositamente dedicata ad una categoria di persone con criticità, quali orfani, poveri o donne che dovevano affrontare gravidanze indesiderate.
L’estrema attenzione alla questione sanitaria porta a due grandi vittorie: la prima riguarda l’impedimento di consumare cibo avariato, attraverso controlli meticolosi e l’imposizione di rigide norme su mercati e macelli, la seconda invece concerne la (momentanea) sconfitta del vaiolo, una delle malattie più temute dell’epoca, grazie ad una sorta di vaccinazione di massa attuata nei primi anni dell’Ottocento.
Lo Stato si impegna inoltre anche in campo sociale: vengono tutelati gli orfani, gli anziani e gli indigenti e anche le persone con disabilità.
Nondimeno Napoleone ha a cuore la diffusione della cultura all’interno della capitale piemontese. Diversi circoli letterari privati ricevono ingenti fondi monetari, come ad esempio accade all’Accademia dei Concordi o ai Pastori della Dora. Anche alcuni personaggi ricevono l’onore di essere sostenuti dal generale francese, come Prospero Balbo, diplomatico e intellettuale, nonché giovane rampollo di nobili origini, che, nel 1801, è nominato Rettore dell’Università di Torino. Balbo, grazie a legami politici e a un innato atteggiamento avveduto, riesce a gestire non solo il polo universitario, ma anche l’Accademia delle Scienze, l’Accademia di Agricoltura, l’Osservatorio astronomico e diversi Musei. Inoltre, il vero merito di Balbo – e dei suoi collaboratori- sta nell’essere riuscito a realizzare un primo effettivo progetto di collaborazione tra ricerca e istruzione a livello territoriale piemontese.
Tuttavia non è tutto ora ciò che luccica, infatti se da una parte il nuovo governo pare dare vita ad una città idilliaca, all’interno della quale vigono giustizia ed uguaglianza, dall’altra, l’imperatore teme di poter perdere il consenso nobiliare, motivo per il quale diverse famiglie illustri vengono favorite, attraverso l’assegnazione di cariche pubbliche o ricoprendo ruoli di prima importanza all’interno delle diverse corti, come ad esempio quella assai ambita di Camillo Borghese, governatore francese di Piemonte, Parma, Liguria.
Si assiste dunque ad una lenta ma continua fusione tra aristocrazia e borghesia: si forma una nuova classe dirigente che occupa i piani alti del consiglio municipale e degli altri organi che reggono la città di Torino.
È poi opportuno sottolineare come agli immediati successi subentrino non poche difficoltà, legate a problemi economici, al brusco impatto dei repentini cambiamenti imposti dal regime francese alla cittadinanza e all’applicazione concreta delle riforme amministrative. Torino poi è certamente parte del generale rinnovamento, ma rimane in una posizione subordinata rispetto al resto dell’impero francese, fatto che implica diverse problematiche legate alla circolazione delle merci e all’economia, anche l’andamento demografico riporta alcune criticità: nei primi vent’anni dell’Ottocento la popolazione pare diminuire di un terzo rispetto al secolo precedente.
Torino si scopre dunque ad eseguire le nuove indicazioni in modo decisamente passivo e ben presto il malcontento si diffonde non solo tra la popolazione ma anche all’interno della classe nobiliare; chi partecipa alla vita pubblica lo fa senza esporsi eccessivamente, chi invece risente del taglio dei legami con la famiglia Savoia non puòche rimanere ostile al nuovo governo straniero. A livello lavorativo la modernizzazione non porta solo dati favorevoli, al contrario aumenta la disoccupazione e i nuovi ritmi di produzione si fanno ancora piùestenuanti senza la protezione delle corporazioni e dell’atteggiamento paternalistico dell’aristocrazia.
Quando l’ 8 maggio 1814 le truppe austriache entrano a Torino sotto la guida del del generale Ferdinand von Bubna-Littiz, la popolazione non si dimostra ostile nei confronti dei nuovi arrivati.
Non ci sono né giubili né azioni violente, solo un generale e livellato malcontento, perché il potere e il benessere sono di pochi, per i più la fame e la miseria rimangono sempre tali, indipendentemente dalle insegne che le ricoprono.
“Nihil sub sole novum”.
