STORIA- Pagina 24

Erminia Caudana e Amerigo Bruna. Pionieri del restauro per la Biblioteca Nazionale

In occasione delle Giornate Europee del Patrimonio 2024sabato 28 settembre la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino ospita presso la Sala storica l’incontro dal titolo:

 Erminia Caudana e Amerigo Bruna. Pionieri del restauro per la Biblioteca Nazionale,  28 settembre 2024 ore 10.30 presso  Biblioteca Nazionale Universitaria, Sala storica – Piazza Carlo Alberto 3, Torino

Evento è dedicato alla restauratrice Caudana e al suo allievo Bruna, a cui si deve il recupero di centinaia di volumi gravemente danneggiati dall’incendio che colpì l’antica sede della Biblioteca, in via Po, nella notte tra il 25 e il 26 gennaio 1904.

All’indomani dell’incendio, la necessità di salvare il patrimonio librario scampato alla distruzione portò la Biblioteca Nazionale a contribuire fattivamente all’evoluzione delle tecniche di conservazione e restauro.

L’antico laboratorio, il primo istituito in una biblioteca pubblica statale, è oggi parzialmente ricostruito con arredi e attrezzi originali nello spazio espositivo della Sala storica.

In questa occasione la sala verrà intitolata alla memoria di Erminia Caudana, per il ruolo decisivo della restauratrice nella storia novecentesca dell’Istituto e per la preziosa eredità che ci ha consegnato.

PROGRAMMA

Saluti istituzionali

Guglielmo Bartoletti, Direttore Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino

Fabrizio Antonielli d’Oulx, Presidente Associazione Amici Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (ABNUT)

Intervengono

Giovanni Saccani, Presidente Società Dante Alighieri – Comitato di Torino, già funzionario bibliotecario BNU Torino

Andrea Maria Ludovici, archivista e Amministratore delegato CulturAlpe s.c.

Paola Boffula Alimeni, papirologa e tecnica del restauro

Monica Bruna, donatrice ed erede di Erminia Caudana e Amerigo Bruna

Riccardo Lorenzino, Direttore editoriale e progetti museali Hapax Editore

A seguire visite guidate alla Sala storica condotte da Chiara Clemente e Vera Favro, archiviste e bibliotecarie CulturAlpe s.c.

Ingresso gratuito fino a esaurimento posti.

in allegato locandina.

Per informazioni:

bnuto.cultura.gov.it

bu-to.eventi@cultura.gov.it

www.abnut.it/

info@abnut.it

Chieri, qui abitò Carlo VIII

Lo ospitò per alcuni giorni la nobile famiglia chierese dei Solaro, nel loro palazzo in via Vittorio Emanuele II angolo via della Pace. Carlo VIII, re di Francia, fu accolto con tutti gli onori e con una grande festa alla porta del Vajro, l’attuale Porta Torino, seguito da soldati, nobili e vescovi. Un soggiorno da re a Palazzo Solaro. Era il 5 settembre 1494. A dargli il benvenuto mercanti, banchieri, religiosi, artisti e poeti tra i quali Leonetta Tana, la bella figlia del nobile chierese Bartolomeo Tana che gli dedicò alcuni versi in francese…“o re cristianissimo, risorta gloria di Carlo Magno, noi supplichiamo la potenza divina…”. Attraversata la via Maestra il sovrano francese, che aveva solo 24 anni, entrò nel palazzo di Giovanni Solaro, il più lussuoso edificio della città mentre i vescovi furono ospiti del convento di San Domenico, nei pressi di Casa Solaro che nella prima metà del Settecento diventerà la sede del Ghetto ebraico. Il Re fece tappa a Chieri, che faceva parte del Ducato di Savoia, per ottenere prestiti dai ricchi banchieri locali a sostegno della sua spedizione militare nella penisola mirata alla conquista del Regno di Napoli. Il Re di Francia soggiornò in città per quattro giorni e furono anche giornate scandite da frequenti incontri amorosi con le donne chieresi nonostante il sovrano fosse brutto, molto piccolo e balbuziente. Quando tornò a Chieri l’anno successivo scrisse ben 25 lettere su temi politici. Ma la fortuna non l’aiutò, anzi, la sconfitta militare del Re fu un brutto colpo anche per Chieri. Il sovrano non poté restituire i fondi ricevuti in prestito gettando Chieri e gli stessi Solaro in una grave crisi finanziaria. Il 9 settembre del 1494 le truppe francesi lasciarono Chieri dirette ad Asti lasciando nella città alle porte di Torino le tracce del passaggio del monarca. Sulla facciata di Palazzo Solaro in via Vittorio Emanuele II angolo via della Pace una lapide murata in marmo bianco ricorda l’evento. Si vede la corona reale dei Valois con i tre gigli di Francia e un’iscrizione in lingua provenzale con  caratteri gotici in cui si legge “in questa casa ha dimorato Carlo, re dei Galli”.
La prima parte del Cinquecento fu uno dei periodi più tormentati nella storia del Ducato Sabaudo e il Piemonte fu teatro di scontri continui tra le due potenze dominanti dell’epoca, la Francia e l’impero spagnolo e Chieri si trovò più volte coinvolta negli eventi bellici. La divisione della penisola in ducati, repubbliche e regni scatenò ben presto il desiderio di espansione dei sovrani europei tra i quali, appunto, Carlo VIII che nel 1494 scese in Italia per tentare di occupare il Regno di Napoli sulla base di una pretesa dinastica. Il sovrano arrivò a Torino il 5 settembre ospite della reggente Bianca di Savoia che proclamò la neutralità del Ducato di Savoia pur concedendo il passaggio ai soldati francesi. Da Torino Carlo VIII cavalcò a Chieri e qui si fermò alcuni giorni. Prima di puntare ad Asti fece una capatina a Vezzolano. Secondo le cronache del tempo pare che non solo sia entrato nella storica Abbazia ma abbia pranzato nel refettorio insieme ai frati di Santa Maria. Carlo VIII è rappresentato nel trittico sull’altare dell’abbazia, inginocchiato, con i gigli di Francia sull’abito regale. Vicino a lui, la Madonna in trono e Sant’Agostino. Quattro anni dopo, a soli 28 anni, Carlo VIII morì per un banale incidente nel castello di Amboise. Batté la testa contro l’architrave in pietra di una porta mentre passava a cavallo nel parco.
Un bel libro per conoscere ogni particolare sul soggiorno del re francese a Chieri è quello scritto da Pier Paolo Falcone dal titolo “Un Re di Francia a Chieri, Carlo VIII” del quale però si trovano solo tre copie, nella biblioteca civica di Chieri, nell’Archivio di Stato a Torino e presso l’associazione culturale chierese Carreum Potentia.
                                                                                                 Filippo Re
Due fotografie di Palazzo Solaro a Chieri + la lapide in marmo che ricorda il soggiorno di Carlo VIII in città

Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia

Breve storia di Torino

1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi

 

3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia

Prosegue in questo terzo articolo il mio intento di raccontare storicamente le vicissitudini della nostra bella Torino. La volontà è quella di riproporre in una serie di testi gli avvenimenti, i fatti e i personaggi che, a partire dalle origini taurine, si sono succeduti e hanno reso il capoluogo pedemontano quello che è oggi. L’urbe ha subito notevoli modifiche nel corso del tempo, cambiamenti architettonici, urbanistici, politici e sociali, la città si è evoluta insieme all’Italia e all’Europa, talvolta occupando una posizione preminente nello svolgimento degli eventi, talvolta rimanendo “dietro le quinte” ad osservare silenziosa il mondo che cambiava.
Proseguo nel mio impegno dunque, intrattenendovi oggi, cari lettori, sulle tematiche riguardanti il caotico periodo postcarolingio.
Siamo nell’anno 887: muore Carlo il Calvo, l’Impero di Carlo Magno si disgrega, i signori locali vogliono disperatamente la corona. Arnolfo di Carinzia è proclamato re dei Franchi orientali, Oddone di Parigi diviene re dei Franchi occidentali, mentre Berengario del Friuli e Guido II di Spoleto si contendono la corona di re d’Italia.
Questo l’intricato “background”. Vediamo ora di approfondire un po’ la questione.
L’Impero carolingio è giunto al termine, il potere un tempo di Carlo Magno ora è nelle mani di conti, duchi e marchesi, aristocratici a capo di ampi territori comprendenti sia le zone rurali sia le città.

La stabilità politica è tuttavia qualcosa di apparentemente irraggiungibile: tali regni risultano caotici ed effimeri, i signori sono costantemente occupati a rivaleggiare tra loro per il Regno Italico, ma nessuno è destinato a detenere il potere a lungo.
In questo clima di instabilità generale Torino rimane ai margini, adeguandosi agli avvenimenti che interessano non solo la regione specifica, bensì tutta la penisola italiana.
Dopo la caduta dell’Impero la città subalpina cambia rapidamente “proprietario”, alla morte di Suppone II la città e le zone annesse passano dapprima sotto la giurisdizione di Carlo il Grosso (887), poi di Berengario del Friuli (888), a sua volta sconfitto da Guido di Spoleto.
Quest’ultimo, determinato a mantenere la propria podestà, decide di concentrare le forze armate nel confine nordoccidentale del regno, dando così vita ad una nova unità territoriale, la “marca di Ivrea”, una sorta di principato di frontiera che comprendeva il vasto territorio del comitato di Torino fino alle coste della Liguria. Guido affida il controllo della zona ad un suo fedele sostenitore, il burgundo Anscario, la cui discendenza amministrerà la regione per lungo tempo. Nell’anno 899 è Adalberto ad amministrare la marca, assicurandosi il titolo di marchese – “reggente di una marca”- ; egli varia anche le alleanze, sicuro di schierarsi a sostegno di Berengario del Friuli, che si era proclamato re agli inizi dell’anno 888, nella capitale Pavia.

