STORIA- Pagina 24

Il castello di Agliè, una residenza sabauda nel Canavese

Bellezza, arte, poesia e un po’ di cinema

Eretto nel XII secolo dalla famiglia dei conti San Martino nell’omonimo borgo, uno dei più famosi del canavese, fino al 1600 il Castello di Agliè mantenne l’aspetto di un forte con tanto di muraglia difensiva e fossato.

I primi interventi per renderlo dimora furono fatti a fine secolo dal Conte Filippo che affidò il progetto all’architetto Amedeo di Castellamonte: venne rivisitata la facciata interna, creata la cappella e le due gallerie. Nel 1764 fu venduto al re Carlo Emanuele III dando inizio così alla prima epoca sabauda e divenendo una delle residenze estive reali. Vengono ricavati nuovi appartamenti, edificata la chiesa parrocchiale della Madonna della Neve, collegata al castello così che i membri della famiglia potessero raggiungerla senza essere visti, ampliato il giardino in stile italiano, costruita la fontana dei Fiumi, Dora Baltea e Po, con le belle sculture dei fratelli Collino. Durante il governo di Napoleone venne ceduto perdendo così il tono regale e sontuoso e venendo utilizzato invece come ricovero per i poveri.

Carlo Felice a inizio del 1800 lo rivolle fortemente e gli ridiede un aspetto sfarzoso grazie anche all’intervento dell’architetto Michele Borda che introdusse gli arredi in stile Carlo X, costruì un teatro gioiello e inserì una bella collezione di opere d’arte. Nello stesso periodo vennero introdotti diversi reperti relativi a vari scavi archeologici che Maria Cristina di Borbone, moglie di Carlo Felice, aveva seguito personalmente nel Lazio.

Nel 1939 il castello fu venduto allo Stato con la gestione della Soprintendenza ai Monumenti e dei Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che ancora oggi si occupano del suo mantenimento e della sua salvaguardia. Dal 1997 è parte del Patrimonio Unesco e del circuito dei Castelli del Canavese.

Grazie alla sua bellezza ed eleganza i visitatori sono in costante aumento, la varietà di stili architettonici che si sono susseguiti storicamente e i diversi spazi interni ed esterni da visitare: i saloni, la biblioteca, il teatro, la cappella, i giardini pieni di alberi secolari e serre, attraggono turisti e curiosi da tutta Europa.

Al Castello di Agliè furono dedicati alcuni versi dal poeta Guido Gozzano che durante le sue vacanze di bambino giocava sul piazzale antistante ed è stato un meraviglioso sfondo cinematografico dove sono state ambientate alcune fiction come Elisa di Rivombrosa e Maria José, un luogo dunque dove la magia dell’arte, le storie legate alle famiglie reali, la grandiosità architettonica e la bellezza nella natura si intrecciano conferendogli lo status di meraviglia non solo piemontese ma del mondo intero.

Maria La Barbera

Le storie del calcio e l’America del Sud di Eduardo Galeano

 

