STORIA- Pagina 144

Dove si trova ël Barabiciu?

Torino, bellezza, magia e mistero

Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli

Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?

Negli articoli precedenti si è parlato del lato buono di Torino, ma nell’urbe augustea sappiamo che ci sono anche poli di energia negativa. Il “cuore nero” della città, com’è noto ai più, si trova in piazza Statuto, dalle parti di Valdocco, nome che può essere ricondotto a “vallis occisorum”, ossia il luogo dove avvenivano le esecuzioni capitali e si inumavano i cadaveri oppure a “vallis occasus”, cioè la direzione in cui il sole tramonta. “Nomen omen”, verrebbe da dire. In piazza Statuto si trova il monumento che commemora l’apertura del traforo del Frejus e i tre ingegneri che lo progettarono, Sebastiano Grandi, Severino Grattoni e Germano Sommeiller. Ai Torinesi tuttavia esso soprattutto ricorda i caduti durante la lavorazione, ben 48 morti tra i 4 mila operai (tra di essi 18 si spensero per un’epidemia di colera). Sul monumento spicca la statua di un angelo con una stella in fronte e una penna nella mano destra, che dovrebbe raffigurare il genio alato della scienza, ma tale figura è associata notoriamente a Lucifero. Se volete sapere come mai la statua sia stata assimilata all’immagine del Diavolo, potete rischiare di andare a chiederglielo di persona, perché all’interno del giardino che la circonda si trova un tombino, che pare non essere un comune scarico fognario, anzi sarebbe nientemeno che la porta degli Inferi. Va segnalato però, che la maggiore concentrazione di energie diaboliche si trova poco oltre l’estremità della piazza, al di là di corso Principe Oddone, dove vi è un giardino, non troppo curato, che passa quasi inosservato, al centro del quale svetta un piccolo obelisco sormontato da un astrolabio. Tuttavia questo non è l’unico luogo in cui si può respirare l’aria malsana di “Chiel là,” o di “ël Barabiciu”, per dirla con una credenza piemontese, per cui è meglio non pronunciare il nome del maligno, perché tutte le volte che qualcuno lo dice, lui si avvicina di sette passi. Potreste incontrare “Belzebù” anche in altri posti. C’è infatti un palazzo, da alcuni soprannominato “Ca dël Diav”, caratterizzato da dicerie per nulla lusinghiere e a dir poco terrificanti.  Si tratta di Palazzo Trucchi di Levaldigi, edificato tra il 1673 e il 1677 dall’architetto Amedeo di Castellamonte (1613-1683), per il ministro delle Finanze Giovanni Battista Trucchi, conte di Levaldigi (1617-1698). La posizione del palazzo, tra via Alfieri e via XX Settembre, ne sottolinea il particolare taglio diagonale della facciata d’ingresso, caratterizzata dal rigoroso tracciato ortogonale della parete. L’aspetto complessivo dell’edificio è severo e imponente, come testimoniano le bugne del basamento, il ritmo delle lesene binate, i cornicioni marcapiano aggettanti e i timpani delle finestre. All’interno gli ambienti sono stati radicalmente rielaborati tra gli anni Dieci e Trenta del Novecento e riadattati alle nuove esigenze occupazionali. Dal 1939 l’edificio è sede della filiale della Banca Nazionale del Lavoro. La costruzione nasconde la sua leggenda di malvagità proprio all’interno di un particolare della struttura architettonica, precisamente nel portone, rimasto quello originario, montato nel 1675 e riccamente intagliato.  Giovanni Trucchi non era nobile di nascita (la famiglia ottenne il titolo comitale – “comes” = “conte” per “concessione d’arma”), ma riuscì ad ottenere una carica che lo rendeva secondo solo al duca Carlo Emanuele I, egli riuscì infatti a rivestire la dignità di Presidente Generale delle Finanze Sabaude, ed era anche soprannominato il “Colbert piemontese”, con riferimento a Jean-Baptiste Colbert, (1619-1683), braccio destro del Re Sole.

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Si mormorava molto sul denaro posseduto dal conte Trucchi, che sembrava non esaurirsi mai, e lo stesso conte, per burlarsi di tali dicerie, ordinò che il portone venisse montato in una sola notte e di nascosto. In questo modo la gente avrebbe iniziato a bisbigliare che fosse avvenuto un qualche sortilegio, se non proprio un vero patto satanico. Per far sì che non ci fossero dubbi in tal senso, il conte fece inserire al centro del portone un ornamento in bronzo con la forma della testa del demonio, dalla cui bocca – come si può ancora oggi ammirare – escono due serpenti che si intrecciano e formano il batacchio. Ma forse un po’ di malignità in quel luogo c’era sul serio, e lo dimostrano alcuni fatti. Nel 1790, durante una delle feste indette da Maria Anna Carolina di Savoia, una delle ballerine invitate al ricevimento venne uccisa a pugnalate. Successivamente, nel 1817, nel corso dell’occupazione francese, il capitano Du Perrì, che era in possesso di documenti segreti, cercò rifugio tra quelle stesse mura, ma scomparve all’interno del palazzo. Il corpo venne ritrovato vent’anni dopo, murato in un’intercapedine. Un altro punto cittadino in cui si annidano energie maligne è proprio all’interno di un edificio in cui tutto ci si aspetterebbe tranne che entrare in contatto con Satana o con qualcuno dei suoi seguaci. Si tratta del piccolo gioiello architettonico della chiesa di San Lorenzo edificata tra il 1668 e il 1687 su progetto di Guarino Guarini, per l’ordine monastico dei Teatini. L’edificio è a pianta centrale ottagonale, con i lati di forma convessa, con un presbiterio ellittico posto trasversalmente che introduce un asse principale nella composizione. Lo spazio, al livello inferiore, è definito dalla presenza di ampie serliane che delimitano le cappelle laterali, mentre la copertura è costituita da una cupola a costoloni che si intrecciano fino a formare l’ottagono sul quale poggia la lanterna. All’interno è voluto un gioco di contrasti tra luci ed ombre, per cui  in basso domina l’oscurità, accentuata dalla mancanza di finestre, la luce, invece, aumenta man mano che ci si eleva. Si può anche notare che la chiesa è “affollata” da angeli, in tutto più di 400, sono forse così tanti per contrastare qualche altra presenza che è riuscita a insinuarsi tra le sacre pareti? E allora guardiamo con attenzione verso l’alto: tra i costoloni intrecciati è possibile scorgere delle grandi facce demoniache, che si delineano, nette, man mano che lo sguardo vi si fissa, vigile. Se vi è venuta un po’ di angoscia non temete, sono moltissimi i rimedi per scacciare colui che è meglio non nominare, non mettete in tavola mai il pane rovesciato, attenti a non entrare in casa con il piede sinistro, mettete un ferro di cavallo dietro la porta (ma nel verso in cui forma una U), e fate attenzione al sale, se cade siate pronti a lanciarvene un po’ dietro la spalla sinistra. E, soprattutto, se uno sconosciuto, losco e misterioso, vi si avvicina e vi chiede di fare un patto con lui, “daje dël ti al Diav e butlo fora ëd ca”!