Sul terminare del IX secolo, si assiste al fenomeno delle “seconde invasioni”: gruppi di genti agguerrite e violente giungono da est, da sud e da nord, si tratta dei Normanni – anche noti con l’appellativo “Vichinghi”- aggregati tribali che saccheggiano le coste atlantiche, vi sono poi gli Ungari, che tengono sotto costante attacco Germania e Italia, e infine i Saraceni, dediti a scorrerie navali nell’area del Mediterraneo.
Alle vicissitudini per il potere, si aggiunge il pericolo degli invasori, particolare preoccupazione destano appunto i Saraceni, guerrieri musulmani provenienti dalla Spagna e dal Nordafrica che avevano valicato le Alpi e depredavano ora la marca di Ivrea. In seguito a tale incursione, diversi monaci sono costretti a rifugiarsi all’interno delle mura cittadine: è in questo periodo che sorge il Santuario della Consolata, dedicato alla Vergine e ancora oggi una delle chiese più note di Torino. (La chiesa ha origini antichissime, e sorge sui resti di una piccola chiesa paleocristiana).
Gli Ungari a partire dall’anno 898 oltrepassano le Alpi e attaccano la marca friulana, fino a raggiungere, negli anni successivi, Vercelli e i pressi di Pavia.
Accade poi la morte di Anscario (940), seguita dalla ritirata di Berengario di Ivrea in Germania, dove ottiene la protezione di Ottone I, nuovo imperatore. Nel 950 Berengario fa ritorno per sconfiggere i nemici e per riorganizzare la marca di Ivrea in tre marche distinte, ciascuna affidata ad una famiglia: il Piemonte meridionale e la Liguria vengono affidati al marchese Oberto, ad Aleramo spetta invece la parte orientale della regione, con il Monferrato, e infine la nuova marca di Torino spetta ad Arduino, detto il Glabro. Intanto, nel 962, Ottone I scende in Italia, depone Berengario e si fa incoronare imperatore dal papa.
Ottone e i suoi discendenti controllano il Regno italico grazie alla forza degli eserciti, tentando a loro volta di sconfiggere i signori locali, assoggettandoli alla propria volontà. In questo turbolento succedersi di avvenimenti, alcune figure spiccano dalla massa per importanza e preminenza, tra queste vi è sicuramente Arduino, marchese di Torino, capostipite degli Arduinici. Abbiamo sue notizie a partire dal 945, epoca in cui viene nominato ancora come conte, già insediato a Torino, in una fortezza vicina alla porta occidentale della città, abitazione che fungeva da quartier generale per gli scontri armati contro i Saraceni.
Sono tuttavia le cronache di Novalesa a fornirci di diverse informazioni riguardanti Arduino: in questi testi egli è descritto come borioso, avido, “lupo affamato travestito da pecora”. Tuttavia, al di là del giudizio dei monaci adirati perché il conte si era rifiutato di restituire al clero alcuni possedimenti terrieri, Arduino si dimostra un soldato capace e un politico intraprendente.

Tra il 961 e il 962 il conte è quasi certamente coinvolto nel complotto a favore di Ottone I, ed è proprio grazie a queste gesta che ottiene il rango di marchese, tuttavia è bene sottolineare che, nonostante tale avvenimento, i successori di Arduino, gli Arduinici, mantengono con l’Imperatore rapporti sempre ambigui.
Altra figura di spicco è Olderigo Manfredi, imparentato con il marchese di Canossa, sposato con Berta degli Obertenghi, signori della Liguria e del Piemonte meridionale. Il nuovo marchese consolida la propria supremazia attraverso una stretta alleanza con la Chiesa, sodalizio consolidato grazie all’edificazione di diverse abbazie – da lui amministrate- tra Caramagna, Susa e Torino. Durante il suo regno la diocesi di Torino è sotto la guida di Landolfo, ex cappellano dell’Imperatore Enrico II di origini germaniche e dalle spiccate doti amministrative; proprio al vescovo si deve la fondazione e il restauro di diverse chiese situate nelle campagne, il sorgere di questi nuovi centri religiosi favorisce la gestione delle terre e regala linfa vitale ai villaggi delle zone rurali, quali Chieri, Piobesi, Rivalta e Cavour.
Non trascorre poi molto tempo prima che si verifichi una nuova lite tra i grandi signori del regno, ciascuno bramoso di arraffarsi il potere sul Regno Italico. La situazione precipita quando i “milites minores” insorgono a Milano contro l’arcivescovo: Olderico Manfredi interviene nella disputa e rimane ucciso nei combattimenti nel 1034. La moglie Berta eredita dunque il controllo della marca di Torino e subito si assicura di combinare dei matrimoni per le tre figlie. Adelaide sposa il duca Ermanno di Svevia, Ermengarda invece viene concessa al duca Ottone di Schweinfurt ed infine la più piccola, Berta, viene maritata con un rampollo della casa degli Obertenghi. È ora dunque di trattare di un’altra personalità emergente, proprio la primogenita di Berta, la contessa Adelaide, con cui la dinastia arduinica tocca l’apice del successo, grazie anche all’attenta e acuta amministrazione della marca di Torino.