ALESSIA CAGNOTTO
Leggi l’articolo sul Canavesano e dintorni:
La Biblioteca delle Edizioni Pedrini 2: ‘La Resistenza in Canavese. 3 maggio 1945’
Il baritono Giuseppe Scalco (1933-1983) dalle eccellenti dote canore nato a Cittadella di Padova si stabilí a Casale con la famiglia, si dedicò allo studio del canto con il maestro Bruno Riboni scopritore di giovani talenti che lo indirizzò al conservatorio Verdi di Milano sotto la guida del maestro Ettore Campogalliani, pagandosi gli studi interpretando fumetti del cinema. Diplomatosi con lode, nel 1960 vinse i concorsi internazionali Voci Nuove di Milano, Voci Verdiane di Busseto, Achille Peri di Reggio Emilia, Lirico Sperimentale Beniamino Gigli di Macerata e Giovan Battista Viotti di Vercelli. Queste vittorie gli consentirono di debuttare nel 1961 con I Pagliacci al Teatro Nuovo di Milano e nel 1965 partecipò all’inaugurazione della stagione lirica di Busseto con Lucia di Lammermoor.
Malinconica e borghese, Torino è una cartolina d’altri tempi che non accetta di piegarsi all’estetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre l’arancione dei tram storici continua a brillare ancorato ai cavi elettrici, me nel contempo le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano all’irruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo “a misura d’uomo”, con tutti i “pro e i contro” che tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma l’antica città dei Savoia si delinea unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri “sudaticci” ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti: in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito – e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.
1. Torino capitale… anche del cinema!
2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo
3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici
4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio
5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente
6. Chi ce l’ha la piazza più grande d’Europa? Piazza Vittorio sotto accusa
7. Torino policulturale: Porta Palazzo
8.Torino, la città più magica
9. Il Turet: quando i simboli dissetano
10. Liberty torinese: quando l’eleganza si fa ferro
1-Torino capitale… anche del cinema!
“Torino è grande! Torino è bella”, lo gridava Sandro Replay alle serate Parhasar, e vediamo quanti di voi, cari lettori, sorridono continuando la cantilena che quasi tutti i “veri” torinesi hanno pronunciato goliardicamente almeno una volta, certo ormai un po’ di tempo fa.
Vi ho “sbloccato un ricordo” perché in questo articolo vorrei raccontarvi di Torino sotto veste di capitale, tuttavia non d’Italia (1861 – 1865), ma della Settima Arte, che proprio qui vede i suoi natali, grazie a personalità come Vittorio Calcina e Arturo Ambrosio.
È il 1895, nel negozio di ottica di Arturo Ambrosio viene esposto il Kinetoscopio di Edison, parente prossimo del celeberrimo cinematografo Lumière, strumento che proietta immagini in movimento, creando quella magia immortale che illude l’osservatore e lo inganna, trasportandolo in luoghi e momenti inaspettati attraverso rappresentazioni fittizie.
Anche se alcuni attestano una prima proiezione nel mese di marzo 1896, presso il Caffè Romano di piazza Castello, la versione ufficiale vuole che tale avvenimento si fosse svolto il 7 novembre dello stesso anno, presso l’Ospizio di Carità di via Po 33.
Lasciamo stare i cavilli, la rivoluzione cinematografica è ormai nata e da subito stupisce e destabilizza gli osservatori increduli; le immagini scorrono su un formato di 1,60 mt per 1,29 mt -quasi quanto alcune televisioni odierne-, i filmati hanno breve durata, come attesta “La Bohémienne dei bébès”, una delle prime pellicole trasmesse, con protagoniste otto bambine con i grembiulini bianchi che ballavano la polca.
L’impatto è talmente sconvolgente che ad esso seguono altri due primati: la prima proiezione con un pubblico pagante – qualche mese più tardi rispetto al primo evento gratuito- e – decisamente diversi anni dopo, nel 1971- la nascita del primo cinema d’essai in Italia, il Cinema Romano, situato nella Galleria Subalpina, oggi rinominato Lux. E siccome non c’è due senza tre, nel 1983, Torino si conferma città del cinema con l’inaugurazione del cinema Eliseo, il primo multisala della penisola.
Ma andiamo per ordine: il 30 aprile 1911 si svolge nel capoluogo piemontese l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, una manifestazione imponente che espone numerosi cinematografi nei diversi padiglioni, a dimostrazione del fatto che già nel 1908 a Torino si girava ben il 60% della produzione filmica italiana, senza tener conto che a partire dal 1910 la casa di produzione Ambrosio distribuisce su larga scala i noti film “serie nera”, una sorta di storie gialle impreziosite dai drammi personali dei personaggi.
Pare incredibile, ma l’America all’epoca guardava verso l’Italia con stupore ed invidia, non solo per la grande macchina dell’industria cinematografica, ma anche per i divi e le dive che il grande schermo rendeva idoli indiscussi.
Sono gli anni del bianco e nero e del cinema muto, tutto è incentrato sulle movenze degli attori, gli sguardi, la gestualità estremizzata e teatrale, gli attori divengono “Stars”, impongono mode, dettano regole non scritte, infrangono i cuori dei giovani.