Alessia Cagnotto

Il 2 giugno riapre Palazzo Barolo. In mostra le foto dell’800

Palazzo Falletti di Barolo riapre al pubblico martedì 2 giugno in occasione delle festa della Repubblica dalle 15.00 alle 18.30. In occasione della riapertura si potrà vistare anche la mostra: “Oltre lo specchio. Società e costume nel ritratto fotografico ottocentesco” prorogata fino all’8 luglio.

Dal 3 giugno il Palazzo rimarrà aperto con il consueto orario: dal martedì al venerdì dalle 10.00 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 17.30, sabato e domenica dalle 15.00-18.30.

Palazzo Falletti di Barolo è uno dei più significativi e meglio conservati esempi di residenza nobiliare Seicentesca. Gli ultimi proprietari, Carlo Tancredi Falletti di Barolo e Giulia Colbert di Maulévrier, lo trasformarono nel più celebre salotto torinese  del Risorgimento, ma anche un autentico centro di carità cristiana, di innovazione sociale. In quegli stessi anni i Marchesi accolsero Silvio Pellico, in qualità di segretario e bibliotecario. Dalla morte di Giulia, nel 1864, il Palazzo è sede dell’Opera Barolo, l’Ente creato per disposizione testamentaria al coltivare il patrimonio di valori al servizio della Città. La mostra “Oltre lo specchio. Società e costume nel ritratto fotografico ottocentesco” La mostra illustra la vivace società italiana del XIX secolo, partendo dai ritratti fotografici, rappresentazioni realistiche, veri e propri pezzi di storia. Abiti, occhiali e oggetti preziosi arricchiscono il percorso espositivo, riflesso dei simboli ritratti nelle fotografie. Nessun genere si sviluppò quanto il ritratto fotografico, divenendo parte del costume e indice di una cultura sociale e politica. Il successo fu tale che la sua invenzione decretò un progressivo ampliamento della visibilità culturale e politica delle classi più povere: il ritratto fotografico divenne testimonianza di vita, presenza e ricordo per la gente comune.

La mostra si potrà visitare liberamente con ingresso contingentato, mentre la visita agli appartamenti storici sarà condotta dalle guide interne del museo.

Le visite guidate sono scadenzate con i seguenti orari:
dal martedì al venerdì: 10.30, 11.30, 15.30 e 16.30
sabato e domenica (e martedì 2 giugno): 15.30, 16.30 e 17.30
Si consiglia pertanto la prenotazione tramite:
palazzobarolo@arestorino.it
338 1691652

L’esempio di Tobagi quarant’anni dopo

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Sono passati 40 anni dall’omicidio del giornalista del “Corriere della Sera” Walter Tobagi, ammazzato da un gruppo terrorista minore  dell’area eversiva della sinistra, composto anche da giovani di buona famiglia che uscirono dal processo con pene ridicole rispetto ad un omicidio così barbaro, collaborando e dissociandosi 

Tobagi era un mite, un tollerante, un giornalista indipendente che non si lasciava condizionare , ma era sempre alla  ricerca della notizia e dell’approfondimento. Tra i tanti giornalisti settari degli Anni Settanta che fecero della demagogia militante la loro missione, il cattolico e simpatizzante socialista Tobagi seppe distinguersi nettamente. I suoi articoli erano delle analisi lucide e spassionate. Celebre quella in cui sondò la “pancia” della provincia lombarda  nel 1976, mettendo in evidenza la rabbia della gente comune verso la politica alla vigilia del Governo di unità nazionale. Un preannuncio di quello che dieci e più  anni dopo sarebbe stato il successo della Lega in Lombardia.
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Tobagi ebbe il coraggio di scandagliare nel profondo le formazioni terroristiche, mettendone in evidenza errori, personalismi, mancanza di strategia politica. Fu simile a Carlo Casalegno che ebbe il coraggio di scrivere del terrorismo e della violenza come arma politica inaccettabile. Ambedue pagarono con la vita. Proprio nel  1980 Mario Soldati, neo presidente del Centro” Pannunzio”, lo invitò ad aprire ad ottobre la nuova stagione del Centro che vedeva in lui un esempio  di giornalismo fuori ordinanza. La morte il 28 maggio impedì quell’incontro che nella Torino ancora insanguinata dal terrorismo  sarebbe stato un atto di coraggio e un colpo a certo intellettualume giornalistico e universitario torinese ambiguo sul tema del terrorismo, malgrado la morte di Carlo Casalegno. Tobagi vide e denunciò la zona grigia che era attratta dai terroristi e, sotto sotto, simpatizzava con essi.  Anche certi ambienti milanesi radical- chic dimostrarono la loro
pochezza quando venne gambizzato Indro Montanelli. Erano ambienti  legati allo stesso “Corriere”  come Giulia Maria Crespi proprietaria della testata. Tobagi rilevò anche come veniva perseguitata la destra vista come il male assoluto da abbattere e verso cui era giustificata e persino doverosa la violenza come dimostrò “Lotta continua” in tante occasioni non ultima quella dell’Angelo Azzurro  dove fu vittima un giovane studente lavoratore arso vivo dalle molotov lanciate da personaggi che ancora oggi pretendono , come se niente fosse accaduto, di ricoprire ruoli pubblici .  Di fronte ad un grave episodio di intolleranza (ma poi ci furono anche dei morti tra i missini) nei confronti di un giovane di destra,  Tobagi andò a intervistare due coscienze dell’Italia civile: Arturo Carlo Jemolo e Norberto Bobbio. Riporto le loro dichiarazioni perché indicano la scelta della democrazia e della tolleranza che è il lascito più grande di Tobagi. Jemolo disse: <<Qualunque pensiero politico è libero e legittimo, anche se discordante con la Costituzione, purché non inciti direttamente al crimine >>. E Bobbio a sua volta disse <<Non riesco a vedere  una ragione plausibile per trattare il fascista in modo diverso da qualsiasi altra persona >>.
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Lezioni rimaste inascoltate che ci indicano il   metodo  liberale della tolleranza praticato in quegli anni solo da Marco Pannella. Nel maggio del 1978 lo conobbi di sfuggita in un convegno del “Mulino” a Bologna in cui si discuteva del compromesso storico e  il mio amico e maestro Nicola Matteucci prese le distanze da altri suoi colleghi cattolici progressisti,  aperti a quell’ipotesi nefasta che avrebbe creato in Italia la “Repubblica conciliare”  di cui parlava Spadolini. Me lo ricordo molto diverso da tanti giornalisti che conoscevo. Se non fosse stato ucciso a 33 anni, sarebbe stato un nuovo Ronchey senza l’esperienza internazionale e la cultura di Alberto, ma uguale a lui nello scrupolo nel cercare e controllare le notizie per rispetto della verità e dei lettori. Sarebbe potuto diventare un ottimo direttore del “Corriere della Sera” come Piero Ostellino , anche se dubito che una direzione Tobagi sarebbe potuta durare molto. Certo sarebbe potuta essere una direzione totalmente opposta a quella di Piero Ottone che aprì alla demagogia il giornale che fu di Luigi  Albertini. Il suo fu un esempio che i giornalistini che imperversano nelle televisioni con il loro becero e arrogante protagonismo, non conoscono e non saprebbero praticare per mancanza di professionalità, di cultura  e di umiltà. Ricordo un piccolo particolare forse insignificante per molti ma per me allora illuminante. Tobagi portava la cravatta in tempi in cui ci si presentava in tv in maniche di camicia come si fa oggi, dimostrando trascuratezza e spavalderia anche nel modo di vestire oltre che di parlare e di scrivere.  Un elemento piccolo piccolo certo, ma manifestazione di uno stile che in quegli anni si era perso del tutto.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com