Eduardo Galeano, scrittore uruguaiano, è stato uno degli autori più letti e amati della letteratura sudamericana moderna. Con Le vene aperte dell’America Latina (1971) disegnò un ritratto incredibilmente efficace della realtà del subcontinente americano. Nato nel 1940 in una famiglia alto borghese e cattolica di Montevideo, Galeano debuttò nel giornalismo a 14 anni come disegnatore satirico ma siccome “c’era un abisso fra quello che immaginavo e quello che tracciavo” si orientò successivamente verso la scrittura. Poco più che ventenne diventò una delle firme principali e poi capo redattore di Marcha, settimanale politico e culturale legato alla sinistra che diventò un punto di riferimento ben al di là dei confini uruguaiani. Dopo una serie di libri dedicati a reportage e analisi della situazione in vari paesi, nel 1971 pubblicò il già citato Le vene aperte dell’America Latina, in cui ricostruiva la spoliazione delle ricchezze del subcontinente da parte delle potenze coloniali, e il suo proseguimento attraverso le strutture del post-colonialismo capitalista. Tradotto in più di venti lingue, best seller internazionale, quando apparve fu per molti una vera e pro­pria fol­go­ra­zione tanto che Hein­rich Böll, scrit­tore tede­sco Pre­mio Nobel per la Let­te­ra­tura nel 1972, disse: “Negli ultimi anni ho letto poche cose che mi abbiano com­mosso così tanto”. Un reportage che attraversa cinque secoli di storia del continente latinoamericano per raccontare il saccheggio delle sue preziose risorse: l’oro e l’argento, il cacao e il cotone, il petrolio e la gomma, il rame e il ferro. Tesori depredati sistematicamente: fin dai tempi della conquista spagnola, le potenze coloniali hanno prosciugato le ricchezze di questa terra rigogliosa, lasciandola in condizioni di estrema povertà. Un testo illuminante che intrecciando l’analisi storica ed economica con il racconto, suggestivo e incalzante, delle passioni di un popolo sfruttato e sofferente, è diventato un vero e proprio classico della letteratura latinoamericana. A dire il vero, in tempi più recenti, Galeano prese una certa distanza da quello che è stato  il suo libro più noto. E disse: “Non mi pento di averlo scritto, ma non lo rileggerei: volevo scrivere un saggio di economia politica e non avevo la formazione necessaria“, aggiungendo che considerava “superata” una “certa prosa di sinistra, che ora trovo pesantissima“. Quando i militari presero il potere con un colpo di stato in Uruguay nel 1973, Galeano fu messo in carcere e poi fuggì in Argentina. Quando il generale Jorge Rafael Videla salì al potere in Argentina, il suo nome fu aggiunto alla lista delle persone condannate dagli squadroni della morte e lui fuggì in Spagna (tornò a Montevideo all’inizio del 1985) dove proseguì la sua carriera letteraria creando un stile personale, a metà fra la documentazione storica e la riflessione poetica, che lo portarono al successo internazionale con Memoria del Fuoco, una trilogia pubblicata dal 1982 al 1986. Alla critica internazionale quest’opera piacque molto e il Times Literary Supplement la paragonò a quelle di Dos Passos e Garcia Marquez. Militante di sinistra e sostenitore, seppur critico, dei governi progressisti dell’America Latina, Galeano dopo aver denunciato la “decadenza di un modello di potere popolare” e la “rigidità burocratica” della Cuba castrista (era il 2003) , tornò nell’isola caraibica nel 2012, sottolineando che “un vero amico ti critica in faccia e ti elogia dietro le tue spalle“. Ma l’altra grande passione dello scrittore uruguaiano è stata il calcio. Eduardo Galeano, tifoso appassionato e calciatore mancato (“Come tutti gli uruguagi, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte mentre dormivo e sognavo; durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese”), con il suo Splendori e miserie del gioco del calcio (El fútbol a sol y sombra, nella versione originale), ha scritto pagine memorabili sul mondo del football. Il calcio per sognare, inteso come arte, religione e bellezza. Il calcio come linguaggio comune, modo per riconoscersi e ritrovarsi. Il calcio, figlio del popolo, che non deve cedere alle lusinghe dei potenti, di chi vuole trasformarlo in strumento per produrre denaro, uccidendo la fantasia e l’innocenza. “Grazie per aver lottato a centrocampo come un mediano e per aver segnato contro i potenti come un attaccante con il numero 10. Grazie anche per avermi compreso. Grazie, Eduardo Galeano: in squadra ne servono tanti come te. Mi mancherai”. Non è un caso che così venne salutato da Diego Maradona quando morì a 74 anni, il 13 aprile del 2015. A comunicare la notizia della scomparsa di Galeano all’ex capitano del Napoli che si trovava a Bogotà era stato un reporter suo amico al quale un Maradona commosso confidò che “lui (Galeano, ndr) mi ha insegnato a leggere di calcio”, come riportò il giornale argentino La Nacion. Galeano aveva citato Maradona in alcune sue opere tra le quali il celebre Splendori e miserie del gioco del calcio, scrivendo che El Pibe de Oro “si era trasformato in una specie di Dio sporco, il più umano degli dei, e questo spiega la venerazione universale che ha conquistato, più di qualsiasi altro giocatore. Un Dio sporco, che ci assomiglia: donnaiolo, bevitore, spericolato, irresponsabile, bugiardo, fanfarone. Però gli dei per quanto siano umani non si ritirano mai”. Per questo e per molto altro Galeano rimane, con i suoi libri e le sue storie, un maestro di vita.

Marco Travaglini

Palazzina di Caccia di Stupinigi: Diana&Co, una visita guidata tra miti e leggende

Domenica 25 agosto, ore 15.45

Diana, dea della luna e della caccia, occupa un posto di rilievo nell’immaginario delle corti europee e della Palazzina di Stupinigi. Il “Mito di Diana” è dipinto nella volta dell’Anticamera del Re, il “Trionfo di Diana” nel Salone d’Onore, le storie di Diana cacciatrice negli Appartamenti Reali e due sculture in marmo di Diana e Atteone si trovano nell’Atrio di Levante a ricordare la leggenda secondo cui Atteone fu trasformato dalla dea in cervo e dato in pasto ai suoi stessi cani per averla spiata mentre faceva il bagno. Storie e miti di Diana&Co saranno raccontati domenica 25 agosto in una visita guidata a misura di bambino che trasforma in suggestive pagine illustrate di un antico libro, quadri, dipinti e stucchi della Palazzina di Caccia di Stupinigi.