È il caso della bella Mary Cléo Terlanini, nota per aver recitato in “Spergiura!”, o di Lydia Borrelli, particolarmente amata dal pubblico maschile torinese, che addirittura “moriva” per il suo fascino, mentre le donne la imitavano a tal punto da far nascere una moda basata su un atteggiamento di emulazione totalizzante nei confronti della bella attrice, il “Borellismo”. Francesca Bertini, “charmante” e gracile, invece era l’incarnazione della “diva” per eccellenza, si dice infatti che pretendesse un abito nuovo e diverso per ogni scena girata, ovviamente cucito su misura dalla sua sarta personale, e che terminasse di lavorare alle 17.00 del pomeriggio per prendere il té in un grande albergo. Notata addirittura dalla Fox, Francesca preferisce alla grossolana America un amorevole banchiere svizzero, Alfred Paul Cartier.
Dietro i volti iconici e ben truccati degli interpreti in primo piano, si svolge il duro lavoro dei macchinisti, dei truccatori, degli scenografi, dei musicisti e di tutti coloro che finiscono nel dimenticatoio dei titoli di coda, eppure Vittorio Calcina, indifferente al rischio di non passare alla gloria, non si arrende ed elabora le prime pellicole con regia torinese, tra di esse si annovera un filmato realizzato presso il Castello di Monza, con protagonisti re Umberto I e consorte, i quali dimostrano una discreta curiosità per questa nuova tecnologia. Il girato viene trasmesso nella Birraria in via Garibaldi 10, luogo in cui si svolgono numerosi spettacoli diurni e serali, anche se il primo locale effettivo e stabile, in cui i film verranno proiettati periodicamente, sarà l’Edison, in via delle Finanze – ora via Cesare Battisti-.
Nel frattempo il lungimirante Arturo Ambrosio parte per una gita in montagna, carico di una macchina da presa donatagli da uno dei fratelli Pathé – i creatori dell’omonima società cinematografica, nata a Varennes, in Francia- con la quale gira il primo film prodotto a Torino: La corsa automobilistica Susa-Moncenisio. È l’inizio del successo per Arturo, che grazie alla riuscita del suo operato, apre uno studio di posa nel giardino di casa sua – via Nizza 187- dedicandosi alla realizzazione di film comici, drammatici e diversi documentari.
La nascita della Settima arte porta con sé lo sviluppo del sonoro e della comunicazione senza fili, è tutta una tecnologia brulicante di scoperte e sviluppi, che d’un tratto portano alla realizzazione di Cabiria, un vero e proprio kolossal, sceneggiato da Gabriele D’Annunzio e passato alla storia per essere stato il film più lungo, costoso ed innovativo dei tempi del cinema muto.
Impossibile non temporeggiare su tale argomento, tanto più che il temibile dio Moloch ancora ci osserva, incatenato, dall’interno del Museo del Cinema, situato presso la Mole Antonelliana.
Tra il 1913 e il 1914 Torino non invidia nulla alla celebre Hollywood, la stessa pellicola di Cabiria è nota negli Stati Uniti come “the daddy of spectacles”, ossia il “papà di tutti gli spettacoli”: la vittoria è garantita.
Giovanni Pastrone, il regista, propone un modello di spettacolo innovativo, che si differenzia dal cinema prodotto in precedenza, sotto molteplici punti di vista come la durata (tre ore e dieci minuti), il budget esorbitante (un milione di lire-oro), gli effetti speciali, i movimenti di carrello e l’uso espressivo della luce, senza dimenticare la Sinfonia del fuoco composta da Ildebrando Pizzetti e l’accompagnamento in sala di coro e orchestra, per le proiezioni più prestigiose. È l’opera d’arte “totale”, non stupisce a questo punto la collaborazione con D’Annunzio, il quale provvede alla stesura delle didascalie letterarie ed inventa il nome “Cabiria”, ossia “nata dal fuoco”.
Le scene del kolossal vengono girate in molteplici zone tra Torino, Tunisia, Sicilia, le Alpi, i laghi di Avigliana, Valli di Lanzo e all’interno di Villa Pastrone – di proprietà del regista-.
Della musica invece si occupa Manlio Mazza con la breve ma intensa Sinfonia del fuoco di Ildebrando Pizzetti.
La prima si svolge il 18 aprile 1914, al Teatro Vittorio Emanuele di Torino e in contemporanea al Teatro Lirico di Milano. Le innovazioni del film quali lampade elettriche per il chiaroscuro, scenografie ricostruite in cartapesta, il carrello per muovere la cinepresa sulla scena e la tecnica della sovrimpressione, donano fama immediata a Cabiria, la critica rimane benevolmente impressionata dall’opera, così come il pubblico, tanto che il kolossal resterà in cartellone per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a New York. È bene non dimenticarsi che proprio Cabiria è stato il primo lungometraggio della storia ad essere proiettato alla Casa Bianca.
