STORIA- Pagina 136

Il torinese che rattoppa il Santo Sepolcro

In missione, da Venaria Reale a Gerusalemme. Una missione molto speciale, unica, affascinante, da brividi. Restaurare l’interno del Santo Sepolcro, rimettere in sesto il pavimento di duemila anni fa composto da grosse pietre calpestate nei secoli da sovrani, imperatori, papi, crociati, sultani e califfi, nonché da milioni di turisti

Uno straordinario lavoro di rattoppo interrotto dall’emergenza virus ma che presto riprenderà. Almeno così spera l’architetto Stefano Trucco, responsabile del Centro conservazione e restauro della Venaria Reale che guida la spedizione in Terra Santa insieme agli archeologi dell’Università La Sapienza di Roma.

“Se tutto andrà bene, confida Trucco, riprenderemo i lavori a settembre. Purtroppo le conseguenze del virus hanno portato alla chiusura totale della basilica. Noi abbiamo lasciato Israele alla fine di febbraio e ora l’ingresso è vietato anche ai custodi, a padre Pizzaballa e al Custode di Terra Santa padre Patton”. La prestigiosa istituzione venariese si occuperà dello studio preliminare e del restauro del pavimento della Basilica che la tradizione cristiana identifica come il luogo dove Gesù Cristo venne sepolto dopo la crocifissione e dove avvenne la Resurrezione. I lavori di restauro del Santo Sepolcro di Gerusalemme sono fermi da quando il coronavirus ha colpito anche Israele. Stefano Trucco, veneziano ma torinese da decenni per motivi di lavoro, ha il delicato compito di riportare all’antico splendore la chiesa di Costantino il Grande. Per Trucco e la sua equipe si tratta di un’impresa straordinaria: sistemare la pavimentazione interna alla Basilica che racchiude il sepolcro di Cristo dentro l’Edicola. Il pavimento è oggi molto malmesso, con lastroni mancanti e pietre sconnesse che rendono disagevole il percorso. Un intervento eccezionale: ogni pietra, vecchia di secoli, verrà datata e mappata, ed è stato scoperto che ci sono ancora pietre che risalgono al 325, al tempo in cui Costantino fece edificare la prima chiesa sui luoghi della Passione di Gesù. Un lavoro reso ancora più complesso dalla presenza massiccia e continua dei pellegrini che possono visitare la basilica dal mattino fino alle otto di sera. Poi tocca alle tre comunità cristiane, la Custodia di Terrasanta, il Patriarcato armeno e il Patriarcato greco-ortodosso, ripulire il pavimento spargendo petrolio e risistemare l’intero ambiente. Finite le pulizie di rigore entrano in scena gli Indiana Jones di Venaria che però hanno a disposizione soltanto tre-quattro ore perchè a mezzanotte ripartono le funzioni religiose dei cristiani, una comunità alla volta, che proseguono tutta la notte. I lavori saranno finanziati dalle tre principali comunità cristiane presenti all’interno del Santo Sepolcro: i due Patriarcati, greco-ortodosso e armeno e la Custodia di Terrasanta.

Filippo Re

Nuova vita per i Musei e i giardini reali

L’ estate porterà nuovi allestimenti ai Musei Reali. Il mese di maggio (se ancora non sarà possibile la riapertura) servirà a riattivare il  cantiere dei Giardini

Una volta terminati i lavori verranno posizionate nuove grandi fioriere.

Per quanto riguarda i programmi, come anticipa il quotidiano La Stampa, alla riapertura si terranno corsi di acquerello all’aperto  e percorsi sensoriali guidati  da esperti tra piante secolari  e  fiori. Per la fine dell’estate è prevista l’inaugurazione  dei  giardini di levante, quelli che si affacciano  su viale dei Partigiani.

 

(foto: il Torinese)

Le curiosità di Gianni Oliva. Pillole di storia in libertà

La cultura non si ferma con l’isolamento, come la bellezza,  la clausura non trattiene il sapere, la storia continua a scorrere, il pensiero e  le parole, per buona fortuna, sono libere di circolare.

L’esperienza che tutti noi stiamo vivendo ha ridotto le nostre vite ad una reclusione invadente che durerà probabilmente ancora a lungo, questo però non ci impedirà di imparare, di leggere, di studiare anzi possiamo farlo di più e meglio. 

Il tempo improvvisamente è lì, a nostra disposizione come mai avremmo immaginato, utile soprattutto per approfondire ed arricchirci; la tecnologia, complice di questa profusione di informazioni in licenza, ci supporta moltissimo nell’apprendimento attraverso i social media, gli e-book, con siti ed edizioni speciali e lascia la porta aperta alla conoscenza.