Vittorio Emanuele II, il re che unì l’Italia

Mostra allestita nella Galleria di Ponente della Palazzina di Caccia di Stupinigi dal 4 marzo al 31 luglio 2020

La mostra, allestita nella Galleria di Ponente, è accessibile gratuitamente a tutti i visitatori della Palazzina; vi si accede dalla Cappella di Sant’Uberto.
E’ stato e rimane l’unico evento organizzato in Italia per celebrare il bicentenario della nascita di
Vittorio Emanuele II, avvenuta il 14 marzo 1820 a Torino.
E’ stata inaugurata il 4 marzo 2020, nella stupenda residenza scelta dall’allora duca di Savoia
Vittorio Emanuele per il suo matrimonio, nella festa liturgica del beato Umberto III, anniversario
anche della proclamazione, nel 1848, dello Statuto Albertino, la prima carta costituzionale che fu
estesa al regno d’Italia e che rimase in vigore un secolo, sino al 31 dicembre 1947.
Il bicentenario della nascita del primo Re d’Italia è un evento internazionale, che è già stato
preannunciato a Solferino e San Martino il 24 giugno 2019, nel 160° anniversario della battaglia
vinta dalle truppe di Vittorio Emanuele II e di Napoleone III.
La mostra offre documenti originali: quadri, decreti, fotografie, lettere, decorazioni etc.
Sono previste visite guidate, a cura di Maura Aimar, con il Centro Studi “Principe Oddone”, oltre
ad “Approfondimenti in mostra”, per tutta la durata dell’esposizione e nel rispetto delle norme
sanitarie e di sicurezza nazionali e piemontesi.
Organizzatori
Grazie alla concessione degli spazi da parte della Fondazione Ordine Mauriziano, la mostra è
stata organizzata dal Centro studi “Vittorio Emanuele II” (centro.ve.ii@gmail.com), presieduto
dal Dr. Alberto Casirati, con il supporto di Reale Mutua Assicurazioni e di Mag-Jlt Broker
Assicurativo ed in collaborazione con: Coordinamento Sabaudo, Associazione Internazionale
Regina Elena Onlus, Centro Studi Principe Oddone, Centro Studi Principessa Mafalda, Istituto
della Reale Casa di Savoia, Opera Principessa di Piemonte, Tricolore, associazione culturale.
Perché Stupinigi?
– Il 12 aprile 1842 vi fu celebrato il matrimonio tra il futuro Re di Sardegna Vittorio Emanuele II
e Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena.
– La palazzina ospita usualmente mostre d’arte di livello internazionale.
– La mostra sarà visitabile gratuitamente da tutti i visitatori della Palazzina, venendo compresa
nel biglietto d’ingresso.
– Saranno proposte, su richiesta, delle visite guidate dedicate alla mostra (della durata di circa
un’ora).
– Durante la mostra sono previste visite di personalità internazionali.
Perché è stata inaugurata il 4 marzo?
Il 4 marzo è una data storica doppiamente importante.
– A livello nazionale è la data della proclamazione dello Statuto Albertino, che avvenne nel 1848
da parte del 39° capo della Dinastia sabauda, il 21° duca di Savoia e 7° (e penultimo) Re di
Sardegna Carlo Alberto (1831-49), padre di Vittorio Emanuele II, che estese al Regno d’Italia lo
Statuto paterno, che fu in vigore per un secolo, dal 4 marzo 1848 al 31 dicembre 1947.
– A livello sabaudo è la festa liturgica del Beato Umberto III, 8° conte di Savoia (1148-89), del
quale è conservato un importante quadro ligneo nella sala del cervo, all’ingresso del percorso
museale di Stupinigi.
Origini della palazzina
Nel XVI secolo, per volontà del duca di Savoia Emanuele Filiberto, il castello e le terre adiacenti
vennero lasciate all’Ordine Mauriziano.
Nei boschi di Altessano, a metà del Seicento, venne costruita la reggia di Venaria Reale.
La palazzina di caccia di Stupinigi fu originariamente una residenza dedicata alla pratica
dell’attività venatoria, costruita per Vittorio Amedeo II, duca di Savoia e re di Sardegna, fra il
1729 ed il 1733, su progetto dell’architetto Filippo Juvarra. Fu inaugurata alla festa di sant’Uberto
del 1731 ma la vera inaugurazione del complesso alla vita di corte avvenne nel 1739, in
occasione della visita a Torino del granduca di Toscana Francesco di Lorena, futuro imperatore
del Sacro Romano Impero e fratello della regina di Sardegna Elisabetta Teresa.
Facente parte del circuito delle residenze sabaude in Piemonte, nel 1997 il sito è stato proclamato
patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
La palazzina dista circa 10 km dal centro storico di Torino.
Luogo di ricevimenti e di eventi internazionali
La Palazzina ospitò importanti ricevimenti, in particolar modo la festa del 1773 per il
matrimonio tra Maria Teresa di Savoia ed il conte d’Artois (il futuro re di Francia Carlo X dal
1824), l’imperatore Giuseppe II nel 1769, lo zarevic Paolo Romanov (il futuro zar Paolo I) e sua
moglie nel 1782, e il re di Napoli Ferdinando I di Borbone, con la moglie Carolina, nel 1785. Il
12 aprile 1842 vi fu celebrato il matrimonio tra il duca di Savoia, futuro re di Sardegna poi
d’Italia Vittorio Emanuele II, e Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena.
La Palazzina ospita periodicamente mostre d’arte di livello internazionale.
La pianta della Palazzina è definita dalla figura dei quattro bracci a croce di Sant’Andrea,
intercalati dall’asse centrale che coincide col percorso che da Torino porta alla reggia tramite un
bellissimo viale alberato che fiancheggia cascine e scuderie, antiche dipendenze del palazzo. Il
cuore della costruzione è il grande salone ovale a doppia altezza dotato di balconate ad
andamento “concavo-convesso”, sormontato dalla statua del “Cervo”. L’interno è in Rococò
italiano, costituito da materiali preziosi come lacche, porcellane, stucchi dorati, specchi e radiche
che, oggi, si estendono su una superficie di circa 31.000 metri quadrati, mentre 14.000 sono
occupati dai fabbricati adiacenti, 150.000 dal parco e 3.800 dalle aiuole esterne; in complesso,
sono presenti 137 camere e 17 gallerie.
La costruzione si protende anteriormente racchiudendo un vasto cortile ottagonale, su cui si
affacciano gli edifici di servizio.
Tra i pregiati mobili fabbricati per la palazzina vanno ricordati quelli dell’intagliatore Giuseppe
Maria Bonzanigo, di Pietro Piffetti e di Luigi Prinotto.
L’edificio conserva decorazioni dei pittori veneziani Giuseppe e Domenico Valeriani, di Gaetano
Perego e del viennese Christan Wehrlin. Vanno ricordati inoltre gli affreschi di Vittorio Amedeo
Cignaroli, Gian Battista Crosato e Carlo Andrea Van Loo.
La Palazzina di caccia e il suo parco hanno ospitato in particolare: la mostra della pittrice Jindra
Husàrikovà (1987), tutte le puntate della 27ª edizione dei Giochi senza frontiere (1996), le
riprese di scene della fiction “Elisa di Rivombrosa”, la fase di qualificazione e di eliminazione
dei campionati mondiali di tiro con l’arco 2011, riprese dei film “Guerra e pace”, “I banchieri di
Dio” e “Prendimi l’anima”, il set per la versione televisiva della Cenerentola di Rossini diretta da
Carlo Verdone, il set del film Ulysses – A dark odissey, lo Stupinigi Sonic Park etc.