Ben si collega a questi gloriosi inizi il progetto di costruzione di un museo del cinema italiano, idea portata avanti a partire dal 1941 da Maria Adriana Prolo, con il sostegno artistico dello stesso Giovanni Pastrone e con l’aiuto del giornalista Francesco Pasinetti.
Sarà tuttavia necessario attendere il 1995 affinché la Mole Antonelliana venga scelta come sede ultima della grande esposizione, proprio in occasione del centenario della nascita del cinema; per tale evento collaborano l’architetto torinese Gianfranco Gritella e lo scenografo svizzero François Confino, il progetto in seguito si amplia e si modifica, accrescendo di pari passo fama e apprezzamenti, tanto che nel 2000 il museo viene visitato da oltre due milioni di visitatori.
Già conosciuto a livello internazionale, nel 2004, con il film “Dopo Mezzanotte” di Davide Ferrario, il Museo del Cinema di Torino tocca l’apice della notorietà, mentre due anni dopo viene ulteriormente restaurato e rinnovato in occasione dei XX Giochi Olimpici invernali; l’allestimento si arricchisce di postazioni multimediali e interattive, tre nuovi ambienti dedicati al western, al musical e alla fantascienza.
È proprio negli anni 2000 che Torino festeggia il suo personale legame con il cinema, grazie all’inaugurazione del suggestivo apprestamento già citato di François Confino, il 20 luglio dello stesso anno, ma anche perché nel medesimo giorno viene costituita la “Film Commission Torino Piemonte”, con lo scopo di promuovere Torino ed il Piemonte come locations cinematografiche e televisive.
Vent’anni dopo il capoluogo è ufficialmente nominato Capitale del Cinema 2020. È in tale occasione che si sottolinea la numerosa varietà di enti, associazioni, istituti e laboratori che si contraddistinguono per eccellenza nel panorama cinematografico nazionale ed europeo e che hanno sede proprio qui, nella città attraversata dal Po e ombreggiata dal Monviso. Sempre nel 2020 si svolge “Torino Città del Cinema 2020. Un film lungo un anno” , un progetto ambizioso, sostenuto da Città di Torino, Museo Nazionale del Cinema e Film Commission Torino Piemonte, con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, in collaborazione con Regione Piemonte, Fondazione per la Cultura Torino, media partner Rai. L’iniziativa continua a crescere e a coinvolgere ulteriori proposte, che nel tempo hanno contribuito a fondere l’invenzione del grande schermo con il territorio torinese, a tal proposito è impossibile non citare l’ideazione de “I luoghi del cinema”, piano che prevedeva la realizzazione di allestimenti impattanti ed immersivi in alcuni specifici angoli della città.
È bene a questo punto fare i conti con il nostro snobismo torinese e riconoscere il ruolo più che rimarchevole che Torino ed il Piemonte hanno assunto nel mondo del cinema, nonché la loro notevole rilevanza dal punto di vista dello sviluppo dell’industria cinematografica, dello sviluppo di talenti e professionalità e delle ricadute in termini di promozione, anche internazionale, dell’immagine della città e dell’intero territorio.
Vi invito dunque, cari lettori, a tornare ad andare più spesso al cinema, magari a vedere qualche produzione nostrana senza scetticismi o giudizi a priori, non solo per l’aria condizionata, ma perché siamo ormai talmente abituati alla comodità delle piattaforme da divano, che ci siamo scordati della meraviglia e della vera magia del grande schermo.
D’altronde è da tempo che il cinema ci insegna a guardare, ad ascoltare e a sentire, ci apre al confronto, ci fa affacciare su mondi distanti, ci racconta grandi storie, e anche se imparare costa fatica, sarà sempre meglio che restare inscatolati in una comoda e preconfezionata “routine”.
ALESSIA CAGNOTTO
1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi
Sto proponendo, in questa serie di articoli, una breve ricostruzione storica delle vicissitudini della nostra bella Torino. In questo articolo nello specifico, desidero soffermarmi sul momento di massimo splendore che vede l’urbe pedemontana tramutarsi da cittadina basata sull’antico “castrum” romano in una vera e propria capitale regionale; nella seconda parte del Cinquecento, i diversi membri della famiglia Savoia, i signori torinesi per eccellenza, ordinano a diversi artisti una serie di interventi urbanistici che modificano definitivamente l’aspetto della città, rendendola un gioiello barocco invidiato e osservato da tutta la regione.