In passato situazioni difficili e di isolamento forzato hanno portato ad invenzioni eccezionali, idee ed opere straordinarie lasciando tracce importanti e significative che hanno cambiato per sempre la nostra vita.

Alcuni di questi interessanti avvenimenti e scoperte ce li racconta lo storico  e scrittore Gianni Oliva che  ha creato una vera e propria serie di Curiosità Storiche in pillole costituite da mini-puntate della durata di 3 o 4 minuti ciascuna; questi episodi sono dedicati ad eventi e fatti storici a cui sono legate curiosità, abitudini ed usi che riguardano la nostra vita quotidiana di cui spesso ignoriamo l’origine e le circostanze che le hanno generate.

Utilizzando piattaforme che aiutano la diffusione delle informazioni come Instagram, Oliva, attraverso un linguaggio ecumenico e uno stile narrativo, ci racconta per esempio come e perché è nata la stretta di mano, ci spiega la ragione per cui si dice fare i Portoghesi,  ci illustra da dove viene il cioccolato, le singolari problematiche di carattere religioso legate al suo consumo e chi lo ha prodotto per primo in Europa; di indiscutibile interesse sono poi i racconti sulle conquiste storiche e sociali come l’agognato e combattuto voto alle donne, storie d’amore come la fuga di Carlo Pisacane con la sua amata  , l’origine e lo scopo iniziale della Legione Straniera, nata anche per dare una possibilità di nuova di vita a persone macchiate da crimini o con problemi politici, e successivamente il suo ruolo nel cinema.

Piacevoli ed appassionanti anche le pillole a richiesta inoltrate numerose dai follower di Oliva a cui il professore risponde con meticolosità e dovizia di particolari, tra le più curiose  la ragione per cui viene detto rinviare alle calende greche o l’utilizzo dell’espressione fa un freddo cane.

Per rimanere invece in attualità e creare delle corrispondenze con ciò che sta accadendo, Gianni Oliva ci parla dell’influenza spagnola, dove esplose e da chi fu portata nel nostro continente,  le vittime illustri di questa piaga che si è portata via artisti come Klimt, il padre della sociologia Max Weber, il nonno di Donald Trump. Pare che le disposizioni di prevenzione furono le stesse: stare a casa e addirittura il coprifuoco.

Stay tuned quindi! Sintonizziamoci su gianniolivaofficial su Instagram e ripassiamo un po’ di storia.

Maria La Barbera

 

 

 

 

Il mondo sarà salvato dalle lettere

Litteris servabitur orbis”. Questa frase latina ha una grande importanza. Tradotta in italiano significa “il mondo sarà salvato dalle lettere

Durante le leggi razziali l’acronimo di questa frase, ovvero L.S.O., veniva usato dall’editore fiorentino ebreo Leone Samuele Olschki per poter stampare i suoi libri. Un modo intelligente per esprimere una grande verità e rimarcare il proprio diritto d’autore, evitando d’incorrere nella repressione. Nell’autunno di ormai più di ottant’anni fa le leggi razziali fasciste, ancor prima della loro codificazione in decreto, allontanavano gli studenti di fede ebraica dalle scuole pubbliche italiane. “Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini”, scriveva nella prima metà dell’800 il poeta tedesco Heinrich Heine. Un monito tragicamente anticipatore di quei “roghi di libri” organizzati nel 1933 nella Germania nazista durante i quali vennero bruciati tutti i libri non corrispondenti all’ideologia del regime dalla croce uncinata. Quei roghi, pensati per  distruggere “lo spirito non tedesco“, vennero organizzati dalla Deutsche Studentenschaft , l’associazione degli studenti tedeschi. Una follia negazionista che venne salutata da Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich come un ottimo modo “per eliminare con le fiamme lo spirito maligno del passato“. Quale fu la logica conseguenza nemmeno il monito di Heine poteva lontanamente immaginarlo e tutto il mondo scoprì l’orrore delle persecuzioni, delle deportazioni nei lager e dell’olocausto. Eppure sono in molti ad aver dimenticato la storia o a volerla minimizzare. “Chi nega la ragion delle cose, pubblica la sua ignoranza”, scriveva Leonardo da Vinci mezzo millennio fa. In un tempo dove si legge sempre meno, dove la cultura viene presentata come un peso e l’ignoranza si accompagna quasi sempre all’arroganza, c’è poco da stare allegri. Un antidoto ci sarebbe ed è racchiuso in quella frase piena di speranza: “il mondo sarà salvato dalle lettere”. A patto che non rimanga solo una frase.