Due volte vedova, Adelaide si unisce in terze nozze ad Oddone di Savoia, da cui ha diversi figli, tutti intelligentemente promessi a personalità delle più rilevanti famiglie nobiliari. Di lei sappiamo che era ben consapevole delle proprie doti e della propria posizione di preminenza, inoltre pare fosse gelosa del suo potere ma anche abile nell’attitudine del comandare.
L’importanza della figura della contessa emerge tuttavia successivamente, durante i decenni centrali del secolo XI, durante i moti riformisti, quando il sistema governativo sostenuto da Ottone I viene messo in discussione e Impero e Chiesa Riformista iniziano a scontrarsi. Adelaide, fervente credente e sostenitrice di molte idee dei riformisti – che condannavano la simonia e il concubinato ecclesiastico- si trova improvvisamente tra due fuochi: Enrico IV, l’Imperatore, nonché marito di sua figlia Berta e Matilde contessa di Toscana, con cui era imparentata non troppo alla lontana, calorosa sostenitrice dei riformisti.
Adelaide riesce a districarsi e appiana la disputa, ponendosi come garante per un accordo tra le due parti.
La contessa per tutta la vita reclama e detiene i propri diritti, anche quando questi vengono attaccati dal vescovo che la vuole privare di alcuni suoi possedimenti.
Adelaide è una delle tante figure femminili di cui è fatta la Storia, una sorta di femminista che non necessita di tale etichetta per dimostrare la propria forza e determinazione.
Ancora una volta c’è da imparare dal passato. Ancora una volta Torino risulta fonte d’ispirazione.

Alessia Cagnotto

Il Consiglio comunale vuole valorizzare la figura di Cavour

Il Consiglio comunale ha approvato all’unanimità una mozione che chiede di portare alla conoscenza del grande pubblico i percorsi cavouriani e lo stretto legame che lega la Città di Torino all’opera dello statista piemontese e alla città di Santena.

Nel dettaglio, il documento presentato dalla consigliera del Partito Democratico, Caterina Greco, impegna Sindaco e Giunta comunale a mettere in campo un’adeguata progettualità per ricordare lo statista, anche con interventi che siano pensati ed elaborati in collaborazione con la Fondazione Camillo Cavour, la Città di Santena e Turismo Torino e tutti gli enti e le associazioni che in qualche modo ne portano il nome o si rifanno al suo operato.

Nel presentare la mozione in Sala Rossa, Caterina Greco ha ricordato come Cavour sia stato figura indiscussa del Risorgimento italiano, universalmente riconosciuto come il tessitore principale della brillante operazione che portò i Savoia e il piccolo Regno di Sardegna a diventare pietra miliare dell’unificazione del nostro Paese.

Ma il tempo è passato inesorabile e uno degli uomini più importanti nella storia d’Italia, politico navigato e fine stratega, viene sempre meno ricordato e celebrato. Per questo la consigliera ritiene si debbano valorizzare e pubblicizzare adeguatamente le opere, i percorsi, la passione per la cucina e i prodotti tipici del territorio di Camillo Benso, conte di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella.

Guercino, ultimi giorni: “più di qualsiasi altro fosse nato Pittore, e fatto dalla Natura”

Nelle sale di Palazzo Chiablese, sino al 15 settembre 

Più di cento opere, tra disegni e oli, provenienti da oltre trenta importanti musei e collezioni – ad iniziare da quell’”Autoritratto” introduttivo, un uomo di quarant’anni fiero di (rap)presentarsi elegante nel proprio abbigliamento che sottolinea il prestigioso status sociale, esempio raro lontano dal seguire la produzione senza posa, un po’ troppo spavalda, di un Rembrandt ad esempio, ricavato dalla Schoeppler Collection londinese: e poi dai Musei di Cento, la città natale, Genova con i Musei di Strada Nuova e Firenze con Uffizi e Pitti, dai Musei Reali di Torino, che per l’artista hanno un vero e proprio culto, e Modena e Bologna, dalla Galleria Borghese di Roma al Monastero di San Lorenzo all’Escorial di Madrid alla Fondazione Cavallini Sgarbi di Ferrara – per ospitare nelle sale torinesi di palazzo Chiablese sino al prossimo 28 luglio la vita e il percorso artistico e il successo di uno degli artisti tra i più acclamati dell’arte seicentesca, Giovanni Francesco Barbieri (1591 – 1666) detto il Guercino, per via di quell’imprudenza che qualcuno fece vicino alla sua culla: “ci fu chi vicino a lui proruppe d’improvviso in grido così smoderato e strano che il fanciullo, svegliatosi pieno di spavento, diedesi a stralunar gli occhi per siffatta guisa che la pupilla dell’occhio destro gli rimase travolta e ferma per sempre nella parte angolare”, come tramanda il biografo.