Sono questi gli anni del primo effettivo ampliamento territoriale, opera nella quale si inseriscono i grandi nomi dell’architettura barocca italiana: Ascanio Vittozzi, Carlo di Castellamonte e suo figlio Amedeo, Guarino Guarini, Filippo Juvarra, Benedetto Alfieri e Bernardo Antonio Vittone. Il lavoro di tali immense personalità fa emergere la nuova anima della città, adeguandola al ruolo di protagonista assoluta del Regno sabaudo.
Molti dei tratti architettonici assunti nel lontano Seicento sono ancora oggi ben visibili, passeggiando per le vetuste vie ci si imbatte in palazzi caratterizzati dalla monumentalità delle forme, piazze dall’impianto fortemente scenografico, giardini adorni di fontane e giochi d’acqua e, se si alza lo sguardo verso il cielo, grandiose cupole che si stagliano all’orizzonte. Non c’è dubbio, la nostra bella Augusta Taurinorum ancora sa risplendere del suo fascino sempiterno.
Tuttavia, come sempre, mi piace andare per ordine e definire dapprima il contesto.
Dal 1563, grazie alla decisione del duca Emanuele Filiberto, Torino diviene sede ufficiale della famiglia sabauda, tale scelta influisce grandemente sulla sorte dell’urbe pedemontana, che passa dall’essere prima un “semplice” avamposto, poi una vera e propria capitale regionale e infine, nel glorioso periodo cinquecentesco, verrà considerata cuore pulsante dell’intero Stato sabaudo.
Tale passaggio di status accelera non di poco la crescita della città: parimenti all’aumento demografico si promuovono gli interventi, sia politici che architettonici, fervidamente voluti dai Savoia.
L’assetto strutturale di Torino è ormai gerarchico, esso rispecchia l’ordine sociale secondo cui il potere si acquisisce per nascita, come testimonia la corte nobiliare che si accerchia sempre più intorno alla figura del monarca. È opportuno tuttavia sottolineare come in realtà i sovrani non fossero dei veri “desposti”, essi a loro volta dovevano comunque sottostare alle leggi dello Stato, perseguendo l’alto e specifico obiettivo di amministrare la giustizia, perseguendo il difficile scopo di mantenere l’ordine sociale, anche tenendo in considerazione i principi divini.
Col tempo i Savoia, anche grazie ai loro ministri e ai loro burocrati, riescono a rendere sempre più “illuminata”la struttura del governo torinese, rifacendosi ai dettami dell’Anciem Régime.
Ciò che è bene sottolineare è altresì la scelta della famiglia sabauda di non limitarsi ad interventi politici ed amministrativi, ma anche –soprattutto- a livello estico-costruttivo sul territorio: Torino viene costantemente ampliata, rafforzata e abbellita; inoltre è evidente come al nuovo aspetto corrisponda l’importanza simbolica dei luoghi, infatti alla giovane capitale vengono affidate diverse “funzioni chiave”, essa è sede degli uffici del governo, ossia domicilio dell’autorità politica, nonché residenza della base militare dello Stato.
Il potere monarchico, solido e ben definito, si riflette nell’omogeneo assetto urbanistico e nell’impianto stradale che regola e suddivide i diversi quartieri, l’ordine urbanistico si fa simbolo dell’ordine politico che lo Stato vuole instillare all’interno dei propri domini.
La partecipazione dei Savoia è più che attiva nel frangente costruttivo, la famiglia promuove una sistematica opera di ampliamento e modifica del primigenio impianto medievale, attraverso la costruzione di palazzi estrosi ed eleganti, che fanno da contrappunto al rigore stradale. Torino nel tempo si trasforma in una capitale barocca, le cui tracce sono tuttora ben visibili nel centro della città.
Si pensi ad esempio ad uno degli edifici simbolo della città: Palazzo Reale. Qui il barocco si mescola al rococò e al neoclassico, la facciata principale è esempio tipico del barocco aulico piemontese, così come lo sono l’eleganza delle decorazioni esterne ed interne alle varie sale.
Vi è poi la peculiare Chiesa di San Lorenzo, edificata a metà Seicento dal maestro Guarino Guarini per commemorare la vittoria di Emanuele Filiberto nella battaglia di San Quintino in Piccardia. L’ambiente interno si presenta ricco di marmi policromi, adorno di cappelle concave e convesse, così come vuole il gusto barocco, che esalta il ritmo della linea curva; l’illuminazione è data da un preciso e puntuale gioco di luci, tutto basato sullo sfumare dalla zona d’ombra dell’ingresso, verso il chiarore che aumenta con il sollevarsi dello sguardo; esaltano l’effetto gli oculi che bucano le pareti.