Marco Travaglini

Buon compleanno, Mole! 130 anni ben portati

Buon compleanno, Mole! Su Instagram la sindaca Chiara Appendino posta una suggestiva immagine della Mole, nel 130° anniversario dall’apertura al pubblico del monumento più torinese di tutti

 

«Il 10 aprile 1889, per la prima volta, si aprivano le porte di quello che sarebbe diventato il monumento simbolo della nostra Città – scrive la prima cittadina. Allo stesso modo, quello straordinario profilo che da 130 anni sovrasta Torino è entrato nel cuore di intere generazioni di torinesi, e di migliaia di persone che vengono a osservarlo da tutto il mondo. Buon compleanno, Mole Antonelliana»

La storia della Mole iniziò nel  1862, quando  la comunità ebraica torinese acquistò il terreno e incaricò del  progetto della sinagoga l’architetto novarese Alessandro Antonelli.  L’edificio si completò parzialmente in  6 anni, fino a un’altezza di 70 metri. Il lavoro dell’ Antonelli non fu però molto  apprezzato dalla Comunità Ebraica  a fronte dei costi aggiuntivi da sostenere per poter completare la struttura che, alla fine, fu venduta al Comune di Torino, mentre  una nuova sinagoga fu costruita nel quartiere di San Salvario. Nel tempo la Mole (la cui guglia fu persino abbattuta da una bufera negli anni ’50!) divenne sempre più il simbolo della città nell’immaginario collettivo. Oggi è sede del Museo Nazionale del Cinema.

Cultura e storia online dal forte di Bard

Dalla Valle d’Aosta / I Capolavori della Johannesburg Art Gallery in diretta sul sito del Forte, con la curatrice Simona Bartolena

Prosegue la programmazione culturale online del Forte di Bard. Il palinsesto si arricchisce di due appuntamenti di approfondimento della mostra Capolavori della Johannesburg Art Gallery. Dagli Impressionisti a Picasso.

 

La curatrice dell’esposizione Simona Bartolena tiene due conferenze  trasmesse in diretta sul sito e sul canale YouTube del Forte: il primo appuntamento si è svolto martedì scorso , dedicato ad una presentazione del progetto espositivo e della collezione che aprì al pubblico nel 1910, diventando il principale museo d’arte africano. Nel secondo appuntamento live, martedì 14 aprile 2020, sempre alle ore 18.00, la curatrice si soffermerà sulle opere della collezione dedicate all’arte africana.

 

Le dirette sono visibili dal sito www.fortedibard.it nella pagina dedicata all’interno della sezione Eventi o sul canale Youtube del Forte, raggiungibile sempre dalla homepage del sito istituzionale.

In cambio di carità il sig. Ravetti non denunciò la moglie per adulterio

Tra storia e cronaca torinese / ACCADDE IN APRILE

Era il 4 aprile 1947 quando il signor Giovanni Ravetti, 46 anni, residente a Torino in via Cibrario, si precipitò al commissariato di San Donato per avvisare gli agenti del fatto che sua moglie si trovasse in dolce compagnia in una camera d’albergo nei pressi di piazza Statuto. Gli agenti intervennero subito e sorpresero i due amanti nell’atto di compiere il reato di adulterio ma, a quel punto, la reazione del marito fu indubbiamente tra le più originali che siano mai avvenute. Sventolando minacciosamente il tradizionale foglio di carta bollata propose al rivale, un facoltoso macellaio di Torino, una curiosa alternativa: il signor Ravetti non li avrebbe denunciati per il reato di adulterio se il macellaio avesse versato la somma di 10 mila lire all’ospizio di carità di Pozzo Strada. L’amante accettò la proposta e firmò un assegno rendendosi un benefattore suo malgrado. [Gazzetta del Popolo]

Era il 10 aprile sempre del 1947 quando la piccola Ada Vindigni, bambina torinese di 9 anni, venne strappata alla morte. Per la prima volta in Italia la terribile meningite tubercolare (da cui nessuno si era mai salvato) venne curata tramite una sperimentazione in corso presso l’ospedale infantile Regina Margherita. L’esperimento, condotto dal primario dell’ospedale Prof. Filippo Madan, utilizzò come cura la streptomicina, antibiotico scoperto e largamente usato in America ma rarissimo in Italia. La cura a base di streptomicina, analoga alla penicillina ma con un’azione molto più vasta capace di curare sia tubercolosi che tifo, permise alla piccola Ada di guarire e di ritornare a condurre una vita normale. [Gazzetta del Popolo]

