STORIA- Pagina 19

La genialità senza tempo di Walt Disney

La mattina del 15 dicembre 1966, dieci giorni dopo il suo sessantacinquesimo compleanno, moriva Walter Elias Disney Junior.

Era l’uomo dei sogni, l’artista visionario che tutto il mondo conobbe con il nome di Walt Disney, il papà di Topolino e di tanti altri personaggi. Disney amava dire che “l’unico modo per iniziare a fare qualcosa è smettere di parlare e iniziare a fare”. Infaticabile, quarto dei cinque figli di Elias Disney e Flora Call, nato a Chicago ai primi di dicembre del 1901, agli albori del secolo breve applicò questa massima alle sue scelte. L’infanzia fu all’insegna dei trasferimenti con il duro lavoro nei campi del Missouri con il successivo approdo a Kansas City, dove aiutò il padre a consegnare i giornali per poi partecipare a sedici anni (falsificando la data di nascita sul passaporto) alla Grande Guerra come autista volontario di ambulanze della Croce Rossa statunitense in Francia. Al ritorno a Kansas City s’impegnò negli studi d’animazione, realizzando cortometraggi come Il Paese delle Meraviglie di Alice (Alice’s Wonderland). Disney nel 1923 partì alla volta della California con quaranta dollari in tasca, diventando in breve tempo imprenditore, produttore cinematografico, regista e animatore. Con Ubbe Ert Iwerks, bravissimo e straordinario disegnatore, iniziò i primi esperimenti e intuì che, se fosse riuscito a far muovere quei disegni inanimati, avrebbe rivoluzionato il mondo del disegno. Il nome di Walt Disney iniziò a farsi sempre più noto, ma ciò che lo rese davvero celebre, prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo, fu la creazione delle piccole serie animate dove il protagonista era il coniglio Oswald. Il personaggio, inventato nel 1927,  diventò ben presto un’icona e il suo creatore riuscì a costituire la prima azienda col suo nome: la Walt Disney Company. Narrano le leggende che tutto prese avvio durante un viaggio in treno quando Walt Disney iniziò a disegnare uno schizzo di Oswald, cercando di semplificarne i tratti. La modifica più evidente era quella delle orecchie, che da lunghe diventarono piatte e tonde, decisamente più simili a quelle di un topo. Da quegli schizzi prese forma Mortimer Mouse, il personaggio che mandò in pensione Oswald. Tuttavia la compagnia decise di cambiarne il nome in Mickey Mouse. Ecco quindi Topolino, protagonista del primo film animato sonoro Steamboat Willie, con il famoso topo alla guida di un battello a vapore fluviale. Il cortometraggio ottenne un successo planetario che crebbe a dismisura quando arrivarono anche gli altri protagonisti: Paperino, Pluto, la fidanzata Minnie, Pippo e tutti i personaggi che hanno accompagnato la nostra infanzia.  “If you can dream it, you can do it”, amava ripetere Disney : ”se puoi sognarlo, puoi farlo”. Così nacque l’impero della fantasia e dell’immaginazione: non solo film e fumetti, parchi a tema e prodotti di consumo, ma anche media e spettacolo. Basti pensare al gruppo televisivo Disney-ABC, ai canali sportivi ESPN o agli studios d’animazione della Pixar. Già dal suo primo lungometraggio del 1937, Biancaneve e i sette nani (il primo film d’animazione prodotto in America, il primo ad essere stato prodotto completamente a colori), il mondo intero aveva intuito di aver a che fare con un genio sognatore. Non a caso, il giorno della sua scomparsa, l’allora governatore della California e futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, in sette parole, diede voce al pensiero di tanti: “Da oggi il mondo è più povero”.

Marco Travaglini

Il Museo dell’Automobile racconta i 125 anni di Fiat

Una  mostra che ne ripercorre più di un secolo di sperimentazioni.

Dal 15 novembre 2024 al 4 maggio 2025 al MAUTO Museo Nazionale dell’Automobile

 

 

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1923. Stabilimento Lingotto pista sopraelevata collaudo vetture

In occasione dell’anniversario dei 125 anni dalla fondazione della FIAT, il MAUTO – Museo Nazionale dell’Automobile presenta la mostra 125 VOLTE FIAT che ripercorre la lunga e avvincente storia, unica nel contesto industriale novecentesco, della fabbrica automobilistica torinese. Il progetto espositivo, curato da Giuliano Sergio e realizzato in collaborazione con Centro Storico FIAT e Heritage HUB, è visitabile dal 15 novembre 2024 al 4 maggio 2025 negli spazi al piano terra del Museo.

 

Nata nel 1899, la Fabbrica Italiana Automobili Torino ha saputo cogliere le opportunità della rivoluzione industriale e dell’unità nazionale italiana per imporsi come principale interprete privato della modernizzazione del paese nel secolo scorso. Attingendo al grandissimo patrimonio visivo prodotto o ispirato da FIAT, la mostra ripercorre il legame che ha unito l’azienda automobilistica torinese allo sviluppo culturale, industriale ed economico dell’Italia e racconta il modello di modernità immaginato, progettato e promosso da un’azienda che con la sua intraprendenza ha influenzato una larga parte della storia nazionale.