INFO

Palazzina di Caccia di Stupinigi

Piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi – Nichelino (TO)

Domenica 25 agosto 2024, ore 15.45

Diana&Co

Visita guidata

Prezzo attività: 5 euro + biglietto di ingresso

Biglietto di ingresso: intero 12 euro; ridotto 8 euro

Gratuito minori di 6 anni e possessori di Abbonamento Musei Torino Piemonte e Royal Card

Prenotazione obbligatoria per l’attività entro il venerdì precedente

(Per prenotazioni via e-mail attendere sempre una conferma scritta, controllare anche lo spam)

Giorni e orari di apertura Palazzina di Caccia di Stupinigi: da martedì a venerdì 10-17,30 (ultimo ingresso ore 17); sabato, domenica e festivi 10-18,30 (ultimo ingresso ore 18).

Info: 011 6200601 stupinigi@biglietteria.ordinemauriziano.it

www.ordinemauriziano.it

Smoky, il primo cane da terapia

 

Smoky era una yorkshire terrier nata nel 1943 che da adulta pesava appena quattro chili. All’inizio del 1944 venne trovata nella giungla della Nuova Guinea e diventò la mascotte della Quinta Forza Aerea degli Stati Uniti. Smoky collezionò una dozzina di missioni di mare, aria e soccorso, spesso riparata negli zaini dei soldati. Al termine della seconda guerra mondiale Smoky venne decorata non solo per la dedizione e il coraggio ma anche per l’abilità con la quale risollevava il morale dei soldati feriti negli ospedali che potevano contare, oltre a farmaci e infermieri, sull’affetto di questa piccola yorkshire terrier. Smoky, eroe a quattro zampe, balzò agli onori della cronaca grazie alla stampa americana che gli dedicò diversi articoli e foto, riconoscendole il ruolo di primo cane da terapia della storia che fece da apripista a questa eccezionale “professione” dagli effetti curativi miracolosi.

La cagnetta iniziò la sua attività terapeutica già nel corso del conflitto quando si unì agli infermieri dell’ospedale da campo che curarono le vittime e i feriti dell’invasione di Biak Island. Come cane da terapia Smoky dimostrò doti straordinarie offrendo per dodici anni compagnia e intrattenimento ai soldati feriti. Raggiunta la notorietà la piccola yorkshire viaggiò spesso con il suo padrone, il caporale William Wynn, partecipando a raccolte di beneficenza, spettacoli televisivi e al suo show personale “Castelli in aria” dando prova in diretta delle sue abilità sorprendenti. Smoky morì nel 1957 all’età di 14 anni e il suo padrone ne posizionò accuratamente il corpo in una scatola di munizioni calibro trenta per poi seppellirlo nel Rocky River Reservation nello stato dell’Ohio. Nello stesso luogo, vent’anni fa, venne eretta una statua di bronzo raffigurante Smoky accucciata in un elmetto per ricordare questa antesignana protagonista della pet therapy.

Marco Travaglini

“Eleganza in uniforme” al Museo della Cavalleria di Pinerolo

“Un racconto di moda e storia militare”

Dal 16 giugno al 14 novembre

Pinerolo (Torino)

La location è un “unicum” nella storia d’Italia: il “Museo Storico dell’Arma di Cavalleria”di Pinerolo, ospitato, in via Giolitti 5, nell’antica Caserma “Principe Amedeo” (poi intitolata al generale Dardano Fenulli) e, sicuramente, uno dei più importanti Musei d’Europa dedicati alla “Cavalleria”, istituito nella sede dell’antica (aperta da Alfonso La Marmora) “Scuola di Cavalleria”  e voluto nel 1961  dall’allora Ministro della Difesa, Giulio Andreotti, con apertura al pubblico nell’ottobre del ’68. Per tutta l’estate e l’autunno – da domenica 16 giugno fino a giovedì 14 novembre– in questi storici spazi si potrà gratuitamente esplorare la “connessione tra moda femminile e uniformi militari dal 1849 al 1943”, attraverso la mostra “Eleganza in uniforme: un racconto di moda e storia militare”, organizzata (con la curatela della storica del costume Laura Tessaris) dal “Consorzio Turistico Pinerolese e Valli”, in collaborazione con il “Comune di Pinerolo” e “Zonta Club Pinerolo”.

Complessivamente, sono una quarantina i capi esposti, ai quali si sommano cappelli, copricapi e corsetti. Obiettivo: “Esplorare – sottolinea la curatrice – non solo le trasformazioni stilistiche ma anche le storie umane che si celano dietro le vesti per un viaggio nella ‘storia del costume’, dalle frivolezze degli abiti da ballo della seconda metà dell’Ottocento al rigore dei completi femminili ispirati alle uniformi negli Anni Quaranta”. E, a leggere fra le righe, la mostra può anche indicarci “rivendicazioni” ante litteram rispetto alla già solleticante voglia di giuste e sacrosante “pari opportunità”. Pur anche nell’abbigliamento. Dicono gli organizzatori: “In un contesto tradizionalmente dominato dalla figura maschile, la mostra ridefinisce e amplia il concetto di partecipazione e contributo femminile in questi ambiti: la figura femminile è accanto alle uniformi maschili, per riconoscere il ruolo attivo e significativo delle donne nella storia della cavalleria, dedicando uno spazio significativo alle amazzoni della ‘Scuola di Cavalleria’, donne coraggiose e abili cavallerizze che hanno sfidato le convenzioni sociali del tempo per seguire la loro passione per l’equitazione e la Cavalleria”.