Il 22 aprile 1958 alle h. 11.00, una cameriera ed il direttore di un albergo nei pressi di Porta Nuova, trovarono il corpo della contessa di 75 anni Emma Malerba, distesa supina sul pavimento. Venne immediatamente chiamata la polizia che una volta giunta sul luogo, non sentendo più il battito del cuore e del polso, dichiarò la morte della donna a causa di un malore improvviso e chiamò il medico municipale per i consueti accertamenti di legge e i necrofori per il trasporto della salma. E proprio mentre il medico stava per sopraggiungere ed i necrofori stavano per deporre il corpo nella cassa, l’agente Gibelli si accorse che la contessa era ancora viva e che cercava di aprire gli occhi. Appena giunto il medico municipale confermò che l’anziana signora, nonostante le gravi condizioni in cui versava, era ancora viva; venne chiamata immediatamente un ‘ambulanza e la contessa venne trasportata d’urgenza all’ospedale Mauriziano. [La Stampa]

L’ 11 aprile 1973 fu una data molto importante per la città di Torino che vide, dopo 37 anni, la riapertura del il Teatro Regio. Rinato come l’araba fenice dalle ceneri del 1936, il Teatro Lirico torinese riaprì grazie alla collaborazione degli architetti Mollino, Morbelli, Morozzo e dell’ingegnere Zavelani Rossi. Nel 1937 infatti gli architetti Morbelli e Morozzo vinsero il concorso bandito per la ricostruzione del Teatro e nel 1965 subentrò anche il progetto firmato da Mollino e dall’Ing. Zavelani Rossi. Il melodramma scelto per la serata d’inaugurazione fu l’opera di Verdi, “Vespri siciliani”. Nella sala gremita c’erano diverse autorità, giornalisti provenienti da tutto il mondo ed era presente anche il presidente Leone insieme alla moglie Vittoria. Fu un fastoso spettacolo che riportò alla luce una delle meraviglie torinesi. [La Stampa]

Il 21 aprile 1979 vennero assunte per la prima volta dall’azienda municipale di raccolta rifiuti della città di Torino, sette donne con il ruolo di “donne-spazzino”, mestiere che fino ad allora era esclusivamente svolto da persone di sesso maschile. Lucia Masiello, Anna Maria Greco, Franca Chiariello, Anna Maria Di Maio, Michela Scaramuzzo, Luciana Zenetti e Florizia Romano, furono le donne torinesi, che dopo aver indossato la tuta arancione impermeabile e dopo aver preso la ramazza in mano, cominciarono a lavorare per la prima volta insieme ai loro colleghi uomini. [La Stampa]

Era il 17 aprile 1990 quando la piccola Patrizia Tacchella, dopo 78 giorni in balia dei suoi rapitori, ha potuto finalmente riabbracciare la sua famiglia. La bambina di 8 anni, figlia di Imerio Tacchella (il veronese “re dei jeans” Carrera) venne rapita nel pomeriggio del 29 gennaio a Gtravellona e portata in una villetta a Santa Margherita Ligure dove visse con i suoi rapitori fino all’arrivo delle forze di polizia.

I sequestratori furono immediatamente identificati e si scoprì che facevano tutti parte della cosiddetta “Torino bene”. Gli arrestati furono cinque: Bruno Cappelli, imprenditore di 35 anni nato a Moncalieri e residente a Nichelino, sua moglie Ornella Luzzi, 36 anni, a cui apparteneva la villa dove la bambina era stata detenuta, Valentino Biasi, 52 anni, abitante a Poirino, la sua compagna Carla Mosso di anni 38 e infine Franco Moffiotto, uomo di 48 anni, residente nel centro di Torino. Un lunghissimo incubo per la piccola Patrizia che fortunatamente si risolse nel migliore dei modi. [La Stampa]

Il 2 aprile 2000 durante i lavori per il recupero della Reggia di Venaria, vennero riportati alla luce i resti del Tempio della dea Diana. I tecnici e gli operai dell’impresa consorzio Schiavina Adanti, mentre erano impegnati nei lavori per la “rimessa a nuovo” della Reggia, furono costretti a fermarsi di fronte a un basamento di muri spessi più di 70 cm. Pare che su quei muri poggiasse il “fonum Dianae”, padiglione costruito su un isolotto, nella metà del 600′, in onore della dea della caccia e poi distrutto una decina di anni dopo per allargare il parco. Una scoperta davvero affascinante quella dei resti del tempio, rimasto coperto per 3 secoli da alberi e terra e che venne alla luce solo grazie al lavoro involontario di alcune ruspe.

 

Simona Pili Stella

Quel 7 aprile 1979. La rivoluzione sbagliata fa i conti con la storia

Il 7 aprile del 1979, a Milano, venne arrestato il professore Toni Negri. Ordinario della cattedra di Filosofia Politica di Padova. L’accusa: essere il capo ideologico delle Br. Personaggio ondivago nel panorama della politica italiana fin dai primi anni 60. Cattolico e poi cattolico del dissenso, socialista e poi ideologo di Potere operaio ed in generale ideologo dell’estremismo politico di sinistra.