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Sx: 1956. Colonia estiva Fiat di  Marina di Massa in Toscana

Dx: 1957. Set cinematografico per la pubblicità della Fiat Nuova 500

In esposizione al MAUTO, otto vetture rappresentative della storia del celebre marchio italiano corredate da una ricchissima selezione di opere d’arte, bozzetti d’artista e manifesti pubblicitari, documenti d’archivio e materiali grafici, fotografici e audiovisivi d’eccezione che contribuiscono a definire l’immaginario visivo dell’azienda.

 

L’ambizione di questa mostra e del catalogo che la accompagna è di raccontare i 125 anni della Fiat attraverso un caleidoscopio di immagini, un turbinio di oggetti, una miriade di tracce e documenti inattesi. Vorremmo sorprendere un pubblico troppo avvezzo a considerare la Fiat come una semplice fabbrica di automobili e già pronto a ammirare la lunga e ordinata carrellata dei prodotti che hanno fatto la storia industriale italiana e internazionale. Dietro l’immaginario ufficiale e un po’ polveroso dell’ammiraglia nazionale dell’automotive si nasconde una storia sorprendente e mobile, la capacità che l’ha sempre contraddistinta di saper interpretare le tumultuose vicende storiche del Novecento per proiettarsi nel contemporaneo”. Giuliano Sergio, Curatore della mostra.

 

Un percorso espositivo che, attraverso la potenza evocativa degli oggetti e delle immagini, racconta oltre un secolo di storia e sperimentazioni – non solo in campo automobilistico – offrendo uno sguardo approfondito sul modello imprenditoriale unico di un’azienda che ha rappresentato la via italiana alla modernità.

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Sx: 1935 ca. Fiat. Collage. di F. Casorati

Centro: 1958. Elettrodomestici Fiat.  copertina dépliant pubb.

Dx: 1928. manifesto  per la Fiat 521 (Il discobolo) di J. Le Breton

La Maschera di Ferro tra storia e leggenda

Torna, a Pinerolo, la rievocazione di un mistero storico (o leggendario?) ancora oggi irrisolto e, anche quest’anno, non mancherà il classico gioco del “Chi è?”

Sabato 5 e domenica 6 ottobre

Sarà ancora un weekend di storica “suspense”a Pinerolo per la XXI edizione de “La Maschera di Ferro”, rievocazione in programma sabato 5 e domenica 6 ottobre, sotto l’organizzazione dell’Associazione Storico-Culturale “La Maschera di Ferro Aps” e con il patrocinio e il contributo degli “Enti Locali”. La rievocazione di uno dei più celebri enigmi storici, ancora oggi avvolti nel più fitto mistero, ha cadenza biennale e ruota attorno al famoso “prigioniero senza volto”che, durante il regno di Luigi XIV di Francia, “Le Roi Soleil”, fu portato in catene in Italia (dall’isola di Santa Margherita, di fronte a Cannes, sotto la custodia di un ex moschettiere, Benigne de Saint-Mars) per essere incarcerato al Forte di Exilles, in Valle Susa, e poi nella cittadella di Pinerolo (24 agosto 1669) dove rimase fino all’ottobre del 1681. Nel 1698, quando Saint-Mars fu nominato Governatore della “Bastiglia”, si racconta del suo ritorno in Francia attraverso le memorie di un ufficiale della celebre prigione parigina che affermava di aver visto arrivare il suo nuovo superiore accompagnato da un detenuto “che il governatore tiene sempre mascherato e il cui nome non pronuncia”. Chi era dunque questo misterioso prigioniero, passato alla storia come “La maschera di ferro?”. Leggenda narra che fosse così importante che Luigi XIV non ebbe il coraggio di farlo decapitare, ma reo di una colpa così grave da costringerlo a nascondere il suo volto, per l’appunto, in una “maschera di ferro”. Dopo varie peripezie, solo la sua morte, avvenuta alla “Bastiglia” il 19 novembre del 1703, mise a tacere per allora voci e congetture. Se non che, alcuni anni dopo il decesso, si scatenò nuovamente una vera caccia all’identità dell’uomo. Che coinvolse anche importanti studiosi e letterati. “Sarà il gemello del re”, avanzò Alexandre Dumas ne “Il visconte di Bragelonne”, opera cui si sono ispirati in seguito anche numerosi film. “Un mistero vivente, ombra, enigma” affermò Victor Hugo. Per Voltaire invece fu “un prigioniero sconosciuto, dalla taglia al di sopra dell’ordinario, giovane e dalla figura la più bella e la più nobile. Portava una maschera con delle strisce d’acciaio. I carcerieri avevano l’ordine di ucciderlo se l’avesse tolta”.