Curata da Annamaria Bava dei Musei Reali di Torino e da Gelsomina Spione dell’Università degli Studi di Torino – Dipartimento Studi Storici, la mostra “Guercino. Il mestiere del pittore” è suddivisa in dieci Sezioni – i fondali di un rosso e di un blu intensi lasciano emergere con grande importanza ogni opera: magari con qualche mancanza di luce in alcune parti più laterali o inferiori, magari con qualche testo esplicativo posizionato troppo in basso rispetto alla tela dentro cui cade comodamente l’occhio del visitatore -, la mostra guarda non soltanto ad una produzione che non può fare a meno della presenza dei maestri e dei colleghi coevi (Annibale e Ludovico Carracci, Scarsellino, Agostino Tassi, Domenichino, Guido Reni, Cesare Gennari) ma pone al centro dell’esposizione, in un cammino ben concatenato, il mestiere del pittore nel Seicento: i sistemi di produzione, l’organizzazione della bottega, le dinamiche del mercato e delle committenze, i soggetti più richiesti. Come non può fare a meno della figura di Paolo Antonio Barbieri, fratello dell’artista e pittore egli stesso, specializzato nelle nature morte, collaboratore nell’arte (“L’ortolana”, da una collezione privata, esempio di collaborazione, il personaggio del Guercino a contare l’incasso dell’uno, pronto l’altro a predisporre la bilancia e gli asparagi, i grappoli d’uva e i fichi, i funghi e le prugne) e nell’andamento della vita di ogni giorno, grazie al Libro dei conti arrivato sino a noi (è custodito a Bologna presso la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio), avviato nel 1629, in cui sono scrupolosamente registrati il titolo onorifico e il nome dei committenti, la provenienza, i soggetti dei dipinti e la spesa totale convertita da ducatoni in scudi, riassumendo ad ogni fine anno il conteggio del denaro riscosso per i quadri, le spese per la casa e il mantenimento della famiglia.

Il libro ci catapulta felicemente – e la mostra ne offre piena e godibilissima testimonianza – in un’epoca lontana, nelle stanze del lavoro, nelle necessità, nelle tariffe di questo e di quell’artista, legate alla celebrità e al successo, in quelle committenze che più o meno annualmente numerose arrivavano dai privati e dal mondo religioso, dai borghesi e dai nobili, dai pontefici: “Dal Libro emerge l’ampiezza della produzione dell’atelier e il suo sistema per definire il prezzo delle opere con il ricorso a un tariffario fisso: una figura intera costava 100 ducatoni, una mezza figura 50 e una testa 25, utilizzando una programmatica impostazione economica che poteva però subire degli adattamenti in base ai committenti e agli intermediari e che varia notevolmente nel corso della carriera artistica del Guercino. Incideva sul prezzo delle opere anche il materiale e la scelta dei colori utilizzati, alcuni dei quali particolarmente costosi e prestigiosi come le lacche e il blu di lapislazzuli”, illustrano le curatrici.

Importante, nel 1616, mutando le raffinatezze legate alla rappresentazione del paesaggio (un esempio per tutti, il “Concerto campestre”, un olio su rame dalla pregevole composizione, la brigata di giovani musicanti e le presenze femminili da un lato e la natura a essere protagonista dall’altro, tra il fiabesco e il realistico), fu l’apertura dell’”Accademia del nudo” da parte del Guercino, divenuta presto punto di riferimento per molti giovani artisti: capolavoro di quegli anni (1619) è il “San Sebastiano curato da Irene”, proveniente dalla Pinacoteca di Bologna, commissionato da Jacopo Serra, cardinale legato di Ferrara e raffinato mecenate del pittore, promotore di varie opere (capace di “relegare” il pittore nella propria casa, per cui questi si sentì obbligato a rivolgersi in alto nella speranza di poter proseguire verso la corte di Mantova), opera eccelsa di “straordinaria potenza anatomica e scenica”, dove tra luci e ombre dal gruppo di personaggi fuoriesce potente il corpo ferito del santo.

Come importantissimo – in una Cento che in quegli anni è un vivace centro, economicamente e culturalmente, altresì forte della sua posizione strategica tra Bologna e Ferrara – fu l’incontro con padre Antonio Mirandola, arrivato nella piccola città nel 1612 e ponte indiscutibile tra il pittore e i notabili che avevano iniziato a conoscerlo e ad apprezzarlo affidandogli numerosi incarichi. Fu grazie alla mediazione del Mirandola se Guercino entrò in stretto contatto con la prestigiosa famiglia dei Ludovisi: tra il 1617 e il 1618 il pittore eseguirà per il cardinale Alessandro, già nunzio apostolico presso la corte di Torino ed eletto pontefice tre anni dopo con il nome di Gregorio XV, quattro grandi tele, riunite insieme oggi per la prima volta in una delle sale del Chiablese dopo quattrocento anni: “Lot e le figlie” proveniente da San Lorenzo a El Escorial, “Susanna e i vecchioni” prestata dal Prado, la “Resurrezione di Tabita” dalle Gallerie degli Uffizi-Palazzo Pitti e “Il ritorno del figliol prodigo”, di casa nei nostri Musei Reali. Opere da cui appieno emerge il talento dell’artista, la sua padronanza delle forme e del colore, la sua grande teatralità, opere alle quali Ludovico Carracci, chiamato a giudicarle e a valutarle, “attribuirà una valutazione molto alta, degna di un pittore esperto”. Opere, e non soltanto quelle, che porteranno Guercino a Roma, sempre più sotto l’ala protettrice del nuovo pontefice, per occasioni di incarichi importanti presso la corte papale e l’intera nobiltà della capitale.