L’elemento caratteristico dell’edificio è la cupola a costoloni, osservandola si evince anche la genialità costruttiva del Guarini, il quale attraverso l’incastro dei costoloni costringe il visitatore a guardare verso l’alto, unica direzione perseguibile per trovare la salvezza divina.
Palazzo Madama invece deve la sua ristrutturazione allo Juvarra: cuore dell’intervento è lo scalone d’ingresso, tutto stucchi e marmi, costantemente illuminato dalla luce che si irradia dai grandi finestroni.
Ancora un esempio, Palazzo Carignano, situato nel centro di Torino e progettato dal Guarini, presenta la facciata principale curvata dall’alternanza di parti concave e convesse, il ritmo rispecchia i dettami del gusto barocco, così come lo fanno le particolari decorazioni interne, gli elaborati affreschi e gli stucchi sontuosi.
A segnare l’inizio di questo nuovo periodo, così glorioso e florido per la città di Torino, è il trattato di Cateau-Cambrésis (3 aprile 1559). Il documento non solo sancisce la fine delle guerre che avevano devastato la penisola fino ad allora, ma ripristina la sovranità del duca Emanuele Filiberto di Savoia sui propri domini. Quest’ultimo porta avanti una serie di interventi volti appunto a sottolineare l’importanza della nuova capitale: non più Chambéry ma Torino. Il duca individua come sua dimora, e sede della corte, Palazzo dell’Arcivescovado, edificio che viene così ampliato e modificato; Emanuele ordina poi la costruzione di una cittadella all’estremità sud-occidentale della città che cambia drasticamente il tessuto urbano, la nuova fortezza ha certo funzione difensiva ma essa deve anche simbolicamente rappresentare l’autorità ducale.
A livello politico Emanuele ricostituisce la Camera dei Conti e l’Alta Corte d’Appello francesi rinominandole Senato piemontese e facendo di esse le principali istituzioni del governo.
Per incrementare l’economia cittadina il duca promuove diverse attività, tra cui la piantumazione dei gelsi e la produzione di seta.
In sintesi sono principalmente due i fatti fondamentali che definiscono il nuovo status torinese: il ripristino delle attività dell’Università (1560) e il trasferimento nell’urbe della Sacra Sindone (conservata a Chambéry per più di un secolo). Torino è così anche custode e guardiana della santissima reliquia, il prestigio della città e – di conseguenza- della famiglia sabauda non si possono più mettere in discussione.
A Emanuele Filiberto succede Carlo Emanuele I (1580).
Sono anni turbolenti per il nuovo regnante, eppure Torino continua a prosperare; sotto Carlo la città si trasforma in una delle corti più raffinate d’Europa, il principe ama gli sfarzi, è mecenate di artisti e letterati, tra cui il poeta Giambattista Marino, il filosofo Giovanni Botero e il pittore Federico Zuccaro, autore delle decorazioni presenti nella galleria tra Palazzo Ducale e il vecchio castello, destinata alle curiosità e alle opere d’arte del duca.
Il gusto di Carlo per organizzare celebrazioni di vario genere porta alla costruzione di un grande spazio adibito alle cerimonie di fronte a Palazzo Ducale, il processo di edificazione inizia nel 1619 in occasione delle nozze della principessa Maria Cristina, figlia di Enrico IV di Francia. Per tale evento è inoltre aperta una porta nelle mura a sud (chiamata Porta Nuova), viene in seguito progettato una sorta di corridoio che congiunge Palazzo Ducale e Piazza Castello (attuale via Roma), a metà di tale passaggio è aperta una piazza (attuale piazza San Carlo). Carlo affida il cospicuo progetto del nuovo assetto cittadino a degli architetti esperti, che costituiscono il “Consiglio per l’edilizia e le fortificazioni”. I nuovi quartieri, definiti da residenze aristocratiche ben diverse da quelle presenti nel centro storico, non sono ideati per essere delle “vere abitazioni”, bensì per rendere la capitale preziosa, maestosa ed elegante.
Carlo Emanuele II ordina un ulteriore ampliamento urbanistico, seguito da un terzo progetto, sostenuto e terminato poi da Vittorio Amedeo II; quest’ultimo intervento rappresenta la fase conclusiva di ampliamento cittadino, dopo gli architetti si dedicheranno ad abbellire le antiche strutture preesistenti, rendendole moderne e lineari; si intraprenderanno poi diversi lavori volti a ristrutturare le strade principali, tra cui l’attuale via Garibaldi.
Caratterizza invece l’epoca settecentesca il completamento di diverse residenze nei dintorni di Torino, tra cui le ville nei parchi Mirafiori e Regio Parco e la dimora di Venaria Reale, poi completamente riassestata da Filippo Juvarra, uomo di fiducia di Amedeo II; all’architetto messinese si devono i lavori di modifica del Castello di Rivoli, la costruzione del mausoleo di Superga e la residenza di caccia di Stupinigi.