Chicca fra le molte, un abito da cavallerizza invernale del 1890 (con corpetto beige, gonna e finiture di lana tartan marrone) della Contessa Sofia Cacherano di Bricherasio (1867-1950), pittrice e filantropa. Altro capo di notevole valore, non solo dal punto di vista stilistico ma anche da quello storico-sociale, la toga di Lidia Poet (esposta accanto a due abiti valdesi), prima avvocatessa d’Italia, protagonista di una serie Tv su “Netflix”, originaria del piccolo e vicino Comune di Perrero.

Alcuni dei capi arrivano dall’ “Archivio Aldo Passoni” di Torino, altri appartengono alla collezione unica di Alessandro Ubezio, in arte “Anti Costume”, altri ancora sono stati realizzati dalla stessa curatrice Tessaris, come elementi piacevolissimi di una “passeggiata dove i manichini paiono giocare con l’arredo”. Ecco allora un “corsetto”, realizzato proprio dalla Tessaris grazie a un modello conservato in un archivio di Londra: fedelissimo, è un modello del 1888, con fianchi alti, per andare a cavallo. E se non mancano due abiti da sposa, uno dell’austera “epoca vittoriana”, di colore nero, originale, e l’atro, sua fedele riproduzione, ma firmato da Alessandro Ubezio in bianco, lo sguardo si perde, poi, sugli abiti da sera e da giorno, come sulle giacchee sugli abiti Anni Trenta e Quaranta. Il più fotografato? Un capo blu elettrico, in chiffon e seta leggerissima drappeggiata con una piuma che gira intorno al vestito di perline.

Infine, i cappellini, con una collezione che spazia dagli Anni Venti a creazioni con velluto, pelliccia e piume. Un tocco di eleganza, accanto ad “elmi” e “copricapi” già presenti nella mostra permanente del Museo. Curiosa e saggia miscellanea di stili e costume.

Gianni Milani

“Eleganza in uniforme: un racconto di moda e storia militare”

Museo Storico dell’Arma di Cavalleria, via Giolitti 5, Pinerolo (Torino); tel. 0121/376344o www.museocavalleria.it

Dal 16 giugno al 14 novembre

Orari: mart. merc. giov. 9/12 e 13,30/16,30; domenica 10/12 e 14/18

 

Nelle foto: immagini dell’allestimento della mostra; abito di Sofia Cacherano di Bricherasio (1890); “Corsetto” su modello del 1888, conservato in un archivio di Londra

Il “Pannunzio” ricorda le vittime dei totalitarismi

 IL CENTRO CULTURALE CELEBRA IL 23 AGOSTO “GIORNATA EUROPEA DI COMMEMORAZIONE DELLE VITTIME DI TUTTI I TOTALITARISMI”

Quando l’Unione europea si è ingrandita, essa è pure culturalmente maturata. Ed è pervenuta ad una memoria del ‘900 più completa e più onesta. Risoluzione Consiglio d’Europa 2006, Dichiarazione di Praga 2008, Relazione Commissione Europea 2010, Risoluzione Parlamento europeo 19.9.2019, Appello congiunto Baltici Polonia Romania 2022 etc. Si è passati dai soli antifascismo-antinazismo (con lo stalinismo che era una parentesi, un incidente della storia), alla comprensione piena del totalitarismo. Nelle sue due forme, nero-bruno e rosso. E si è colta nel 23 agosto, firma del patto Ribbentrop – Molotov, la data cruciale e simbolica.

Un recente viaggio nei tre Paesi baltici ci conferma l’importanza di questa data.