Tre serbi, due musulmani, un lupo

Riletture / Prijedor, Bosnia Erzegovina, in quella che oggi è la terza città della Repubblica serba di Bosnia (Rs), tra la primavera e l’estate del 1992 accaddero cose spaventose. Sembrava d’essere tornati ai tempi del nazismo. Gli ultranazionalisti serbo-bosniaci vogliono sradicare i “non serbi”, danno la caccia ai musulmani e lo fanno con le deportazioni e  gli omicidi. Vengono creati per quest’ultimo scopo tre campi di concentramento e, spesso, di sterminio. Nomi che, alla memoria, suonano tremendi: Omarska. Keraterm. Trnopolje. In quest’ultimo luogo, composto da una scuola, una casa del popolo e un prato, vengono recluse tra le quattromila e le settemila persone. Ed è lì e nei dintorni che è ambientata la storia narrata nel libro di Luca Leone e Daniele Zanon. “Tre serbi, due musulmani e un lupo” è un racconto di fantasia, ma poggia su solide basi storiche e di testimonianza. Questo libro non è solo un romanzo, ma anche un reportage di quanto accaduto in un tempo troppo vicino a noi per non conoscere o non voler sapere. Vengono evocati un quadro terribile di violenze, sopraffazioni, omicidi, odio nazionalista e un clima allucinante, nel quale l’aria è impregnata dell’odore del sangue, della paura e del terrore. Non a caso Luca Leone e Daniele Zanon scrivono che “il Male era tornato nel cuore dell’Europa e aveva messo radici a Prijedor, mezzo secolo doo la fine dell’Olocausto”. Pagina dopo pagina si viene a contatto con il dramma della famiglia bognacca degli Imanović e di quella serbo-bosniaca dei Mirković, con il ghigno orribile del sergente Goran “la carogna”, con i paramilitari serbi e i mercenari russi del colonnello Karpov, la “parte peggiore dell’umanità”. L’allucinante vicenda che vede protagonisti cinque tredicenni – Zlatan, Jelena e Milo, tre ragazzi serbi, Faris ed Emina, due fratelli musulmani – e il lupo Vuk si svolge in un universo violento, angosciante e claustrofobico in cui i personaggi sono quasi tutti conoscenti, vicini di casa. La tragedia cresce d’intensità quasi sempre preannunciate dal cambiamento dei rapporti, dal manifestarsi di integralismi e sospetti, dall’astio e dalla diffidenza, fino a giungere alla violenza e alla sopraffazione. Il ritmo della narrazione è serrato e si dispiega dando senso alle storie e alla terribile Storia della prima parte della “decade malefica” che insanguinò il cuore europeo dei Balcani al tramonto del ‘900, negli ultimi, lividi anni del secolo “breve” con il riacuirsi dei nazionalismi e il rifiorire dei conflitti armati. Tra le righe sembra di avvertire, quasi fisicamente, la disperata speranza di Faris quando urla alla sorella, mentre viene spinto lontano da lei con crudeltà, da un miliziano armato di kalashnikov, “Non può durare!”,“Il mondo non potrà starsene in silenzio a guardare”. E, invece, il mondo aveva lo sguardo rivolto altrove. “Chi è che sa di che siamo capaci tutti, vanificato il limite oramai”, si ascolta in Memorie di una testa tagliata dei CSI di Giovanni Lindo Ferretti. Lì il limite venne vanificato una, dieci, cento, mille e mille volte. E tutto ciò sotto gli sguardi distratti, lontani, indifferenti e bui dell’Occidente e del “mondo”. Cercare di salvare la vita ai due giovani bosgnacchi, rischiando la propria è la “missione” che intraprendono i tre giovanissimi serbi con Vuk, il lupo di Jelena. Una vicenda terribilmente avvincente, disperatamente angosciante, quasi impossibile e senza speranza. Il contesto in cui si svolge è tremendamente reale e rimanda alla memoria di cosa è stata la pulizia etnica in Bosnia in quegli anni disgraziati e violenti, dove la vita di migliaia di persone, dalla sera alla mattina, di punto in bianco non valeva più nulla. Nel vortice dell’ubriacatura ultra nazionalista, dell’indegna impunità dei paramilitari filo serbi, la storia dei cinque ragazzi e del coraggioso Vuk inchioda il lettore al testo dall’inizio alla fine. Il merito di Leone e Zanon è di non far dimenticare ciò che avvenne realmente nel cuore della civilissima Europa, meno di trenta anni fa, un tempo molto vicino, del tutto contemporaneo e spesso rimosso dalla cattiva coscienza e dal desiderio di non fare i conti con quella indifferenza che ancora oggi genera odi, srotola fili spinaci, innalza muri. Nel campo della miniera di ferro a Omarska, almeno tredicimila persone vennero internate e tremila di loro furono torturate, uccise e inumate in fosse comuni, ancora oggi in buona parte da individuare e riaprire per dare, chissà quando, degna sepoltura ai corpi che lì sotto giacciono. L’area di Prijedor, nella Bosnia settentrionale, conobbe le stesse violenze di Višegrad e Srebrenica. Vennero eliminate le persone “non serbe”, mentre la comunità internazionale fingeva di non sapere nulla e lasciava fare, non intervenendo e, per certi versi, rendendosi complice nell’avallare la pulizia etnica, lo stupro di massa, le violenze più atroci. Le pagine finali raccontano quei giorni e quei mesi con fatti, luoghi, date su quanto accadde veramente a Prijedor e dintorni e con la testimonianza di Alma che fece l’esperienza terribile di Trnopolje a sedici anni. Tre serbi, due musulmani e un lupo è un libro da leggere “in nome della memoria e della giustizia”.