Nello specifico, la Reggia di Venaria, tuttora considerata un capolavoro d’architettura, si presenta come un’imponente struttura circondata da ampi giardini, ricchi di aiuole, fiori, piante, vanta numerosi esempi d’arte barocca, quali la Sala di Diana, la Galleria Grande, la Cappella di Sant’Uberto, le Scuderie Juvarriane, la Fontana del Cervo e le numerose decorazioni presenti in tutta la struttura. L’edifico è parte del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO dal 1997.
La scenografica palazzina di caccia di Stupinigi, situata alle porte di Torino, ha un corpo centrale ampio, a pianta ellittica, a cui si accede attraverso un maestoso viale affiancato da giardini. Cuore pulsante della struttura è il salone ovale, affrescato da dipinti che si rifanno all’arte venatoria; dal salone si dipartono a croce di Sant’Andrea quattro bracci che conducono agli appartamenti reali e a quelli degli ospiti.
A fine Settecento anche l’anello satellite costituito da tali residenze testimonia il potere e la gloria della famiglia sabauda.
Figura essenziale del XVIII secolo è Vittorio Amedeo II, il quale si dedica principalmente alle riforme interne: egli riorganizza la burocrazia, istituisce diversi dipartimenti con ambiti di competenza ben distinti; per ospitare tali istituzioni vengono edificati lungo il lato settentrionale di Piazza Castello una serie di uffici comunicanti con Palazzo Reale (un tempo detto Ducale). Accanto a tale struttura viene innalzato un palazzo per gli Archivi di Stato (il primo edificio edificato appositamente per questo scopo in tutta Europa); nel 1738 iniziano i lavori per annettere alle costruzioni preesistenti un teatro lirico a uso esclusivo della nobiltà. La zona adiacente Palazzo Reale è quindi il regno della corte e assume un carattere distinto non solo dal punto di vista architettonico ma anche sociale.
Amedeo II riforma anche l’ateneo, precedentemente chiuso a causa della guerra con i francesi; il re ottiene il controllo dell’Università e la trasforma in una istituzione regia volta a formare futuri uomini di governo, professionisti o ecclesiastici. L’ateneo riformato sorge vicino ai nuovi uffici governativi, apre le porte agli studenti nel 1720, ed è articolato in tre facoltà: Legge, Medicina, Teologia, ( a partire dal 1729 è presente anche l’indirizzo di Chirurgia).
Alla nuova istituzione è affidato il compito di gestire il sistema scolastico dell’intero Piemonte.
A Vittorio Amedeo II si deve il rivoluzionario passo di creare quello che può essere considerato il primo sistema scolastico laico dell’Europa cattolica, sottraendo così il primato dell’istruzione ai religiosi. L’Università è ora il dicastero responsabile dell’istruzione. Sotto Amedeo opera Juvarra, uno dei grandi maestri del barocco, formatosi a Roma come architetto e scenografo. Le sue costruzioni hanno tutte una chiara impronta scenografica, che risponde alle esigenze dei committenti e all’intento di celebrare la grandezza della capitale. Juvarra progetta chiese e facciate di palazzi, come per esempio quella di Palazzo Madama, che dà a piazza Castello una perfetta e nuova prospettica architettonica. Oltre Juvarra anche Guarino Guarini è uno dei protagonisti indiscussi che trasformano la città in un gioiello barocco. Guarini realizza la Chiesa di San Lorenzo, la Cappella della Santa Sindone e Palazzo Carignano, dando vita a eccentrici modelli architettonici divenuti modelli da imitare per gli artisti successivi. Il lavoro di questi architetti è ammirato dai visitatori e l’influenza delle loro opere presto si estende ben oltre i confini piemontesi: è grazie a loro se Torino da anonimo centro provinciale si tramuta in maestoso esempio di architettura barocca e pianificazione urbana. È grazie a loro se ancora oggi possiamo passeggiare per la città con lo sguardo incantato, attraverso l’eterna bellezza dell’arte.
Alessia Cagnotto
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Torino, conosciuta per la sua eleganza sobria, la sua architettura barocca, ma anche Liberty e neo-classica conserva nel suo cuore tracce di un passato molto lontano: le sue case medievali. Questi edifici sono pregiati e inestimabili testimoni di un’epoca in cui la città si stava trasformando in un centro di cultura, ma anche in un luogo autorevole in fatto di geopolitica. La sua posizione strategica ai piedi delle Alpi e al centro di un crocevia di culture, infatti, l’ha convertita in un modello unico di civilta’. I suoi palazzi contribuiscono a rendere questa citta’ un luogo elegante e fascinoso ed e’ impossibile passeggiando per le vie di Torino non voltare lo sguardo verso l’alto per esplorare visivamente queste opere d’arte costituite da particolari architettonici e artistici, da disegni, da balconi decorati e di finestre dai vetri colorati. Tra le piu’ antiche palazzine della citta, memorie di un passato che arriva fino ai giorni, ne abbiamo tre di sicuro interesse artistico e storico.