  1. Furono le vittime, dopo la Polonia, del Patto Ribbentrop – Molotov nella sua versione aggiornata, quella dei Protocolli 28 settembre 1939.
  2. Una Resistenza partigiana antisovietica, i “Fratelli della Foresta”, le cui cifre parlano di oltre 100mila combattenti lituani, 40mila, lettoni, 30mila estoni. Impegnarono 260mila unità sovietiche. Le operazioni si protrassero per anni e furono debellati solo a metà degli anni ’50: l’Occidente, come per l’Ungheria, onorava gli impegni di Yalta, così che senza alcun aiuto militare la Resistenza fu soffocata.
  3. La deportazione: Per la sola Lituania 118mila deportati, di cui 28mila morti laggiù. Abbiamo parlato con lituani e lettoni che nei campi di lavoro ci sono nati, chi in Kazakistan, chi alla Kolyma, chi ben sopra il Circolo polare artico.
  4. l’Esodo: la fuga con imbarcazioni di fortuna, verso Svezia, Finlandia o un qualche paese occidentale, per il popolo estone raggiunse dimensioni bibliche: oltre 80mila su una popolazione di poco più di un milione, quasi uno su dieci.
  5. La Via Baltica. Non appena si allentò la morsa repressiva ( con la Perestroika) i tre popoli nella loro interezza si sollevarono e, scegliendo proprio la significativa data dei 50 anni dalla firma del Patto, il 23 agosto del 1989 attuarono la Via Baltica: da Tallin, passando per Riga, fino a Vilnius, una lunghissima, ininterrotta catena umana che si dispiegava per 680 chilometri, dove si tenevano mano nella mano più di due milioni di persone (su un totale di nemmeno nove milioni di abitanti!).
  6. Le barricate. Contro il potere sovietico nelle tre capitali furono erette barricate: a febbraio del 1991 con macigni e blocchi di cemento portati da trattori e gru, si cinsero a difesa i palazzi delle istituzioni e le torri dei centri radiotelevisivi. Le barricate durarono fino ad agosto, quando fu finalmente proclamata l’Indipendenza.
  7. E proprio sull’annullamento del patto Hitler-Stalin tale indipendenza veniva fondata, chiedendo alla comunità internazionale di riconoscere come questi tre stati, a differenza degli altri, non avessero avuto la restituzione della sovranità all’indomani della 2^ G. M.

La data del 23 agosto è il perno del glorioso triennio 1989-91, un percorso che accomuna e onora queste tre piccole, fiere nazioni.

 

VALTER LAZZARI

 

 

Campidoglio, il borgo torinese che riporta indietro nel tempo

 

Piccole case, il Museo di Arte Urbana, piole e piccoli negozi ricreano l’incanto di una volta con magica modernita’.

Incastonato tra Cit Turin, San Donato e Parrella, il borgo Campidoglio e’ un luogo d’altri tempi, impreziosito da contaminazioni moderne, dove il sapore di un’altra anima della citta’ e’ vivo e ben conservato.

L’origine del nome Campidoglio, riconducibile al VIX secolo, sembra che venga dalla sua antica destinazione, ovvero un’area rurale fatta di campi, e al nome dei proprietari della stessa, Doglio.

Il quartiere ebbe il suo sviluppo nel 1863 quando si creo’ una vera e propria borgata con vocazione residenziale con l’edificazione di nuove case, abitata perlopiu’ da operai e artigiani, ma anche del cinema teatro Savoia (oggi Astra) e di piccole fabbriche. Le strade, larghe non piu’ di 6 metri e a senso unico, sono caratteristiche per il loro selciato che le contrassegna come una (quasi) isola pedonale mentre le costruzioni sono le tracce piu’ significative di un luogo che si sviluppa come un paese dentro la citta’, come effettivamente era prima del 1900 quando un decreto regio lo inseri’ in un nuovo piano regolatore come quartiere di Torino all’interno, quindi, della cintura. Il borgo, con la sua struttura a scacchiera romana, negli ultimi 15 anni e’ stato riqualificato con l’obiettivo di ricostituirlo rispettando e conservando, tuttavia, le sue caratteristiche originarie: la struttura e le case basse, con bei cortili interni, che sanciscono il suo fascino e la sua unicita’.

Questo quartiere, inoltre, e’ un meraviglioso museo a cielo aperto, con opere murarie che raffigurano diversi soggetti e panchine dedicate alle donne, che vengono illuminate dal sole e omaggiate dalla luna; ad oggi ce ne sono circa 200 dipinte sulle palazzine della parte vecchia del quartiere e costituiscono il cuore del Mau, Museo d’Arte Urbana, che e’ stato il primo progetto di arte pubblica in Italia, un meraviglioso concentrato di street art che si e’ trasformato in una associazione autonoma. Dal 2001 il Mau collabora con il Centro Commerciale Artigianale Naturale che gestisce 35 opere in teca della Galleria Campidoglio, con il Museo Diffuso della Resistenza che coordina le visite al Rifugio antiaereo, sito a piazza Risorgimento, ed e’ riconosciuto dalla Citta’ di Torino, convenzionato con l’Accademia Albertina e inserito nell’Abbonamento ai Musei della citta’ e del Piemonte.

Oltre ai magnifici murales sono presenti altri siti di interesse come la chiesa di Sant’Alfonso Maria De’ Liguori, voluta nel 1880 dal teologo Domenico Bongioanni, allievo di don Giovanni Bosco; il Sacrario del Martinetto, il principale monumento di Torino dedicato alla Resistenza; Villa Arduino una bellissima costruzione in stile neo-gotico dove sembra che ci visse anche Macario; il teatro Astra, una volta Cinema Savoia, uno dei piu’ importanti edifici Art Deco’ a Torino, e Case Bocca e Comoglio.