Diventato radicale, e diventato parlamentare  scappò in Francia. Dopo la rivoluzione, il suo secondo obbiettivo fu quello di non farsi 1 giorno di carcere. Operazione che in parte gli riuscì. Poi più che voler fare la rivoluzione , diceva agli altri che dovevano fare la rivoluzione. Fece diventare il suo istituto un covo di novelli terroristi e si difese sempre dicendo: un conto e dire fate la rivoluzione, un conto  sparate a qualcuno. Decisamente un cattivo maestro.

Aveva rapporti con tutta l’intellighenzia cosiddetta di sinistra, e l’ altro obiettivo  dire che il PCI era peggio dei padroni. Uno dei suoi punti di forza era l’ ateneo di Torino, in particolare Palazzo nuovo e le facoltà umanistiche. Alla fine degli anni 60 ed inizio anni 70 capitava spesso nella nostra città. Le sue riunioni- lezioni finivano sempre con la richiesta di un contributo per comprare armi per la rivoluzione. Tutto alla luce del sole e probabilmente sotto i vigili occhi di polizia politica in borghese e, magari perché no, dei servizi segreti italiani e non. A fine del 1976 Lotta Continua di Adriano Sofri si dissolse come neve al sole. E molti del cosiddetto servizio d’ ordine di Lotta Continua confluirono nel terrorismo con le loro diverse ramificazioni. Br , Senza Tregua, Prima linea, Nuclei armati Proletari e chi più ne ha più ne metta. Con Autonomia Operaia che teorizzava la violenza di massa per sovvertire questo nostro Stato. Ideologia? Eccolo di nuovo il loro Professore Antonio Negri. Anni difficili. Era scoppiato il 77 , il movimento del 77 con il suo carico di odio e di violenza, trovando terreno fertile in certe parti della società torinese. Da Palazzo Nuovo alle fabbriche si respirava odio, troppo odio. Era pure difficile frequentare le lezioni. Frequentavamo l’ Università in gruppo. Non si sapeva mai. Ebbi l’onore di essere immortalato in un manifesto. Con un impermeabile e l’immancabile toscano, ironicamente: Tenente Colombo. E fin qui nulla di male . Quando però sul disegno delle mie gambe venne tracciato un tiro a segno la cosa diventò inquietante. Venni anche circondato e minacciato in Via Po, verso le 10 di sera. Spintonato ebbi molta paura. L’apice della violenza nel marzo 77 per le elezioni universitarie. Gli epigoni del Professore Negri non erano  d’accordo e semplicemente tentarono di impedire le votazioni. Con tragicomici aneddoti. Un leader di Lotta Continua ebbe l’ infelice idea di presentarsi in giacca e cravatta per votare. Era reduce da un matrimonio. Fu preso a schiaffi dai suo stessi compagni che non lo riconobbero , del resto aveva tagliato barba e capelli. Cominciavano a capire che qualcosa stava cambiando anche a casa loro. Terroristi e violenti presi da un delirio di onnipotenza sbagliavano, con il risultato di un loro sempre maggiore isolamento. Dal rapimento all’omicidio di Aldo Moro all’uccisione del compagno sindacalista Guido Rossa o all’omicidio del vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno . E il figlio che era stato di Lotta continua non ebbe dubbi: con voi non voglio averci più niente a che fare. Per tutto ciò, arrestato Toni Negri e Oreste Scalzone, ne fui contento. Non andava di moda, almeno per quegli anni, essere dalla parte dei magistrati. Io viceversa lo ero. Mi accusarono di non essere garantista. Pazienza, non si è mai perfetti. In verità Negri e compagni furono processati e alla fine assolti. Non sempre. Il Professore si beccò dodici anni per concorso morale in omicidio. Riuscendo comunque a farsi pochi mesi di galera. Altra cosa toccò ad alcuni dei suoi epigoni che scontarono pene dai venti anni in su. Con una certezza: Tony Negri è stato un cattivo maestro senza se e senza ma. Magari l’ accusa di  essere il Grande vecchio delle Br non resse in tribunale. Visti gli atti processuali è prova incontrovertibile. Ma non davanti alla sua coscienza. Tony Negri ha molto di cui vergognarsi. E non mi risulta che ammettendo abbia lenito le sue indubbie colpe morali.