Orbene, nel prossimo weekend, in quel di Pinerolo, torneremo a rivivere, anche con curiosità e un pizzico di fantasia, questo super misterioso “cold case” lasciatoci in eredità dalla Storia di oltre tre secoli fa. E lo si farà affiancando alla “rievocazione” anche un “gioco” che è ormai peculiarità di ogni edizione, laddove si è ben pensato di far indossare a un “personaggio celebre” i panni del prigioniero. A voi scoprirlo, attraverso tre indizi dati dagli organizzatori. Primo: “Si tratta di un personaggio conosciuto a livello europeo”. Secondo: “La città di Pinerolo lo trova sovente ‘appassionato promotore’”. Terzo: “La sua passione è la bicicletta”. Attraverso queste tracce chiunque può partecipare al gioco online “Indovina chi?”. Basta iscriversi e indicare il nome di chi si pensa possa essere il personaggio misterioso.

Nel 2022 la “Maschera di Ferro” fu interpretata da Arturo Brachetti, che così aggiunse un nuovo personaggio alla sua collezione, nel 2018 dal campione di ciclismo del passato Francesco Moser, nel 2016 dall’attore Ettore Bassi e nel 2014 da Fabio Troiano. L’albo è disponibile online su https://mascheradiferro.net/albo-doro/ . La personalità celata dietro alla maschera anche quest’anno verrà svelata solo dopo la conclusione della rappresentazione.

Non sarà però questo l’unico gioco legato alla rievocazione. Infatti anche quest’anno si proporrà “Scatta La maschera – Secondo Trofeo Iose Busa” (nona edizione) che darà la possibilità a fotografi dilettanti di cimentarsi nel ritrarre personaggi e simboli durante le giornate della manifestazione. Regolamento e modulo iscrizione sul sito www.mascheradiferro.net.

Il programma in breve: il via sabato 5 ottobre,alle 16, con il “Bando” e i “Tamburini di Pignerol” per le strade e le spianate del centro storico.  Alle 16,30, esibizioni sportive, con Musici e “Sbandieratori Borgo Tanaro” del “Palio d’Asti”. Dalle 21 alle 23,30: “La misteriosa notte del ‘600”. Fra i momenti clou, i moschettieri che scortano il misterioso prigioniero e lo rinchiudono in carcere (previsto anche il cambio della guardia), in una serata davvero vivace con tutto il centro storico animato tra esibizioni, danze, gruppi storici, figuranti e la rievocazione del “Bordello” del ‘600.

Domenica 6 ottobre, la messa in cattedrale e poi, dalle 15, partenza dei cortei che coinvolgono centinaia di figuranti. L’arrivo di tutti i gruppi sarà in piazza Vittorio: qui arriva anche la “Maschera di Ferro” e alle 18,30verrà svelata l’identità.
A corredo non mancheranno taverne e punti ristoro in via Trento (per l’occasione rinominata “Rue Crème Chantilly”).

Per info e il programma dettagliato: www.mascheradiferro.net

g.m.

Nelle foto: immagini di repertorio e Arturo Brachetti per un anno “Maschera di Ferro”

“Memorie d’acqua”, genti e dialetti nella prima metà del Novecento

A Palazzo Madama, sino al 18 novembre

Nel più ampio panorama di “Change! ieri, oggi, domani. Il Po”, si ritaglia un suo ben preciso e curiosissimo spazio il progetto espositivo “Memorie d’acqua. Parole e immagini”, a cura di Matteo Rivoira e della Redazione dell’Atlante Linguistico Italiano, Università degli Studi di Torino, a Palazzo Madama – Piccola Guardaroba e Gabinetto Cinese – sino al 18 novembre. Dovendosi qui in primo luogo sgombrare il campo dei dubbi di una mostra per pochi eletti, per studiosi raffinati, per portatori d’argomenti non sempre semplici e facilmente fruibili: oltre le tematiche affrontate da “Change!”, vi è “la lente interpretativa della lingua, della cultura popolare e della memoria collettiva” che le irrobustisce, “da quello della gestione dell’acqua secondo criteri di sostenibilità propri degli usi preindustriali, a quello della costruzione e cura del paesaggio come elemento vitale, sino al parallelo tra la biodiversità – rappresentata dalle svariate specie animali e vegetali – e la ricchezza terminologica dialettale documentata dall’Atlante Linguistico Italiano”.

L’Atlante è un patrimonio di cinque milioni di schede dialettali e di circa 9000 fotografie etnografiche, a cui s’uniscono una raccolta di carte geografiche che portano impresse la differenti traduzioni dialettali di un concetto o nozione o frase, sempre raccolte dalla viva voce delle persone intervistate: eccellente materiale che per quarant’anni sette raccoglitori, il primo fu Ugo Pellis (1882 – 1943), elencarono con l’aiuto degli “informatori” nei loro viaggi a volte avventurosi, ponendo domande, mostrando oggetti, sottoponendo illustrazioni e schizzando quanto ritrovato negli itinerari.