E’ possibile fare tour guidati all’interno del borgo per approfondire e conoscere al meglio i suoi luoghi e le sue opere e inoltre, se si vuole passare una serata immergendosi in un mood d’altri tempi, sono diversi i locali caratteristici dove fare un aperitivo o una buona cena come l’Osteria Al Torchio, la Dogana o la pizzeria Oscar Wilde.

Per informazioni:

culturalway.it

museoarteurbana.it

MARIA LA BARBERA

Visite al Castello di Marchieru’

Domenica 25 agosto riprendono gli appuntamenti previsti dal Calendario 2024 con l’apertura di cancelli     e portoni di castelli, palazzi ed antiche ville private normalmente non aperti al pubblico,                      aderenti all ’ Itinerario Dimore Storiche del Pinerolese, officiato dall’ ADSI                                                             ( Associazione Dimore Storiche Italiane) ed  inserito nel circuito “Castelli e Dimore Storiche ” di TurismoTorino e Provincia

CASTELLO DI MARCHIERU( Villafranca Piemonte * via S.Giovanni 77)

Visite guidate al parco, alla cappella gentilizia, alle scuderie settecentesche ed alle sale ammobiliate del Gli stessi proprietari, discendenti dai primi feudatari del 1220,accompagneranno gli ospiti facendo rivivere con oggetti, reperti e documenti storici originali, la vita, gli usi ed i costumi di una Dimora nobiliare dell’epoca.  

( visite ore 10/11*15/16/17 )

adulti € 8 * bimbi gratis fino a 10 anni*      

Prenotazione obbligatoria al 3394105153 /3480468636 * segreteria@castellodimarchieru.it  

Il Conte Verde torna al Moncenisio con i suoi cavalieri

È un salto nel passato medioevale di Moncenisio che festeggia i suoi 800 anni dalla fondazione nel 1224. Incastonato in Val Cenischia lungo la via Francigena Moncenisio si chiamava un tempo Ferrera Cenisio. Amedeo VI di Savoia, detto il Conte Verde, è l’assoluto protagonista dello spettacolo equestre che ogni anno nel piccolo comune (51 residenti) richiama centinaia di turisti e villeggianti. La festa, animata dal Gruppo storico dei cavalieri del Conte Verde, rievoca i viaggi e le spedizioni compiute da Amedeo VI per visitare i suoi numerosi possedimenti a cavallo delle Alpi. Per l’occasione i personaggi che danno vita allo spettacolo sono tutti rigorosamente vestiti di verde, destrieri compresi. Fin da ragazzo infatti Amedeo partecipava ai tornei equestri indossando abiti di colore verde. È il gran giorno del Conte Verde e dei suoi fedeli cavalieri tornati a Moncenisio dopo una lunga cavalcata attraverso le Alpi. Ognuno rappresenta un personaggio d’epoca con costumi medievali e con accampamenti, vessilli e spade che riproducono quelli originali curati in ogni dettaglio. Più volte in questi anni il gruppo storico ha attraversato le antiche strade delle terre dei Savoia sostando nelle dimore e nei castelli reali che si trovano lungo il percorso.

Da Torino a Chambéry e fino ad Altacomba, l’abbazia dove è sepolto Amedeo VI. È suggestiva e affascinante la rievocazione storica del passaggio del Conte Verde al valico del Moncenisio. Sono stati tanti i viaggi compiuti da Amedeo VI su e giù per le Alpi. Nell’autunno del 1350 accompagnò la sorella Bianca attraverso la Maurienne e il Colle del Moncenisio (2083 metri) in occasione del matrimonio di Bianca con Galeazzo Visconti, celebrato a Rivoli. Alcuni anni dopo valicò nuovamente il Moncenisio per accompagnare la nipote Isabella di Valois promessa sposa a Gian Giacomo Visconti. Non appagato dalle fatiche piemontesi il Conte Verde decise di trasferirsi nel vicino Oriente, di andare all’avventura in terre a lui sconosciute e di combattere contro nemici molto potenti, i turchi ottomani, la superpotenza dell’epoca che cominciava a penetrare nei Balcani. Si tratta della celebre spedizione in Oriente (giugno 1366 -luglio 1367) immortalata nell’imponente monumento di Pelagio Palagi di fronte al Municipio di Torino. La statua al Conte Verde in piazza Palazzo di Città ricorda appunto la sua partecipazione alla crociata contro turchi e bulgari. Fu una decisione presa sull’onda dell’entusiasmo e del fervore determinato dalle notizie che filtravano in Europa sull’espansione turca a danno dell’Impero bizantino e anche per la stretta parentela che univa Amedeo al cugino Giovanni V Paleologo prigioniero dei bulgari. Il Conte conquistò Gallipoli sullo stretto dei Dardanelli e la restituì ai bizantini dopo aver liberato Giovanni V imperatore d’Oriente. L’ultimo viaggio del Conte Verde attraverso il valico del Moncenisio avvenne nel 1383 quando la sua salma (morì di peste durante l’ennesima campagna militare) fu portata a Lanslebourg scortata con tutti gli onori dai suoi cavalieri e da lì ad Hautecombe dove fu sepolto.