Patrizio Tosetto

Valdo Fusi: “Fiori rossi” per un cattolico coerente e tollerante

Questo articolo esce  in memoria dei Martiri del Martinetto di cui ricorre oggi il ricordo e di cui Valdo Fusi ha raccontato la tragica e nobile storia  Il Sacrario del Martinetto è un luogo simbolo di una religione civile di grande importanza che si mescola con la testimonianza umana e religiosa dei Caduti sotto il piombo di sicari fascisti

Di Pier Franco Quaglieni

È impossibile cercare di “commemorare” Valdo Fusi, l’uomo che, come osservò Luigi Firpo, si sarebbe giocato la carriera per il gusto della battuta. In effetti, quella carriera se la giocò per una cosa molto più seria: l’amore per la verità e il coraggio di andare contro corrente. Sempre e ovunque. Si può al massimo “ricordare” Valdo, anche se è impossibile far rivivere le ore trascorse con lui, parlando, scherzando, passando dall’ironia più bonaria all’invettiva più feroce. Su tutt’altro versante e in modi molto diversi, io ricordo solo Longanesi, Flaiano, Maccari, ma in Fusi c’era una tensione morale, un rigore civile che rendono sbagliato ed improprio questo accostamento. Egli ci appare, nello stesso istante, lontano e vicino: lontano perché appartiene ormai a quella “Torino civile”, di cui si sono perdute le tracce; vicino perché è proprio a uomini come lui che bisognerebbe guardare per cercare di uscire dalla palude del conformismo.

Partigiano, membro del Comitato militare del Cln piemontese in rappresentanza della Dc, subì l’arresto e il processo che condusse nell’aprile 1944 gli uomini del gen. Perotti davanti al plotone d’esecuzione al Martinetto. Fusi fu assolto per insufficienza di prove e ritenne quella sorte come una missione: ricordare gli eroi del Martinetto. Nel dopoguerra fu deputato, consigliere comunale, presidente dell’EPT e dell’Ordine Mauriziano, ma lo stesso Fusi considerò tutto ciò una “parentesi” perché tornò a fare l’avvocato come prima della guerra, senza farsene un problema. Era un uomo inadatto alla politica intesa in modo settario e meno che mai per l’“affarismo”: si rivelò incapace persino di praticare la politica al fine di soddisfare pur legittime ambizioni. Pari a lui fu solo Silvio Geuna, anche lui partecipe e vittima della tragedia, dopo un fulmineo processo-farsa, in cui si offrì di sostituire il generale Perotti davanti al plotone di esecuzione, essendo il generale padre di tre figli e lui celibe.

Ci ha lasciato due libri, il già citato Fiori rossi al Martinetto e Torino un po’, uscito postumo, che, a parere di molti critici, ci possono far parlare anche di un Fusi scrittore. Sono testimonianze preziose, libri che vanno letti e che soprattutto si è portati naturaliter a rileggere, per il modo in cui sono stati scritti e per le cose importanti che contengono. Fiori rossi al Martinetto è, anche sotto il profilo letterario, un libro importante. Esso non è solo la testimonianza storica di ciò che capitò al Comitato militare del Cln piemontese nell’aprile 1944 a Torino e che ebbe il suo epilogo eroico al poligono del Martinetto. Valdo Fusi è stato uno scrittore autentico. Nel convegno voluto dal Centro “Pannunzio”, tenutosi nell’Aula Magna dell’Università di Torino il 24 novembre 1977 su Valdo Fusi scrittore in modo particolare Lorenzo Mondo e Riccardo Massano lo dimostrarono con totale evidenza. Lorenzo Mondo sostenne che Fiori rossi è uno di quei libri unici che si scrivono una sola volta nella vita. Evidenziò «la limpidezza della scrittura» che lo caratterizza. Secondo Mondo, Fusi ha in parte guardato a Le mie prigioni del Pellico, ma è andato anche molto oltre l’esempio della letteratura carceraria perché in quel libro si sente «il fiato di nomi grandi, di nomi alti […]». Riccardo Massano affermò: «[…] Fusi è uno scrittore nato, perché per lui lo scrivere è come respirare. Non che non avesse una straordinaria cultura che nelle pagine affiora ed è consegnata persino a quelle epigrafi straordinarie che costellano tutti i suoi libri […] e che non sono solo letture fuggevoli e frivole» […]; è uno «scrittore nato, ma non in senso stretto uno scrittore letterato o, almeno non uno scrittore letterario. Per lui questo nodo di vita e di scrittura diciamo pure di vita e d’arte, era qualcosa di così intenso, che per un certo momento la sua vitalità ha travolto la sua stessa possibilità di scrittura».