Da Torino, dalla chiesa di San Domenico, proviene uno dei capolavori della mostra, la “Madonna del Rosario” realizzata nel 1637, omaggio del Ludovisi a Carlo Emanuele I di Savoia, da circa sessant’anni non più spostata dalla sua sede abituale e con emozione posta in extremis nel percorso della mostra. In un perfetto gioco di diagonali, con la Vergine al centro, e un gioco di santi e di angeli e di popolo, la “Madonna” torinese è uno degli esempi più significativi della potenza scenografica e di quell’incanto barocco che hanno contraddistinto gran parte dell’attività artistica del pittore. Come non si dovrà che ammirare, sul finire dell’esposizione, meravigliosamente posta nel medesimo discorso della costruzione scenografica, della pomposa incisività, della maestria nel predisporre e nel “descrivere” i vari personaggi chiamati a popolare l’ambiente, la tela “Damone e Pizia” (1632), proveniente dalla collezione Rospigliosi di Roma, un racconto di congiure e di clemenza sotto la tirannia di Dionisio siracusano che pare esserci trasmesso dall’occhio colloquiante con noi del soldato posto nella parte inferiore della scena, in una suggestivamente cromatica bellezza di abiti e di copricapi e di armature che riportano lo spettatore di oggi all’epoca del Guercino. Quasi un esercito di figure, un esercito d’arte che lascia il visitatore “maravigliato”, autentici colpi d’occhio che fanno parte del secolo della “maraviglia”: allineandoci a quanto scrisse Carlo Malvasia, nel suo “Felsina Pittrice” del 1678: “Sono anche mostruose, e formidabili le falangi de disegni che schierandosi più de gli altri ne più adorni gabinetti, sfidano coraggiosamente qual siasi mai stat’altra leggiadra penna (…), essendo anch’essi que’ del Sig. Gio. Francesco così spiritosi guizzanti, bizzarri, e galanti, che ben danno a conoscere quanto più di qualsiasi altro fosse nato Pittore, e fatto dalla Natura.”

Elio Rabbione

Nelle immagini: Guercino, “Autoritratto”, 1630-32, olio su tela, Londra, Schoppler Collection; “San Sebastiano curato da Irene”, 1619, olio su tela, Bologna, Pinacoteca Nazionale; “Il ritorno del Figliol prodigo”, 1617, olio su tela, Torino, Musei Reali – Galleria Sabauda; “Damone e Pizia”, 1632, Roma, coll. Rospigliosi; “Madonna del Rosario con i santi Domenico e Caterina da Siena”, 1637, olio su tela, Torino, San Domenico (proprietà del Fondo Edifici di Culto gestito dal Ministero dell’Interno).

Avviate le celebrazioni dell’ottantesimo della Repubblica partigiana dell’Ossola

Dal dieci settembre sono stati esposti sul balcone del municipio di Domodossola i drappi con i colori delle formazioni partigiane della val d’Ossola: verde per le divisioni Valdossola, Beltrami e Piave, rosso per la divisione Garibaldi e Redi e blu per la Valtoce. Sono stati srotolati nel corso di una cerimonia dal sindaco Lucio Pizzi che aveva al suo fianco i familiari dello storico Pierantonio Ragozza, recentemente scomparso. Un gesto simbolico di grande impatto che ha segnato l’avvio delle ricorrenze per gli ottant’anni della Repubblica partigiana dell’Ossola, la più nota e importante dei territori liberi durante la lotta di Liberazione in Italia. Il primo cittadino di Domodossola ha pronunciato parole molto chiare: “Vogliamo ricordare l’esperienza di autogoverno dei 40 giorni di libertà che valse una medaglia d’oro al valore militare, ribadendo che quei valori fondanti sono vivi più che mai. Per questo voglio riaffermare chiaramente lo spirito che ci ha guidati: noi siamo antifascisti, Domodossola e il territorio sono antifascisti, ci riconosciamo nel valore della Resistenza e non siamo disponibili ad accettare alcun tentativo di revisionismo”. Le iniziative sono proseguite mercoledì 11 alla Casa della Resistenza di Fondotoce con il convegno “Storia di un comandante che andò oltre i propri doveri, Attilio Moneta, colonnello tra i partigiani”. Tra i vari appuntamenti vi saranno giornate di studio, convegni, proiezioni video, libri, docufilm e concerti accanto all’inaugurazione del riallestimento della sala storica di Domodossola con l’intitolazione a Mario Bonfantini e alla consegna, il 4 ottobre alla scuola media Floreanini, del premio Repubblica partigiana dell’Ossola alla scrittrice Benedetta Tobagi. Il 6 ottobre è prevista la cerimonia ufficiale con relatore la storica Antonella Braga. Il 17 ottobre alle 20.45, alla Casa della Resistenza di Fondotoce si terrà la presentazione del documentario “La grande estate partigiana. Estate 1944: dalla formazione delle prime bande alle repubbliche partigiane, la storia di un’Italia che sceglie di resistere”. Il film è prodotto da Lutea e dall’associazione DomoMetraggi; saranno presenti il regista Marzio Bartolucci e l’autrice Arianna Giannini. Il 18 e 19 ottobre, sempre alla Casa della Resistenza, si svolge il convegno “Progetto e utopia. Repubbliche partigiane e zone libere nella resistenza italiana”. Venerdì 25 ottobre alle 17.30 la biblioteca Contini di Domodossola verrà presentata una nuova edizione de “Il paese del pane bianco” di Paolo Bologna con testimonianze sull’ospitalità svizzera ai bambini della repubblica dell’Ossola, a cura di Paolo Crosa Lenz. Nella stessa serata la presentazione del libro “Quarante jours de liberté. Histoire de la république d’Ossola” di Jean-Noël Wetterwald e del cortometraggio “I bambini del pane bianco” di Davide Casarotti. Sempre il 25 alle 21 in Collegiata si terrà un concerto con il civico corpo musicale di Domodossola.