Marco Travaglini

Da giovedì riapre Palazzo Madama

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, dopo oltre 80 giorni di chiusura a causa delle misure di contenimento dovute all’emergenza sanitaria da Covid-19, riapre finalmente al pubblico.

La Fondazione Torino Musei invita il pubblico a riappropriarsi del Palazzo simbolo della Città e delle collezioni del museo in assoluta sicurezza. L’ingresso sarà contingentato e, grazie ad alcune semplici norme di comportamento sarà assicurata una visita piacevole e sicura.

 

Il museo osserverà i giorni e gli orari di apertura:

giovedì – venerdì dalle 13.00 alle 20.00 – sabato e domenica dalle 10.00 alle 19.00

 

Martedì 2 giugno Festa della Repubblica dalle 10.00 alle 19.00

Palazzo Madama sarà aperto anche lunedì 1° giugno con orario 13.00-20.00 e mercoledì 24 giugno, festa patronale di San Giovanni con orario 10.00 – 19.00

 

In particolare, saranno visitabili le sale delle collezioni permanenti e le mostre:

 

Palazzo Madama sarà finalmente possibile tornare ad ammirare i capolavori di Andrea Mantegna con la grande mostra prorogata al 20 luglio, mentre l’esposizione prevista Argenti preziosi. Opere degli argentieri piemontesi nelle collezioni di Palazzo Madama sarà aperta dal 2 luglio (in allegato i comunicati stampa). Saranno accessibili il percorso dedicato al Gotico e Rinascimento, il piano nobile del museo e la raccolta di vetri e ceramiche del secondo piano, mentre sono temporaneamente chiuse le sale del Lapidario, il Giardino medievale e la Torre panoramica.

 

Modalità di accesso

La Fondazione Torino Musei ha affrontato la delicata fase verso la riapertura lavorando con il Politecnico di Torino, che ha condotto l’iniziativa di ricerca “Imprese aperte, lavoratori protetti”. Il gruppo di esperti tecnico-scientifici ha elaborato un Rapporto contente le indicazioni che la Fondazione ha acquisito e inserito nelle procedure messe in atto per garantire la visita ai musei in massima sicurezza.

 

 

Informazioni principali per i visitatori:

 

–          All’ingresso sarà misurata la temperatura. Non sarà consentito l’accesso al visitatore con temperatura superiore o uguale a 37,5°C. In tal caso anche gli eventuali accompagnatori non potranno accedere al museo

–          L’accesso sarà consentito a un numero contingentato di visitatori finalizzato a garantire un’adeguata distanza interpersonale. Tutti i percorsi di visita saranno guidati da un’apposita segnaletica e dal personale di sala presente

–          I visitatori in coda e nel corso della visita in museo sono tenuti a mantenere la distanza interpersonale di sicurezza

–          Per tutta la permanenza in museo sarà obbligatorio indossare correttamente la mascherina

–          Sono previsti erogatori di soluzione igienizzante idroalcolica a disposizione del pubblico

–          La prenotazione per l’accesso al museo e alle mostre è consigliata ma non obbligatoria.

 

La Fondazione Torino Musei assicura la regolare, costante e periodica pulizia e igienizzazione degli ambienti museali. Tutto questo per garantire una visita piacevole e sicura.

 

 

Per informazioni www.palazzomadamatorino.it e www.fondazionetorinomusei.it

Riapre la Palazzina di Caccia di Stupinigi

Riapre al pubblico martedì, dopo la chiusura per l’emergenza  Covid-19, la Palazzina di Caccia di Stupinigi.

Anche nella residenza sabauda sono state predisposte misure sanitarie e norme comportamentali come l’accesso contingentato.

Il pubblico e il personale interno seguiranno nuove norme di sicurezza adeguate  agli standard museali internazionali e numero dei visitatori, che dovranno indossare la mascherina e stare a 2 metri di distanza, è stato ridotto. Inoltre i  visitatori avranno la possibilità di acquistare il proprio biglietto (solo biglietti interi) sul sito http://www.ordinemauriziano.it/palazzina-di-caccia-stupinigi.