Ed ancora: «Fiori rossi al Martinetto sarebbe potuto essere un libro di memoria e invece è un libro di vita, un libro vivo».Un altro critico, Giorgio Calcagno, nel convegno promosso sempre dal Centro “Pannunzio” il 9 marzo 1985 sostenne: «Fiori rossi al Martinetto non è un’epopea; e nemmeno, a rigore, un libro di cronaca, sia pure di un episodio fra i più importanti della guerra partigiana. È una testimonianza personale per scorcio con il segno, e meglio l’unghiata, inequivocabile del suo autore. Fusi gioca tutto il proprio racconto su una duplice prospettiva incrociata quasi avvalendosi di un cannocchiale che capovolge in continuazione: per ingrandire gli altri, per rimpicciolire sé stesso. L’atteggiamento dominante è quello dell’understatement, il tenersi sotto tono, quasi sorridendo di sé per abbassare il tragico, spegnere la tentazione dell’epico». Si tratta di un libro esente dal “reducismo” che tanto danno ha provocato alla memoria storica della Resistenza, nel quale rivive lo spirito migliore che animò quegli uomini che decisero di riscattare l’infamia dell’8 settembre 1943, impegnandosi in prima persona nella guerra partigiana e patriottica. Lo scrittore Piero Chiara colse solo in modo parziale la figura di Fusi quando osservò: «Valdo era un irriducibile. Voleva, come tanti allora, un’Italia libera, cristiana, democratica, onesta e dignitosa […]. Fusi era di quelli che non tollerano l’indifferenza e si votano all’impegno». Infatti va anche precisato che Fusi non conobbe mai l’engagement di tanti intellettuali, perché rimase un uomo libero, totalmente svincolato da discipline che non fossero quelle dettate dalla sua coscienza morale. Uno scrittore che scriveva anche per il piacere di scrivere, di comunicare con gli altri con quello spirito che Luigi Firpo ha giustamente così sintetizzato: «un eterno giovane vivacissimo, ilare, segnato da un umorismo schietto, non di rado tagliente, al quale, in fondo, egli sacrificò anche il successo».

Nel 1970 il Teatro Stabile di Torino commissionò a Davide Lajolo, il mitico “Ulisse” della Resistenza, la riduzione teatrale di Fiori rossi al Martinetto. Lajolo intese ispirarsi al libro di Fusi troppo liberamente con un taglio politico e persino ideologico che Fusi non poteva condividere. Ha scritto Nuccio Messina, direttore del Teatro in quegli anni: «Il tentativo – forse ingenuo – di mettere d’accordo un democristiano storico e fervente come Valdo Fusi e un comunista rigoroso come Lajolo era fallito. […]. Erano tempi di divisioni profonde. Nel nostro caso i protagonisti erano Fusi e il suo libro: li avevamo scelti e ad essi dovevamo riferirci. E Fusi aveva ragione». Forse Messina enfatizza un po’ il “radicalismo” democristiano di Fusi che già alla fine degli Anni Sessanta era molto deluso dal suo partito, ma appare fuor di dubbio (e chi scrive può testimoniarlo) che Fusi avesse detto chiaramente che la Resistenza come lotta di classe era quanto di più estraneo ci potesse essere rispetto al suo libro in cui la pietas cristiana (e, quindi, il valore della fratellanza umana e del perdono) era l’elemento prevalente. Lajolo, a sua volta, operò in anni successivi una sorta di revisione critica delle proprie posizioni, ma resta il fatto che lo spettacolo teatrale non si poté realizzare perché Fusi, andando contro i suoi interessi materiali anche in questa occasione, mise il veto ad un’operazione che avrebbe sicuramente giovato ad un ulteriore successo del libro.

In particolare, sono da ricordare due tratti della sua personalità che mi sembrano importanti e che forse non sono mai stati abbastanza messi in luce. Fusi fu cattolico di fede indiscussa, ma certo fu anche il più laico e il meno clericale dei cattolici militanti. La civiltà a cui si richiamava era quella fondata sulla tolleranza e sul rispetto per le idee degli altri, come aveva appreso anche da Augusto Monti al Liceo “d’Azeglio” di Torino. Per altri versi, si differenziò anche rispetto a molti ex “dazeglini” perché nel 1968 sentì fortemente la sua distanza ideale e morale rispetto alla contestazione, vedendo in essa una sbornia ideologica intollerabile e un che di «belluino», come disse quando venne la prima volta al Centro “Pannunzio”. Egli aveva colto assai bene che il problema della tolleranza era da vedersi anche rispetto alle ideologie presuntuose e invadenti ed ebbe il coraggio di dissentire pubblicamente da Primo Levi che non aveva accettato di venire a un incontro promosso dal Centro “Pannunzio” nel 1972 perché altri invitati «non erano abbastanza di sinistra». Ed ebbe il coraggio di metterlo nero su bianco, pur non facendo nomi, per altro desumibili dal biglietto di invito. Nella esperienza tragica del processo davanti al Tribunale Speciale e nel corso della Resistenza, aveva imparato a conoscere e ad apprezzare uomini di diverso orientamento politico come il comunista Eusebio Giambone, i partigiani di G.L., delle Brigate Matteotti e delle formazioni autonome, con cui collaborò lealmente. Egli fu amico, ad esempio, di Enrico Martini Mauri e ci fu chi ritenne un suo errore aver mantenuto l’amicizia con una medaglia d’oro della Resistenza caduta in disgrazia per il suo anticonformismo. Andrebbe anche detto che negli anni dopo la fine della guerra civile finì di far prevalere – pur nel suo fermissimo antifascismo – il valore del perdono cristiano. Egli era un cattolico che leggeva “Il Mondo” di Pannunzio, tanto per citare un esempio.