Casa del Pingone, posizionata tra piazza delle Erbe e il Duomo, e’ una delle abitazioni più antiche della città, risalente ai secoli XV – XVI e prende il nome da Emanuele Filiberto Pingone, storico di corte del duca Emanuele Filiberto di Savoia che la abito’ dopo il trasferimento da Padova . L’edificio conserva elementi architettonici di grande pregio, come i soffitti in legno, affreschi decorati con motivi a grottesche (pitture di radice romana), e una torre merlata medievale ancora visibile sebbene sia stata coperta in alcune sue parti. Questa casa rappresenta un raro esempio di architettura civile medievale ancora intatta nel cuore di Torino. Nel 2000 e’ stata ridipinta per donarle i colori originari.
Casa del Senato e’ un altro esempio di edilizia medievale che si distingue per la sua base in pietra e per tracce di finestre ogivali, poi sostituite nel XVI secolo da ampie finestre a crociera in cotto. Con i suoi quattro piani fuori terra, la Casa del Senato era sorprendentemente alta per l’epoca, sottolineando il suo ruolo istituzionale e la sua importanza all’interno della città medievale. Costruita come casa nobiliare e poi divenuta luogo di incontro del Senato Subalpino dove furono discusse e approvate alcune delle decisioni più significative per l’unificazione dell’Italia e ha avuto un’importanza particolare durante il Risorgimento italiano. Si trova nel cuore del centro di Torino e rappresenta uno dei simboli capitale del Regno di Sardegna.
Casa Romagnano, sita in via dei Mercanti 9, conosciuta anche come “Casa Armissoglio”, è un’altra testimonianza dell’edilizia civile della Torino medievale costruita tra la fine del XIII e l’inizio del XVI secolo. Dimora dell’omonima famiglia, nonostante i numerosi interventi di restauro nel corso del tempo, la casa conserva il suo aspetto nobile con dettagli architettonici dell’epoca come le quattro eleganti finestre in cotto e marcapiani che le danno equilibrio e sobrieta’ e che rispecchiano la maestria artigianale di quel periodo. Afine del 1800 fu riqualificata e vennero riportati alla luce diversi elementi come le parti in cotto e le finestre.
Altre Testimonianze Storiche
Oltre a queste dimore, Torino conserva altri edifici medievali sparsi per il centro storico. Le mura romane, le torri e alcune chiese completano un quadro ricco di fascino, che permette di immaginare com’era la città secoli fa.
Maria La Barbera
Partendo dal domandarsi cosa avesse portato la figlia del marchese di un piccolo Stato piemontese del XIII secolo a sposare nientemeno che l’erede al trono dell’impero romano d’Oriente, l’autore Andrea Paleologo Oriundi ha ricostruito la storia dei complessi rapporti tra il mondo occidentale latino e quello orientale greco negli ultimi secoli del Medio Evo. Di opere sull’argomento, o più propriamente su parti di esso inquadrate in disamine più generali, ne sono state pubblicate molte, anche recentemente; questo lavoro rappresenta qualcosa di diverso: un testo che raccoglie l’intera storia dei complessi, intensi e poco conosciuti rapporti che le case dei marchesi di Monferrato (Aleramici prima e Paleologi poi) hanno intessuto con il vicino Oriente (Costantinopoli e Terrasanta) o, come veniva chiamato all’epoca, con l’Oltremare, dal XII al XV secolo. Tali imprese e legami, propiziati dalle crociate, si inquadrano in un più vasto movimento di avvicinamento tra due mondi, l’Occidente latino e l’Oriente greco, e tra due civiltà profondamente differenti, rimasti a lungo estranei e fondamentalmente ostili uno all’altro ma che fatalmente erano destinati ad incontrarsi e scontrarsi con le aperture dell’ultimo periodo del Medio Evo. È un testo di gradevole leggibilità anche per chi ha solo sfocati ricordi scolastici su un argomento così intricato e lontano da noi, ma anche così affascinante e avvincente, per far rivalutare al lettore un periodo, il Medio Evo, dai più ingiustamente ritenuto “buio” e poco interessante. È un’opera che si pone a metà tra il saggio e il racconto, senza perdere il rigore dell’uno né la piacevolezza dell’altro. Disponibile su Amazon a: https://www.amazon.it/dp/B0CNDBLJW6