(foto V. Maiorano)

Il Fai riapre le porte dei beni storici

Fondo Ambiente Italiano  da venerdì 22 maggio :  Castello e Parco di Masino, Caravino (TO) e Castello della Manta (CN)
SOLO SU PRENOTAZIONE

Per prenotazioni, orari, prezzi ed eventuali modifiche sui percorsi di visita:
www.ibenidelfai.it

Il FAI – Fondo Ambiente Italiano, dopo due mesi di isolamento, riapre i suoi Beni su tutto il territorio nazionale e inaugura una nuova fase, per guardare con fiducia al futuro del Paese ed esaudire la voglia di Italia degli Italiani, ansiosi di ritrovare e riscoprire il proprio patrimonio di arte, natura e bellezza. Da venerdì 22 maggio 2020 molti dei Beni storici, artistici e paesaggistici della Fondazione saranno nuovamente aperti al pubblico, che potrà usufruire di visite libere o guidate esclusivamente su prenotazione, al fine di garantire la massima sicurezza per tutti.

In Piemonte riaprirà le porte il millenario Castello di Masino a Caravino (TO), la sontuosa dimora di una delle più illustri casate piemontesi, discendente nel mito da Arduino, re d’Italia: oltre a visitare saloni affrescati e arredati, si potrà passeggiare nel monumentale parco all’inglese con il panoramico viale alberato affacciato sulla Serra Morenica di Ivrea, i giardini all’italiana “dei Cipressi” e “delle Rose”, il tempietto neogotico e lo sconfinato Prato di Eufrasia, alla scoperta di alberi millenari e delle fioriture stagionali.

Si potrà tornare ad ammirare il Monviso, circondato dalla splendida cornice delle Alpi Cozie, dallo speciale palcoscenico del parco del Castello della Manta (CN), una fortezza medievale dal fascino severo, che nel suo Salone Baronale custodisce una delle più stupefacenti testimonianze della pittura tardogotica profana, ispirata ai temi dei romanzi cavallereschi.

Per scoprire caratteristiche, segreti e curiosità del Castello di Masino e del territorio in cui si trova verrà offerta una preziosa opportunità: con la ricevuta di acquisto del biglietto i visitatori riceveranno via mail l’accesso ad un sito web dedicato ai contenuti di accompagnamento alla visita. Potranno così consultare già da casa, oppure durante la visita e lungo il percorso (anche tramite QR code in biglietteria), tanti e diversi materiali di introduzione, spiegazione e approfondimento: dalle schede descrittive di luoghi e oggetti, a vere e proprie visite guidate con guide d’eccezione, da ascoltare in podcast (ricordarsi gli auricolari!); da brevi racconti video a suggerimenti di itinerari a piedi o in bici nei dintorni del Bene FAI, per prolungare la visita e magari organizzare un’intera giornata all’aria aperta.

MODALITÀ DI VISITA IN SICUREZZA

Per consentire al pubblico di visitare i Beni nella massima sicurezza, il FAI si è preoccupato di garantire il pieno rispetto dei principi definiti dal Governo a partire dal mantenimento della distanza sociale. In tutti i Beni la visita sarà contingentata per numero di visitatori e, ove possibile, organizzata a “senso unico” per evitare eventuali incroci. Le stanze più piccole e quelle che non permettono un percorso circolare saranno visibili solo affacciandosi; le porte saranno tenute aperte onde ridurre le superfici di contatto. Sarà d’obbligo indossare la mascherina per tutta la durata della visita. Saranno inoltre a disposizione dispenser con gel igienizzante sia in biglietteria che nei punti critici lungo il percorso.

Il giorno precedente la visita, i partecipanti riceveranno una mail con le indicazioni sulle modalità di accesso e un link da cui scaricare i materiali di supporto, che non saranno più distribuiti in formato cartaceo. Chi visiterà il Castello di Masino potrà acquisire i materiali digitali anche in loco grazie a un QR code scaricabile direttamente in biglietteria. Per rendere più sicuro il percorso e arricchire l’esperienza, la visita al Castello della Manta sarà guidata: un calendario di visite tematiche che si alterneranno le une alle altre per ogni giornata di apertura. La visita guidata è compresa nel prezzo del biglietto di ingresso.

L’accesso alla biglietteria, al bookshop e ai locali di servizio sarà permesso a un visitatore o a un nucleo famigliare alla volta; nei negozi FAI i clienti dovranno indossare, oltre alla mascherina, anche i guanti. Si invita inoltre a effettuare gli acquisti con carte di credito e bancomat, per ridurre lo scambio di carta tra personale e visitatori.
Tutte le postazioni di lavoro e le aree comuni saranno sottoposte a igienizzazione costante e proporzionata all’utilizzo. Sarà garantito un adeguato ricambio di aria nei locali tramite ventilazione naturale o grazie a impianti regolarmente sanificati.

Apertura a partire da venerdì 22 maggio 2020
per prenotazioni, orari, prezzi ed eventuali modifiche sui percorsi di visita: www.ibenidelfai.it

Visite: solo su prenotazione, in autonomia o guidate; all’ingresso sarà accettata la presentazione del voucher sul dispositivo elettronico. L’accesso alla biglietteria sarà consentito a una persona (o famiglia) alla volta; si prega di rispettare la fila mantenendo le distanze di sicurezza di almeno 1,5 metri. L’accesso è vietato a chi abbia una temperatura corporea superiore a 37.5° o altri sintomi influenzali.

Per prenotazioni e informazioni:
La prenotazione online è obbligatoria; per effettuarla accedere al sito www.ibenidelfai.it
Per ulteriori informazioni:
faimasino@fondoambiente.it; tel. 0125 778100
faimanta@fondoambiente.it; 0175 87822

La riapertura e il calendario “Eventi nei Beni del FAI 2020” sono resi possibili grazie al fondamentale sostegno di Ferrarelle, partner degli eventi istituzionali e acqua ufficiale del FAI, al prezioso contributo di NESPRESSO, nuovo importante sostenitore del progetto, e di PIRELLI che conferma per l’ottavo anno consecutivo la sua storica vicinanza alla Fondazione. Grazie a Golia Herbs che rinnova nel 2020 il suo sostegno al FAI.

www.fondoambiente.it

(foto Paolo Barucci)

L’antifascismo basta a capire la crisi odierna?