Un lavoro prezioso: “ogni richiesta è corredata da numerose informazioni che vanno dal modo in cui è stata posta la domanda (ad esempio se mostrando una figura o facendo un gesto), ai giorni esatti dell’inchiesta, alle caratteristiche socio-culturali dell’informatore”, materiale di studio trascritto e pubblicato nel 1995 in due volumi. Un materiale ricavato con passione da quelle agendine che ora riempiono le vetrine di cui è arricchita la mostra, autentici diari di viaggio del Pellis, “che quotidianamente annotava nel dettaglio notizie relative ai suoi spostamenti, ai soggiorni, alle difficoltà pratiche e organizzative che incontrava”: il tutto ad arricchire la memoria di un’Italia rigorosamente in bianco e nero della prima metà del Novecento, un’Italia fatta di borghi, soprattutto rurale, di strade poco trafficate, di nuclei familiari, di uomini e di donne che faticano, di casolari, di oggetti di uso quotidiano, di piante e di pesci, di parole e di dialetti che qualcuno ha provveduto a non disperdere.

Disseminati nelle carte geografiche, riscopriamo i “valori” e i significati del “martin pescatore” come del “pioppo” (“àlbera” e “albra”, “albrùn” e “albret” e “albaréla”, una catena che giunge tra l’altro a “tërmu” e “piopa”, e molti altri termini ancora), percorrendo idealmente le sponde e le campagne attorno al Po. Guardiamo ad altri corsi d’acqua, in un documento dell’agosto 1937, abbiamo l’immagine di un “batèl”, la imbarcazione più caratteristica del lago di Como, quella di manzoniana memoria, un “gozzetto” o “barca da pesca” che ha i tre semicerchi legnosi nella sua parte superiore, uniti da un travetto longitudinale utile a stendere un telo per riparare gli occupanti dal sole, senza i quali è chiamata semplicemente “barca”. C’è un’altra versione, la “Lucia”, dal momento che nella tradizione popolare la giovane protagonista dei “Promessi sposi” prese proprio questo tipo d’imbarcazione per raggiungere Fra’ Cristoforo a Pescarenico. Come in altra immagine si scorge, nelle acque di Porto Corsini (oggi Marina di Ravenna), in un documento del marzo 1928, una rete del tipo a bilancia, denominata “padlòn”, una rete da pesca formata da una pezza unica di forma generalmente quadrata; come dal Porto di Mantova, Porta Catena esattamente, con un documento del novembre 1928, arriva l’immagine di tre “batèi”, “batèl” al singolare, anch’essi imbarcazioni da pesca, e più in fondo un “bürcc”, un burchio, grande imbarcazione a remi, vela o alzaia (una fune per il traino controcorrente) per il trasporto di merci, con il fondo piatto per poter navigare con facilità sui bassi fondali di fiumi, canali e lagune. Come località del Piemonte ci riportano i termini degli antichi lavatoi, da “lavàur” o “lavàu” (Centallo, luglio 1941) o gli oggetti legati al bucato, il “baciàs” che è la vasca, il “segelìn” che è la seccia di rame, la “sibërtè” che è il mastello da bucato. Tutti termini che ricordano ancora oggi, al visitatore della mostra, la gente e i luoghi di Meana di Susa, in un documento del marzo 1936.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Candia Canavese (To), 9 maggio 1936, fotografia n. 4405, punto di inchiesta 40; Cavazuccherina, Jesolo dal 1930 (Ve), 16 marzo 1931, fotografia n. 1575, punto di inchiesta 265; Cozzo (Pv), 23 febbraio 1938, fotografia n. 5594.

Il castello di Montecristo: il rifugio violato di Alexandre Dumas padre

Nel 2002, non senza qualche polemica da parte dei critici che mai erano stati molto teneri con la sua prolifica produzione, Alexandre Dumas padre entrava nel Pantheon di Parigi

Il senso della scelta di seppellire l’autore dei “Tre Moschettieri” accanto ad Émile Zola e Victor Hugo si evince chiaramente dalle parole che il Presidente francese Chirac pronunciò in quell’occasione, rivolgendosi direttamente a Dumas: “Con lei entrano nel Panthéon l’infanzia, le sue ore di lettura assaporate in segreto, l’emozione, la passione, l’avventura. Con lei abbiamo sognato e sogniamo ancora”.