Filippo Re

“Teatri e teatrini”, curiosità e bozzetti nella Torino del ‘700 e ‘800

Sino al 9 settembre, nella Corte Medievale di palazzo Madama

Una curiosità: il ventaglio (pergamena dipinta ad acquerello e stecche in avorio) che raffigura il Teatro Regio e il Teatro Carignano (Arlecchino e Balanzone in scena), nelle sue due facce, con i palchi e i nomi degli occupanti nella stagione teatrale del 1780 – 1781, una preziosa fonte di reddito, i posti centrali, più costosi, vengono occupati stabilmente dalle famiglie aristocratiche. È uno dei quaranta oggetti che compongono, nella Corte Medievale di Palazzo Madama (sino al prossimo 9 settembre, gli appassionati di teatro dovrebbero farci la fila), la mostra “Teatri e teatrini. Le arti della scena tra Sette e Ottocento nelle collezioni di Palazzo Madama”, con l’affettuosa quanto lodevolissima cura di Clelia Arnaldi di Balme (“un’idea avuta un paio di anni fa, la ricerca nei depositi e negli archivi e la difficoltà a farmi largo in mezzo a tutto un materiale che amavamo rimettere sotto gli occhi del visitatore, le esigenze soprattutto delle scelte”), un mondo dell’arte dove non soltanto hanno trovato posto le grandi regie e i nomi di certi divi, ma quanto per lunghi decenni, per secoli, ha interessato le messe in scena degli spettacoli (vicino a noi, un ricordo per tutti, la maniacalità di un Visconti o i nudi piani inclinati di uno Svoboda) che entravano nei raffinati teatri di corte e negli apprezzati teatrini di marionette. Poi, accanto, in un generale allestimento di ampio respiro (vivaddio, felice anche per l’impiego di teche e supporti trasportabili che potrebbero essere impiegati anche in successive occasioni, in ossequio alla sacrosanta legge del finché si può non buttiamo niente alle ortiche), il dipinto di Giovanni Michele Graneri a rappresentare l’interno del Regio torinese, anno di grazia 1752, durante la rappresentazione del “Lucio Papirio”, con gli attori cantanti e l’orchestra in primo piano, un’illusione di archi di colonne di fughe incalcolabili che certo dovevano afferrare l’attenzione dei nobili e dei borghesi affacciati dai palchi e seduti nelle poltrone di platea, allietati durante la rappresentazione di camerieri che offrivano frutti e bibite: con buona pace di chi oggi storce il naso se in certe nostre sale teatrali circolano bibite o acque minerali.

Opere la cui sistemazione storica e bibliografica la si deve allo studio e alla passione e alla fatica quotidiana di Mercedes Viale Ferrero (1924 – 2019), figlia di quel Vittorio Viale, forse troppo presto dimenticato, che fu direttore del Museo Civico d’Arte Antica di Torino dal 1930 al 1965 e per il quale il direttore Giovanni Carlo Federico Villa, nel compimento del suo terzo anno di guida, facendo gli onori di casa, ha entusiastiche parole di apprezzamento: “Io non esito a definire Viale il più grande direttore di Musei Civici del suo tempo e non solo, non italiano ma a livello europeo, per cui sarebbe ora che le autorità e il pubblico torinese prendessero finalmente coscienza della grandezza di un tale studioso.” Nel 2024 si celebra il centenario della nascita di Mercedes Viale e a lei e alla sua indimenticabile passione per la storia del teatro è dedicata la mostra.

Il principe e l’impresario che agivano nel Settecento erano consapevoli che i cambi di scena, definiti “comparse”, per il maggior divertimento del pubblico dovevano essere “molte, meravigliose e varie”, e che non soltanto le musiche e i testi determinavano il successo di un’opera, le scenografie dovevano rispecchiare originalità e le macchine teatrali dovevano spingere all’ammirazione, opera di persone ingaggiate per una unica stagione, con contratti rinnovabili ma non fissi: anche se i puristi guardassero a esse come a un motivo di distrazione dall’ascolto della musica e finissero con quasi ripudiarle. Innegabile che la grandezza delle costruzioni, nel pubblico come nel privato, dovesse confrontarsi con un sempre precario sistema economico. “Nell’Ottocento – ricorda Arnaldi di Balme – gli spettacoli presero a circolare in un tessuto teatrale allargato, in cui la stessa opera veniva rappresentata contemporaneamente in sale e città diverse. I teatri non erano più privilegio di pochi, si moltiplicavano numerosi sul territorio ed erano affollatissimi. Per il carnevale del 1858 a Torino si diedero ben 28 opere in musica in cinque teatri; nel 1860 si rappresentarono 46 opere in nove sale. E la città contava allora circa 200.000 abitanti.”