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / E’ uscito un libretto interessante e dal titolo provocatorio L’antifascismo non serve più a niente, scritto da Carlo Greppi, edito da Laterza 


Greppi, che è storico stimabile, intende confutare la tesi secondo la quale il fascismo sia morto e si propone di dimostrare la permanente attualità dell’ antifascismo. Addirittura Greppi cita l’affermazione storicamente infondata di Ferruccio Parri – confutata da Benedetto Croce – secondo la quale la democrazia in Italia fosse nata solo nel 1945 . Una “vulgata” alla Franco Antonicelli che riteneva che la storia d’ Italia iniziasse il 25 aprile 1945.
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Chi voglia accostarsi a questi temi storicamente deve distinguere l’antifascismo dei resistenti rispetto all’antifascismo di chi vive oggi ad oltre 75 anni da quei fatti. Il mito dell’antifascismo si è naturalmente logorato e attutito perché dopo molti decenni è insostenibile una tesi non storicizzata, ma affermata come un dogma laico di fede. La storia usura tutto, ma in ogni caso essa impone delle distanze critiche che sole consentono una valutazione più equa e complessiva dei fatti. Chi, ad esempio, ha demonizzato Giampaolo Pansa per i sui libri su verità scomode tenute nascoste per tanti anni, ha esercitato la sua presunzione e la sua arroganza, ma non ha dimostrato di sapere fare lo storico serio perché ha sempre taciuto sul “sangue dei vinti”. Renzo De Felice rappresenta l’elemento di frattura nella storiografia: prima di lui la storia del fascismo era dichiaratamente antifascista, dopo di lui la storiografia deve trattare del fascismo con il distacco imposto agli storici,quindi senza apriorismi ideologici. Augusto Del Noce già tanti anni fa sostenne con grande lucidità come una cultura politica non potesse reggere a lungo fondandosi sull’anti senza proporre qualcosa in positivo. Del Noce, in linea di principio, aveva ragione, ma va detto che l’antifascismo è riuscito ad esprimersi anche  in positivo, scrivendo a molte mani la Costituzione della Repubblica che, bene o male, più bene che male, ha saputo reggere e ha garantito libertà e democrazia. Andrebbe ancora detto che l’antifascismo italiano si è quasi identificato con i comunisti che hanno esercitato la loro egemonia sulla Resistenza quasi fosse stata un loro monopolio. L’antifascismo in  Francia, ad esempio, si è identificato invece nel generale De Gaulle e quindi ha tutt’altra matrice ed è diventato da subito una scelta ampiamente condivisa. E’ chiaro che chi ha avversato il comunismo abbia avuto anche delle riserve su una Resistenza monopolizzata, malgrado ad essa abbiano partecipato uomini e donne di diversissimo orientamento. Ma è fuor di dubbio che i comunisti attraverso l’ ANPI abbiano etichettato la Resistenza in una sola direzione. Un ultimo punto va messo in evidenza: il fascismo è nato anche come reazione ai tentativi rivoluzionari di cent’anni fa volti a ripetere la rivoluzione bolscevica in Italia, malgrado non ce ne fossero le condizioni storiche. Bobbio diceva che tentarono una rivoluzione e provocarono una reazione. La sinistra italiana negli anni dell’ immediato dopo guerra, dal 1919 in poi, (il famoso diciannovismo su cui scrisse Pietro Nenni pagine illuminant ) dimostrò di non aver capito la lezione di Lenin secondo il quale l’estremismo era una malattia infantile del comunismo. A generare il fascismo, che non è una tara ereditaria della storia italiana come diceva Gobetti, ma semmai una malattia come sostenne Croce, è sempre l’estremismo di sinistra, come dimostrarono anche il ‘68 e gli anni successivi alla contestazione che portarono agli anni di piombo e al terrorismo rosso e nero.
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Il limite del libro di Greppi è che egli non coglie che  per capire un ‘eventuale tentazione autoritaria non basta più la chiave interpretativa del fascismo o dell’antifascismo. Il fascismo di Mussolini è morto nel 1945 e sarebbe impossibile resuscitarlo. I regimi populisti e sovranisti del nuovo secolo si ispirano ad un ossimoro impossibile: la democrazia illiberale che è altra cosa dalla dittatura fascista. Formalmente certe libertà che il fascismo aveva calpestato restano, persino i Parlamenti restano ,sia pure con poteri più deboli e formali. Ma la tentazione dell’ uomo forte non nasce da nostalgie fasciste, ma da cause molto più complesse legate ad un’economia in crisi e alla caduta di valori civici ed anche etici  di riferimento.  Il nichilismo scettico ed egoistico ha finito di corrompere la democrazia e a vanificare la partecipazione alla vita della Polis. Dopo la pandemia poi il discorso si complica ulteriormente e in ogni caso non riguarda per nulla l’antifascismo. Se i modelli di riferimento della sinistra sono in crisi essi non rinasceranno guardando al passato dell’antifascismo , ma semmai al futuro che è tutto da immaginare. Già anni fa Piero Fassino parlava della crisi del tipo di rappresentanza democratica di matrice novecentesca. Ma quasi nessuno ha ancora pensato in positivo a come si possa uscire da questa crisi che indebolisce i cardini della democrazia. Questo è il terreno su cui confrontarsi nell’oggi, hic et nunc. Ma forse latitano le energie intellettuali per procedere ad un’analisi e a una sintesi o forse i tempi non sono ancora maturi per tentare un lavoro del quel tipo. Dire ,come fa Luciano Canfora, recensendo sul “Corriere della Sera” il libro di Greppi e citando Mieli, che dopo la pandemia “la prossima può essere un’epoca di fascismi”, appare un’affermazione lecita, ma non attendibile. Oggi le minacce alle democrazie liberali sono molte e guardare solo al fascismo appare un grave errore. Come fu un errore storico  di Canfora guardare al mito comunista come alla soluzione di tutti i problemi, almeno fino a quando il Muro di Berlino non cadde e non implose il socialismo reale. Anche allora bisognava stare vigili e bisognava  denunciare con pari fermezza  le minacce alla democrazia che venivano dal comunismo sovietico.

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Scrivere a quaglieni@gmail.com