Le pagine di Alexandre Dumas, i suoi personaggi, le sue storie sono stati protagonisti delle letture di intere generazioni e quando accanto al libro si sono imposte altre forme di comunicazione D’Artagnan, Edmond Dantès, la Regina Margot si sono soltanto trasferiti nel mondo della celluloide, continuando a perpetrare la propria immortalità.
Alexandre Dumas, dal canto suo, aveva voluto realizzare, almeno in parte, le proprie fantasie letterarie, decidendo nel 1844 di creare un “buen ritiro” che sembrasse uscito dai suoi romanzi.
Dalle sue idee stravaganti certo, ma sicuramente geniali e originali, nacque la proprietà situata a Port Marly poco distante da Parigi.
Dumas affidò all’architetto Hyppolite Duran la creazione, all’interno di un grande parco di un castello rinascimentale, le Chateau de Montecristo, la sua dimora, e proprio di fronte fece costruire un altro castello neogotico circondato da un fossato, le Chateau d’If, per farne il proprio studio, un edificio appartato e interamente ricoperto dai nomi dei suoi personaggi.
L’abitazione del celebre scrittore, salvata oggi dalla rovina grazie all’intervento dei privati, si presenta come la trasposizione architettonica delle pagine dei suoi romanzi, rievocando molte delle descrizioni del Conte di Montecristo sia attraverso la rigogliosa vegetazione e le grotte, sia con “le salon maresque” che richiama alla mente le immagini dei misteriosi appartamenti della principessa di Giannina Haydée.
Le Chateau de Montecristo, la trasposizione nella pietra delle fantasie di Dumas, una “bomboniera” secondo Honoré de Balzac, rimase per poco tempo proprietà dello scrittore che, rovinato dai debiti, fu costretto a svendere per 31.000 franchi una proprietà che a lui era costata parecchie centinaia.
Nel 1851 Dumas abbandonerà definitivamente il suo castello per rifugiarsi in Belgio, inseguito da centinaia di creditori.
Soltanto nel 1854 lo scrittore potrà fare ritorno a Parigi, ma ormai il suo rifugio era diventato proprietà di altri, era stato violato da presenze estranee e di quel periodo restava soltanto il ricordo.
Accade, in letteratura, che il racconto diventi un modo per dare vita al proprio desiderio di avventura, di viaggio, di evasione. Basti pensare a Emily Brontë che fece vivere ai personaggi del suo romanzo i grandi amori e i tormenti che la sua anima bramava o a Salgari che viaggiò in continenti lontani solo con la scrittura.
A Dumas fu concessa, invece, una vita frenetica e avventurosa come le sue opere.
Figlio di un generale della Rivoluzione francese che combatté anche al fianco di Napoleone, nipote di un marchese francese e di una schiava africana originaria di Haiti, orfano a 3 anni e mezzo, dopo un’infanzia difficile, a soli 21 anni entrò al servizio del re Luigi Filippo d’Orleans come copista, trovando presto l’ispirazione per scrivere opere teatrali e, successivamente, per creare i capolavori che l’avrebbero incoronato come padre del “feuilleton”.
In pochi anni raggiunse fama e ricchezza, costruì un castello e un teatro e in un tempo ancora più breve perse tutto. Iniziò a viaggiare, in Belgio, in Germania, in Russia, in Italia.
Nel 1860 finanziò e prese parte alla Spedizione dei Mille, fu testimone oculare della battaglia di Calatafimi e fu a fianco di Garibaldi quando entrò a Napoli, diventando così uno dei protagonisti del Risorgimento italiano.


Nel 1870 una malattia vascolare lo costrinse a trasferirsi a Puys, vicino a Dieppe, nella casa del figlio dove si spense il 5 dicembre.
Lo scrittore venne sepolto a Neuville-les-Dieppe e, poi, successivamente, come aveva disposto in vita, venne traslato a Villers Cotterêts, la sua città natale, accanto ai genitori.
Il trasferimento al Pantheon rappresenta l’ultimo capitolo, quello inaspettato, dell’esistenza di uno scrittore che aveva fatto dei colpi di scena il leitmotiv delle sue opere, il riconoscimento della sua grandezza giunto tardivo, esattamente come tardivo arrivato a D’Artagnan il bastone da maresciallo, mentre la morte lo coglieva.
Del resto era proprio Edmond Dantès divenuto il Conte di Montecristo ad affermare che “Tutta l’umana saggezza è racchiusa in queste due parole: attendere e sperare”.

Barbara Castellaro

Erminia Caudana e Amerigo Bruna. Pionieri del restauro per la Biblioteca Nazionale

In occasione delle Giornate Europee del Patrimonio 2024sabato 28 settembre la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino ospita presso la Sala storica l’incontro dal titolo:

 Erminia Caudana e Amerigo Bruna. Pionieri del restauro per la Biblioteca Nazionale,  28 settembre 2024 ore 10.30 presso  Biblioteca Nazionale Universitaria, Sala storica – Piazza Carlo Alberto 3, Torino

Evento è dedicato alla restauratrice Caudana e al suo allievo Bruna, a cui si deve il recupero di centinaia di volumi gravemente danneggiati dall’incendio che colpì l’antica sede della Biblioteca, in via Po, nella notte tra il 25 e il 26 gennaio 1904.

All’indomani dell’incendio, la necessità di salvare il patrimonio librario scampato alla distruzione portò la Biblioteca Nazionale a contribuire fattivamente all’evoluzione delle tecniche di conservazione e restauro.

L’antico laboratorio, il primo istituito in una biblioteca pubblica statale, è oggi parzialmente ricostruito con arredi e attrezzi originali nello spazio espositivo della Sala storica.

In questa occasione la sala verrà intitolata alla memoria di Erminia Caudana, per il ruolo decisivo della restauratrice nella storia novecentesca dell’Istituto e per la preziosa eredità che ci ha consegnato.

PROGRAMMA

Saluti istituzionali

Guglielmo Bartoletti, Direttore Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino

Fabrizio Antonielli d’Oulx, Presidente Associazione Amici Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (ABNUT)

Intervengono

Giovanni Saccani, Presidente Società Dante Alighieri – Comitato di Torino, già funzionario bibliotecario BNU Torino

Andrea Maria Ludovici, archivista e Amministratore delegato CulturAlpe s.c.