Atri vastissimi, palazzi, archi di trionfo, studi di scultori e progetti di cucine, sepolcri e alcove e antri delle streghe, giardini intesi come intrattenimento, selve come luoghi di smarrimento e boschetti ad ospitare solitudini e confidenze: questo e molto altro è progettato e rappresentato nei disegni che si snodano al centro e lungo la Corte Medievale. Sono la prova della lunga attività che accompagna la preparazione della stagione che si apriva il 26 dicembre e si concludeva con la fine del Carnevale. Con la scelta dei libretti, l’ingaggio degli scenografi che tra luglio e agosto dovranno presentare al direttore di scenario i bozzetti delle tante trasformazioni richieste, la realizzazione delle scene e il montaggio in autunno: il giorno della prova è il 26 novembre, un mese esatto prima della serata inaugurale, coreografo compositore cantanti e ballerini fanno prove separate, finché tutti si ritrovano insieme tre giorni prima dello spettacolo per le prove generali: e si va in scena. Dai bozzetti di Filippo Juvarra (uno per tutti, la “veduta romana” del 1722, in occasione delle feste ideate e coordinate dallo stesso per le nozze di Carlo Emanuele III con Anna Cristina Luisa di Sultzbach, per la rappresentazione del “Ricimero” nel teatro del principe di Carignano prima e poi nel teatrino del Rondò con cinque recite riservate alla corte) ai disegni dei fratelli Galliari, Bernardino Fabrizio e Giuseppe (uniche generazioni a collaborare con il Regio per tutta la seconda metà del Settecento, di quest’ultimo il “Magnifico padiglione di Annibale”, penna e acquerello su carta del 1792, per la scena VII di “Annibale in Torino” musicato da Nicola Zingarelli, dove i Taurini sono i più moderni Sabaudi stretti attorno al loro sovrano nel timore dei recenti eventi successi in Francia), a quelli di Pietro Gonzaga e Pietro Liverani, questi soltanto quindicenne scenografo titolare del Teatro di Faenza, realizzazioni per i teatri di Torino, Milano e Parma dal 1750 a tutto il secolo successivo, dove ogni elemento è invenzione, precisione, ricerca di una bellezza che potesse poi trovare il proprio spazio in palcoscenico.

Anche il teatro di marionette era una forma di spettacolo molto amata, soprattutto nel corso del XIX secolo. In mostra cinque fondali per teatrini tra i quindici giunti a palazzo Madama nel 1984 dalla collezione di Mario Moretti, esperto d’arte, di musica e di teatro, da lui tolti dalla polvere di un deposito, acquistati e restaurati. Ancora montati sulle bacchette originali, alcuni ancora a mostrare le giunture di tela per l’adattamento a questo o a quel palcoscenico, provengono dal teatro detto di San Martiniano in via San Francesco d’Assisi a Torino (nelle vicinanze di piazza Solferino), presso la chiesa omonima oggi non più esistente, luogo d’attività della compagnia Lupi – Franco, fondali che tratteggiano attualità storica e ideali risorgimentali, rappresentazioni orientali che incontrano il gusto del pubblico, “Reggia egiziana” di Giovanni Venere o la “Reggia persiana” di Giuseppe Toselli, entrambe negli anni 1840 – 1844, anni in cui collaborano con Giuseppe Morgari in San Martiniano, spettacoli sconosciuti ma legati alla piacevolezza di un mondo favoloso e misterioso.

Elio Rabbione

didascalie:

Giovanni Michele Graneri (Torino 1708 – 1762), “Interno del teatro Regio”, 1752, olio su tela, Palazzo Madama; Bernardino (Andorno 1707 – 1791) e Fabrizio Galliari (Andorno 1709 – Treviglio 1790), “Luogo magnifico terreno nella reggia di Alessandro” (per “La vittoria d’Imeneo” rappresentato nel 1750 al Teatro Regio di Torino per le nozze di Vittorio Amedeo III di Savoia), 1750, disegno a penna, pennello e inchiostro bruno, acquerello grigio su cartoncino, Palazzo Madama; Giuseppe Toselli (Peveragno, attivo dal 1835), “Reggia Persiana”, fondale per teatrino di marionette San Martiniano di Torino, 1840 – 1844, Palazzo Madama; “Ventaglio pieghevole con interno del Teatro Carignano”, 1780, pergamena dipinta ad acquerello, avorio, Manifattura torinese, Palazzo Madama.