Alla ricerca delle Grotte Alchemiche

Torino, bellezza, magia e mistero

Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli

Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche

Una delle zone più belle e più incantate di Torino è sicuramente piazza Castello. Si, perché la piazza è magica sia sopra che sotto. Se in superficie la zona è costellata da talismani e caricatori di energia positiva e in più si trova nelle vicinanze un portale destinato a pochi sapienti iniziati, sotto, nell’oscurità della terra, si diramano le celebri, tanto cercate e mai trovate Grotte Alchemiche. E non è un caso che, ancora oggi, la celebrazione del Santo Patrono si effettui proprio su questo suolo. I festeggiamenti odierni affondano le radici nell’antica e pagana usanza dei falò, i fuochi di mezza estate che avevano lo scopo di contrastare simbolicamente l’avanzata del buio che si estendeva sulla terra. I fuochi venivano accesi la notte del 25 giugno, come buon auspicio per le sementi, mentre le piante raccolte prima dell’alba avrebbero avuto poteri magici. La festività, successivamente, venne fatta coincidere con la celebrazione di San Giovanni. Ma andiamo per ordine.
Nel 1925 viene deposta sotto i portici della Prefettura, dal lato del Teatro Regio, una lapide dello scultore Dino Somà in onore degli immigrati che dal Sud America tornarono in Italia per combattere nella Grande Guerra e caddero al fronte. Alla base è posto un tondo rappresentante Cristoforo Colombo, in atteggiamento pensoso, nell’atto di misurare un mappamondo con un compasso; sullo sfondo una caravella. Il talismano di piazza Castello si trova nascosto proprio in quest’opera patriottica, precisamente nel mignolo della mano destra di Colombo che viene in fuori. Se decidete di credere a certe storie, sfregare il dito che sporge dal medaglione bronzeo del celebre navigatore parrebbe portare la sorte dalla vostra parte. E a giudicare dalla netta doratura, si direbbe, a discapito degli scettici, che di persone che “toccano dito” prima di affrontare una qualche difficoltà a Torino ce ne siano un bel po’. Il contatto diretto con certi “amuleti” non è solo prerogativa di questo luogo torinese, infatti si sa che porta fortuna toccare il “porcellino” alla Loggia dei Mercati a Firenze, precisamente in quel caso è necessario mettere una moneta sulla lingua dell’animale, lasciare che scivoli giù, e infine accarezzargli il muso.

Anche sfiorare il “piede” della statua di San Pietro, ubicata all’interno dell’omonima basilica, pare porti benefici positivi, così come toccare il “piede” della Madonna nera di Oropa, (che ora è stata inserita all’interno di una teca e distanziata dal pubblico), che però non pare consumato. Questo perché ogni religione, per quanto aniconica, ha i suoi oggetti sacri o magici, ed essi sono considerati come una sorta di collegamento diretto tra due dimensioni, il tramite attraverso cui l’uomo può raggiungere il trascendente. Certe volte non si ha solo bisogno “di un po’ di fortuna”, ma può capitare che si senta la necessità di “ricaricarsi”, di riacquisire energia perduta, e allora bisogna fare un bel sospiro e fermarsi, ma nel punto giusto. È opportuno allora avvicinarsi al Padiglione, o Pavaglione, la grande cancellata ornata con le dorate teste di Medusa, che separa piazza Castello dalla Piazzetta Reale, e soffermarsi proprio nel punto in cui le due statue dei Dioscuri aprono il varco per il passaggio: ecco, se ci si mette in linea retta con la cancellata, a metà tra Castore e Polluce, ci si troverà in quello che è definito il cuore bianco di Torino. Secondo coloro che studiano tali materie, questo sarebbe anche il punto che divide le energie positive da quelle negative, perché, come si è sostenuto più volte, per mantenere l’equilibrio, al cuore bianco corrisponde un cuore nero, che non si troverebbe poi così distante. Prima di andare via, dopo esserci inebriati di positività e aver toccato il mignolo di Colombo, perché “non si sa mai”, sediamoci su una panchina, affacciamoci sulla piazza e guardiamo verso il basso, ora proviamo a immaginarci cosa accade lì sotto. È abbastanza noto che a Torino ci siano le Grotte Alchemiche, secondo alcuni sarebbero situate tra piazza Castello e i Giardini Reali, ma il vero problema è entrarvi, poiché pare siano stati posti numerosi ingressi fittizi proprio per sviare e stancare i curiosi insistenti. Cosa accade dunque in queste Grotte Alchemiche? E che cos’è allora l’alchimia? Che cosa vogliono gli alchimisti? Intanto pare che le Grotte siano tre, nella prima si dominano le leggi della fisica, nella seconda si contattano forme di esistenza più evolute, nella terza si entra in altre dimensioni al di là del tempo e dello spazio. Non dobbiamo però commettere l’errore di prendere alla leggera questa presenza, non bisogna immaginare bizzarri laboratori stregoneschi in cui si aggirano loschi e avidi individui, al contrario, gli studi e le ricerche che si svolgerebbero nelle Grotte, sono volte all’arricchimento dell’anima e della conoscenza.

L’alchimia è un’antica filosofia esoterica che tocca diversi ambiti disciplinari, dalla chimica, alla fisica, all’astrologia, ancora la metallurgia e la medicina. Il termine deriva dall’arabo al-khīmiyya  (الكيمياء o الخيمياء), “pietra filosofale”, che è il greco tardo χυμεία, “fondere”, colare insieme”, “saldare”. L’alchimia è materia complessa, anche perché implica l’esperienza di crescita personale di chi la pratica. In tal senso, la disciplina può essere paragonata alla metafisica o alla filosofia, in quanto i processi e i simboli alchemici, oltre al significato di trasformazione materiale, possiedono un significato interiore, relativo allo sviluppo spirituale. Gli obbiettivi dell’alchimia sono conquistare l’onniscienza, creare la panacea universale, ossia un rimedio per curare tutte le malattie e prolungare la vita, la ricerca della pietra filosofale, cioè la sostanza catalizzatrice capace di risanare la corruzione della materia. Ora che sappiamo che cosa cercare, siamo sicuri di volerle trovare queste Grotte? A quanto pare i Savoia avrebbero risposto positivamente, dal momento che ricoprirono un ruolo di massima importanza per quel che riguarda la storia dell’alchimia piemontese. Alcuni esponenti della famiglia si interessarono più di altri alla materia, come Carlo Emanuele I, il Testa’d feu, che si fece costruire un laboratorio alchemico nei sotterranei del castello, o la Madama Reale, che pare si fosse messa in combutta con un mago francese, un certo Craonne. Non sappiamo se qualche esponente della famiglia reale riuscì in definitiva a trovare gli antri magici di cui stiamo parlando, ma qualcun altro invece si: Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, (1493-1541), noto come Paracelso, Michel de Notre-Dame,(1503-1566), ossia Nostradamus e tale Giuseppe Balsamo, conosciuto con il nome di Cagliostro. Data la levatura intellettuale che caratterizzò questi personaggi, non sentiamoci eccessivamente in difetto per non essere stati ritenuti degni di scorgere l’accesso alle Grotte. Dunque, alziamoci dalla nostra panchina e continuiamo la nostra passeggiata, passando, però, per quello che pare essere uno degli ingressi ai saperi ctoni, cioè la Fontana del Tritone, posta all’interno dei Giardini Reali. Si dice che dopo tre giri intorno alla costruzione, un elementale apra l’ingresso invisibile, ovviamente solo a chi è ritenuto degno di tale onorificenza. Probabilmente così non sarà, ma perché non correre il rischio?

Alessia Cagnotto