Paola Boffula Alimeni, papirologa e tecnica del restauro

Monica Bruna, donatrice ed erede di Erminia Caudana e Amerigo Bruna

Riccardo Lorenzino, Direttore editoriale e progetti museali Hapax Editore

A seguire visite guidate alla Sala storica condotte da Chiara Clemente e Vera Favro, archiviste e bibliotecarie CulturAlpe s.c.

Ingresso gratuito fino a esaurimento posti.

in allegato locandina.

Per informazioni:

bnuto.cultura.gov.it

bu-to.eventi@cultura.gov.it

www.abnut.it/

info@abnut.it

Chieri, qui abitò Carlo VIII

Lo ospitò per alcuni giorni la nobile famiglia chierese dei Solaro, nel loro palazzo in via Vittorio Emanuele II angolo via della Pace. Carlo VIII, re di Francia, fu accolto con tutti gli onori e con una grande festa alla porta del Vajro, l’attuale Porta Torino, seguito da soldati, nobili e vescovi. Un soggiorno da re a Palazzo Solaro. Era il 5 settembre 1494. A dargli il benvenuto mercanti, banchieri, religiosi, artisti e poeti tra i quali Leonetta Tana, la bella figlia del nobile chierese Bartolomeo Tana che gli dedicò alcuni versi in francese…“o re cristianissimo, risorta gloria di Carlo Magno, noi supplichiamo la potenza divina…”. Attraversata la via Maestra il sovrano francese, che aveva solo 24 anni, entrò nel palazzo di Giovanni Solaro, il più lussuoso edificio della città mentre i vescovi furono ospiti del convento di San Domenico, nei pressi di Casa Solaro che nella prima metà del Settecento diventerà la sede del Ghetto ebraico. Il Re fece tappa a Chieri, che faceva parte del Ducato di Savoia, per ottenere prestiti dai ricchi banchieri locali a sostegno della sua spedizione militare nella penisola mirata alla conquista del Regno di Napoli. Il Re di Francia soggiornò in città per quattro giorni e furono anche giornate scandite da frequenti incontri amorosi con le donne chieresi nonostante il sovrano fosse brutto, molto piccolo e balbuziente. Quando tornò a Chieri l’anno successivo scrisse ben 25 lettere su temi politici. Ma la fortuna non l’aiutò, anzi, la sconfitta militare del Re fu un brutto colpo anche per Chieri. Il sovrano non poté restituire i fondi ricevuti in prestito gettando Chieri e gli stessi Solaro in una grave crisi finanziaria. Il 9 settembre del 1494 le truppe francesi lasciarono Chieri dirette ad Asti lasciando nella città alle porte di Torino le tracce del passaggio del monarca. Sulla facciata di Palazzo Solaro in via Vittorio Emanuele II angolo via della Pace una lapide murata in marmo bianco ricorda l’evento. Si vede la corona reale dei Valois con i tre gigli di Francia e un’iscrizione in lingua provenzale con  caratteri gotici in cui si legge “in questa casa ha dimorato Carlo, re dei Galli”.
La prima parte del Cinquecento fu uno dei periodi più tormentati nella storia del Ducato Sabaudo e il Piemonte fu teatro di scontri continui tra le due potenze dominanti dell’epoca, la Francia e l’impero spagnolo e Chieri si trovò più volte coinvolta negli eventi bellici. La divisione della penisola in ducati, repubbliche e regni scatenò ben presto il desiderio di espansione dei sovrani europei tra i quali, appunto, Carlo VIII che nel 1494 scese in Italia per tentare di occupare il Regno di Napoli sulla base di una pretesa dinastica. Il sovrano arrivò a Torino il 5 settembre ospite della reggente Bianca di Savoia che proclamò la neutralità del Ducato di Savoia pur concedendo il passaggio ai soldati francesi. Da Torino Carlo VIII cavalcò a Chieri e qui si fermò alcuni giorni. Prima di puntare ad Asti fece una capatina a Vezzolano. Secondo le cronache del tempo pare che non solo sia entrato nella storica Abbazia ma abbia pranzato nel refettorio insieme ai frati di Santa Maria. Carlo VIII è rappresentato nel trittico sull’altare dell’abbazia, inginocchiato, con i gigli di Francia sull’abito regale. Vicino a lui, la Madonna in trono e Sant’Agostino. Quattro anni dopo, a soli 28 anni, Carlo VIII morì per un banale incidente nel castello di Amboise. Batté la testa contro l’architrave in pietra di una porta mentre passava a cavallo nel parco.
Un bel libro per conoscere ogni particolare sul soggiorno del re francese a Chieri è quello scritto da Pier Paolo Falcone dal titolo “Un Re di Francia a Chieri, Carlo VIII” del quale però si trovano solo tre copie, nella biblioteca civica di Chieri, nell’Archivio di Stato a Torino e presso l’associazione culturale chierese Carreum Potentia.
                                                                                                 Filippo Re
Due fotografie di Palazzo Solaro a Chieri + la lapide in marmo che ricorda il soggiorno di Carlo VIII in città

Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia

Breve storia di Torino

1 Le origini di Torino: prima e dopo Augusta Taurinorum
2 Torino tra i barbari
3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia
4 Verso nuovi orizzonti: Torino e l’élite urbana del Duecento
5 Breve storia dei Savoia, signori torinesi
6 Torino Capitale
7 La Torino di Napoleone
8 Torino al tempo del Risorgimento
9 Le guerre, il Fascismo, la crisi di una ex capitale
10 Torino oggi? Riflessioni su una capitale industriale tra successo e crisi

 

3 Verso nuovi orizzonti: Torino postcarolingia

Prosegue in questo terzo articolo il mio intento di raccontare storicamente le vicissitudini della nostra bella Torino. La volontà è quella di riproporre in una serie di testi gli avvenimenti, i fatti e i personaggi che, a partire dalle origini taurine, si sono succeduti e hanno reso il capoluogo pedemontano quello che è oggi. L’urbe ha subito notevoli modifiche nel corso del tempo, cambiamenti architettonici, urbanistici, politici e sociali, la città si è evoluta insieme all’Italia e all’Europa, talvolta occupando una posizione preminente nello svolgimento degli eventi, talvolta rimanendo “dietro le quinte” ad osservare silenziosa il mondo che cambiava.
Proseguo nel mio impegno dunque, intrattenendovi oggi, cari lettori, sulle tematiche riguardanti il caotico periodo postcarolingio.
Siamo nell’anno 887: muore Carlo il Calvo, l’Impero di Carlo Magno si disgrega, i signori locali vogliono disperatamente la corona. Arnolfo di Carinzia è proclamato re dei Franchi orientali, Oddone di Parigi diviene re dei Franchi occidentali, mentre Berengario del Friuli e Guido II di Spoleto si contendono la corona di re d’Italia.
Questo l’intricato “background”. Vediamo ora di approfondire un po’ la questione.
L’Impero carolingio è giunto al termine, il potere un tempo di Carlo Magno ora è nelle mani di conti, duchi e marchesi, aristocratici a capo di ampi territori comprendenti sia le zone rurali sia le città.

La stabilità politica è tuttavia qualcosa di apparentemente irraggiungibile: tali regni risultano caotici ed effimeri, i signori sono costantemente occupati a rivaleggiare tra loro per il Regno Italico, ma nessuno è destinato a detenere il potere a lungo.
In questo clima di instabilità generale Torino rimane ai margini, adeguandosi agli avvenimenti che interessano non solo la regione specifica, bensì tutta la penisola italiana.
Dopo la caduta dell’Impero la città subalpina cambia rapidamente “proprietario”, alla morte di Suppone II la città e le zone annesse passano dapprima sotto la giurisdizione di Carlo il Grosso (887), poi di Berengario del Friuli (888), a sua volta sconfitto da Guido di Spoleto.
Quest’ultimo, determinato a mantenere la propria podestà, decide di concentrare le forze armate nel confine nordoccidentale del regno, dando così vita ad una nova unità territoriale, la “marca di Ivrea”, una sorta di principato di frontiera che comprendeva il vasto territorio del comitato di Torino fino alle coste della Liguria. Guido affida il controllo della zona ad un suo fedele sostenitore, il burgundo Anscario, la cui discendenza amministrerà la regione per lungo tempo. Nell’anno 899 è Adalberto ad amministrare la marca, assicurandosi il titolo di marchese – “reggente di una marca”- ; egli varia anche le alleanze, sicuro di schierarsi a sostegno di Berengario del Friuli, che si era proclamato re agli inizi dell’anno 888, nella capitale Pavia.

Sul terminare del IX secolo, si assiste al fenomeno delle “seconde invasioni”: gruppi di genti agguerrite e violente giungono da est, da sud e da nord, si tratta dei Normanni – anche noti con l’appellativo “Vichinghi”- aggregati tribali che saccheggiano le coste atlantiche, vi sono poi gli Ungari, che tengono sotto costante attacco Germania e Italia, e infine i Saraceni, dediti a scorrerie navali nell’area del Mediterraneo.
Alle vicissitudini per il potere, si aggiunge il pericolo degli invasori, particolare preoccupazione destano appunto i Saraceni, guerrieri musulmani provenienti dalla Spagna e dal Nordafrica che avevano valicato le Alpi e depredavano ora la marca di Ivrea. In seguito a tale incursione, diversi monaci sono costretti a rifugiarsi all’interno delle mura cittadine: è in questo periodo che sorge il Santuario della Consolata, dedicato alla Vergine e ancora oggi una delle chiese più note di Torino. (La chiesa ha origini antichissime, e sorge sui resti di una piccola chiesa paleocristiana).
Gli Ungari a partire dall’anno 898 oltrepassano le Alpi e attaccano la marca friulana, fino a raggiungere, negli anni successivi, Vercelli e i pressi di Pavia.
Accade poi la morte di Anscario (940), seguita dalla ritirata di Berengario di Ivrea in Germania, dove ottiene la protezione di Ottone I, nuovo imperatore. Nel 950 Berengario fa ritorno per sconfiggere i nemici e per riorganizzare la marca di Ivrea in tre marche distinte, ciascuna affidata ad una famiglia: il Piemonte meridionale e la Liguria vengono affidati al marchese Oberto, ad Aleramo spetta invece la parte orientale della regione, con il Monferrato, e infine la nuova marca di Torino spetta ad Arduino, detto il Glabro. Intanto, nel 962, Ottone I scende in Italia, depone Berengario e si fa incoronare imperatore dal papa.
Ottone e i suoi discendenti controllano il Regno italico grazie alla forza degli eserciti, tentando a loro volta di sconfiggere i signori locali, assoggettandoli alla propria volontà. In questo turbolento succedersi di avvenimenti, alcune figure spiccano dalla massa per importanza e preminenza, tra queste vi è sicuramente Arduino, marchese di Torino, capostipite degli Arduinici. Abbiamo sue notizie a partire dal 945, epoca in cui viene nominato ancora come conte, già insediato a Torino, in una fortezza vicina alla porta occidentale della città, abitazione che fungeva da quartier generale per gli scontri armati contro i Saraceni.
Sono tuttavia le cronache di Novalesa a fornirci di diverse informazioni riguardanti Arduino: in questi testi egli è descritto come borioso, avido, “lupo affamato travestito da pecora”. Tuttavia, al di là del giudizio dei monaci adirati perché il conte si era rifiutato di restituire al clero alcuni possedimenti terrieri, Arduino si dimostra un soldato capace e un politico intraprendente.