La repubblica partigiana dell’Ossola

Nel periodo più buio della storia italiana, durante l’occupazione nazifascista dell’Italia del nord, la Repubblica partigiana dell’Ossola rappresentò il primo tentativo organizzato di rinascita democratica del paese. Per più di quaranta giorni, dal 10 settembre al 23 ottobre del 1944, oltre ottantamila cittadini furono i protagonisti del governo di quel vasto territorio all’estremo nord del Piemonte, al confine con la Svizzera, dandosi un ordinamento repubblicano e una legislazione che sarà in parte riproposta e rivalutata nella Costituzione italiana entrata in vigore il primo gennaio del 1948. La vicinanza con la Confederazione Elvetica consentì di seguire con interesse e attenzione le vicende di questo territorio libero anche da parte della stampa internazionale. Una storia, quella dei “quaranta giorni di libertà”, breve ma ricca di esperienze politico-sociali che trovarono poi un seguito ideale nei primi passi e nelle scelte della nuova Italia repubblicana. Nel territorio liberato dalle formazioni partigiane si trovavano 35 comuni con 85.000 abitanti. Nel giorno stesso dell’occupazione di Domodossola, il 10 settembre 1944, Dionigi Superti, comandante della divisione Val d’Ossola, insediò la giunta di governo. In breve tempo il nuovo governo diede prova dell’ampiezza dei settori sui quali intendeva intervenire. Non si limitò alla normale amministrazione, ma si mosse lungo linee profondamente innovatrici, riflettendo “una visione non municipale dei problemi”. Anche nella riorganizzazione del sistema giudiziario ogni provvedimento venne inserito in un progetto di ampio respiro che non solo rimosse la legislazione fascista ma affermò con chiarezza i principi democratici su cui intendeva fondarsi. In campo scolastico e pedagogico, grazie alla collaborazione di intellettuali antifascisti come Gianfranco Contini e Carlo Calcaterra, vennero sviluppati programmi molto avanzati, fondati su un ciclo iniziale di formazione comune a tutti e sulla successiva distinzione tra studi liceali e studi tecnico-professionali. In pratica vennero gettate le basi per molte riforme e anche la vita democratica fu molto intensa e partecipata. Molti progetti restarono sulla carta, data la brevità dell’esperienza maturata nella zona liberata. Sul finire dell’ottobre del 1944 la controffensiva di tedeschi e fascisti provocò la caduta della piccola repubblica dopo giorni di duri combattimenti. Alle 17.40 del 14 ottobre i fascisti entrarono in Domodossola e si trovarono di fronte una città semideserta, abbandonata da più della metà della popolazione. Molti per evitare rappresaglie fuggirono in Svizzera, varcando il confine. Proprio in quei giorni fu organizzata dal governo Provvisorio, e in modo particolare da Gisella Floreanini (nome di battaglia, Amelia Valli), commissario all’assistenza e ai rapporti con le organizzazioni di massa, un’importante operazione di salvataggio di 2500 bambini che, con alcuni treni, vennero inviati in Svizzera dove vennero accolti da centinaia di famiglie elvetiche che li nutrirono e accudirono come i propri figli. Le formazioni partigiane, invece, si divisero in tre spezzoni in val Divedro, in Val Formazza e in Valsesia. Molti ripararono oltre confine, altri continuarono la lotta armata. Quattro giorni dopo, lunedì 23 ottobre 1944, i “quaranta giorni di libertà” finivano anche se sarebbe per sempre restato, indelebile, il segno lasciato dalla “repubblica” dell’Ossola, certamente la più nota e prestigiosa delle 18 zone libere partigiane che ebbero vita tra estate e autunno 1944 in piena occupazione tedesca rappresentando, come disse il filologo e critico letterario Gianfranco Contini, nato a Domodossola, “un fatto civile di rara e non abbastanza sottolineata rilevanza”.