Tra il 961 e il 962 il conte è quasi certamente coinvolto nel complotto a favore di Ottone I, ed è proprio grazie a queste gesta che ottiene il rango di marchese, tuttavia è bene sottolineare che, nonostante tale avvenimento, i successori di Arduino, gli Arduinici, mantengono con l’Imperatore rapporti sempre ambigui.
Altra figura di spicco è Olderigo Manfredi, imparentato con il marchese di Canossa, sposato con Berta degli Obertenghi, signori della Liguria e del Piemonte meridionale. Il nuovo marchese consolida la propria supremazia attraverso una stretta alleanza con la Chiesa, sodalizio consolidato grazie all’edificazione di diverse abbazie – da lui amministrate- tra Caramagna, Susa e Torino. Durante il suo regno la diocesi di Torino è sotto la guida di Landolfo, ex cappellano dell’Imperatore Enrico II di origini germaniche e dalle spiccate doti amministrative; proprio al vescovo si deve la fondazione e il restauro di diverse chiese situate nelle campagne, il sorgere di questi nuovi centri religiosi favorisce la gestione delle terre e regala linfa vitale ai villaggi delle zone rurali, quali Chieri, Piobesi, Rivalta e Cavour.
Non trascorre poi molto tempo prima che si verifichi una nuova lite tra i grandi signori del regno, ciascuno bramoso di arraffarsi il potere sul Regno Italico. La situazione precipita quando i “milites minores” insorgono a Milano contro l’arcivescovo: Olderico Manfredi interviene nella disputa e rimane ucciso nei combattimenti nel 1034. La moglie Berta eredita dunque il controllo della marca di Torino e subito si assicura di combinare dei matrimoni per le tre figlie. Adelaide sposa il duca Ermanno di Svevia, Ermengarda invece viene concessa al duca Ottone di Schweinfurt ed infine la più piccola, Berta, viene maritata con un rampollo della casa degli Obertenghi. È ora dunque di trattare di un’altra personalità emergente, proprio la primogenita di Berta, la contessa Adelaide, con cui la dinastia arduinica tocca l’apice del successo, grazie anche all’attenta e acuta amministrazione della marca di Torino.

Due volte vedova, Adelaide si unisce in terze nozze ad Oddone di Savoia, da cui ha diversi figli, tutti intelligentemente promessi a personalità delle più rilevanti famiglie nobiliari. Di lei sappiamo che era ben consapevole delle proprie doti e della propria posizione di preminenza, inoltre pare fosse gelosa del suo potere ma anche abile nell’attitudine del comandare.
L’importanza della figura della contessa emerge tuttavia successivamente, durante i decenni centrali del secolo XI, durante i moti riformisti, quando il sistema governativo sostenuto da Ottone I viene messo in discussione e Impero e Chiesa Riformista iniziano a scontrarsi. Adelaide, fervente credente e sostenitrice di molte idee dei riformisti – che condannavano la simonia e il concubinato ecclesiastico- si trova improvvisamente tra due fuochi: Enrico IV, l’Imperatore, nonché marito di sua figlia Berta e Matilde contessa di Toscana, con cui era imparentata non troppo alla lontana, calorosa sostenitrice dei riformisti.
Adelaide riesce a districarsi e appiana la disputa, ponendosi come garante per un accordo tra le due parti.
La contessa per tutta la vita reclama e detiene i propri diritti, anche quando questi vengono attaccati dal vescovo che la vuole privare di alcuni suoi possedimenti.
Adelaide è una delle tante figure femminili di cui è fatta la Storia, una sorta di femminista che non necessita di tale etichetta per dimostrare la propria forza e determinazione.
Ancora una volta c’è da imparare dal passato. Ancora una volta Torino risulta fonte d’ispirazione.

Alessia Cagnotto