 Marco Travaglini

Una serata alla scoperta della luna alla Palazzina di Caccia di Stupinigi

Venerdì 13 settembre, ore 18.30

Per Diana. La luna sopra il cervo

Nei giorni di fine estate dedicati alla luna, il cielo diventa protagonista a Stupinigi in un evento eccezionale in programma venerdì 13 settembre, al tramonto, sulla terrazza della Palazzina di Caccia, verso il parco storico.

La serata alla scoperta della luna prevede un percorso nelle sale alla scoperta di storie, aneddoti e personaggi legati al tema dell’astronomia, come la principessa di Carignano, Giuseppina di Lorena Armagnac (1753-1797), moglie di Vittorio Amedeo di Carignano e nonna di Carlo Alberto: una donna straordinaria per i suoi molteplici interessi, tra cui l’astronomia, di cui la Palazzina conserva un ritratto nell’appartamento di Levante. Al termine della visita guidata, una “lezione di cielo” nel Salone d’Onore e infine, dalla terrazza, l’osservazione guidata della luna dai telescopi dello staff del Planetarioaccompagnata da un calice di vino e una friandise salata, a cura dell’associazione Tutela Baratuciat e Vitigni storici.

L’evento è organizzato dai Servizi Educativi della Palazzina di Caccia di Stupinigi in collaborazione con Infini.to-Planetario di Torino.

INFO

Palazzina di Caccia di Stupinigi

Piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi – Nichelino (TO)

Venerdì 13 settembre, ore 18.30

Per Diana. La luna sopra il cervo

Costo: 30 euro

Prenotazione obbligatoria

Info e prenotazioni: stupinigi@info.ordinemauriziano.it

Dal martedì al venerdì 10-17.30, entro il giovedì precedente la visita

www.ordinemauriziano.it

Cocconato d’Asti borgo d’Italia

Sabato e domenica la latteria del paese viene presa quasi d’assalto, fuori c’è la coda  perché c’è più gente del solito che la vuole comprare ad ogni costo.

È la famosa robiola di Cocconato d’Asti, unica nel suo genere. È una piccola produzione locale ma, se l’assaggi, ne mangi subito due o tre di fila…quasi come le patatine. Fresca e gustosa, gli amanti del formaggio l’adorano e, per trovarla appena fatta, si arrampicano fin qui, sulle colline di Cocconato d’Asti, diventato da pochi giorni uno dei borghi più belli d’Italia per il suo splendore paesaggistico. Ebbene sì, la grande notizia è proprio questa: il borgo è il decimo più bello d’Italia, non tanto per la robiola Coconà e per il tradizionale Palio degli asini ma per lo straordinario panorama che si gode da queste colline, per la storia, le tradizioni del luogo e per i suoi monumenti. Lo ha decretato la trasmissione di Rai 3 “Il Borgo dei Borghi” che, dopo un concorso nazionale, ha visto trionfare Tropea, borgo calabrese, seguita da Baunei in Sardegna e Geraci Siculo in Sicilia. A rappresentare il Piemonte c’era Cocconato d’Asti diventato appunto il decimo borgo più bello di tutta la penisola. Tanto di cappello.. dopo Tropea e altri borghi costieri che si affacciano sui mari più strabilianti del mondo, paesi senz’altro più grandi e più conosciuti di Cocconato e che d’estate sono invasi da migliaia di turisti. Ma Cocconato, 1400 abitanti, noto come “La Riviera del Monferrato”, non è da meno e si fa bello soprattutto adesso con il fiorire della primavera. A 500 metri di altezza dista circa 30 chilometri da Asti e 50 da Torino. La storia di questo paese è strettamente legata a quella dei Conti Radicati, la stessa famiglia proprietaria del castello di Passerano Marmorito, distante pochi chilometri da Cocconato. Da vedere, come edifici e monumenti di interesse storico e artistico, ci sono la chiesa della Santa Trinità con una tela di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, la chiesa di Santa Caterina del Quattrocento, una farmacia settecentesca, il palazzo comunale, Palazzo Martelletti, residenza nobiliare del Trecento, e la torre del Castello medievale.

Eretto in cima alla collina nel X secolo, il maniero fu distrutto durante le lotte tra Guelfi e Ghibellini, fu ricostruito alla fine del XV secolo e nuovamente demolito nel Cinquecento. Rimase solo la torre merlata dalla quale è possibile ammirare, nelle giornate più luminose, la catena delle Alpi e la fisionomia di alcune città del Piemonte. A questo punto non ci resta che attendere la zona gialla e poi una gita a Cocconato è più che consigliabile..                                       Filippo Re