Il senso dell’impegno cristiano, umano e politico di Fusi trova la sua sintesi in questa lettera che indirizzò a “La Stampa” nel 1955: «[…] Ignoravo un problema a cui non avevo pensato mai. Dove sono sepolti ceux d’en face, i combattenti di Salò? Il dottor Catalano mi ha risposto: non hanno sepoltura. Dovremmo essere noi resistenti a provvedervi. Se sul piano delle idee nessuna conciliazione sarà mai possibile, se noi rifiuteremo sempre l’equivalenza tra fascismo e antifascismo, nei rapporti tra uomo e uomo è necessaria la più illuminata apertura dell’animo, e magari l’indulgenza. Indulgenza del resto che ha trovato nelle leggi della Repubblica la sua consacrazione. Dobbiamo cancellare ogni traccia della guerra civile, sul piano umano. È dovere nostro concedere, e subito, quell’onorata sepoltura che a molti dei nostri amici negarono questi nostri nemici. Se non sarò il solo resistente a pensare così, verserò il mio contributo alle spese occorrenti. Altrimenti, provveda il Comune. Suppongo di avere le carte in regola per avanzare siffatta proposta e non dubito che i Geuna, i Passoni, i Coggiola, i Grosa, l’accetteranno». Nel trentennale della Liberazione nel 1975 si rifiutò di tenere commemorazioni, dicendomi: «Sai, non credo più in queste manifestazioni: stanno imbalsamando la Resistenza». Quando nel 1975 salii a Isola d’Asti per dargli, insieme a tanti altri, l’estremo saluto, Mario Bonfantini, che era vicino a me in macchina, disse – e successivamente lo scrisse – che quella collina astigiana era «un paese di dolce grazia fantasiosa che sottende un duro fondo eroico» ed aggiunse che tutto ciò gli faceva pensare all’intima personalità di Valdo, che solo noi, suoi amici, abbiamo avuto modo di conoscere ed apprezzare.

È significativo che la Giunta di sinistra andata al governo della città di Torino con toni trionfalistici e obiettivi vistosamente egemonici, abbia deliberato, a pochi mesi dalla sua morte, di dedicargli una piazza torinese che è diventata il mostro orribile che è ora il piazzale. C’è stato chi ha affermato che il Sindaco Diego Novelli avesse dovuto affrontare l’opposizione da parte di esponenti del suo partito all’intitolazione per motivi che non fanno loro onore. Novelli tirò dritto per la sua strada e intitolò la piazza che poi divenne un parcheggio di auto, sia pure ombreggiato da molti alberi. Quando una Giunta successiva decise di costruire sotto la piazza un parcheggio sotterraneo, eliminò gli alberi e si affidò ad un concorso internazionale per ridisegnare la piazza sovrastante. Ne derivò quello che divenne un mostro. Fusi si sarebbe rivoltato nella tomba, se avesse potuto vedere quel piazzale incredibile, un vero pugno in un occhio, anzi una ferita inferta alla città a cui nessuno ha voluto in qualche misura porre rimedio, neppure il Comitato che si fregiò del nome di Fusi e quasi subito si arrese.

Il «solito Fusi»

Di fronte a Fusi non contano le distinzioni di parte, vale soltanto la stima per un uomo che non smise mai di desiderare un’altra Italia, diversa da quella in cui era vissuto, un’Italia più limpida sotto il profilo etico-politico e più libera rispetto ai pregiudizi, alle faziosità e alle asprezze del “secolo breve”.

A tanti anni di distanza forse posso lasciarmi andare a una confidenza. Molti di noi erano preoccupati per l’avvento di una Giunta di sinistra al Comune di Torino, frutto anche del modo dissennato – un vero e proprio cupio dissolvi – con cui la Dc gestì le amministrazioni dal 1970 al 1975. Dopo la fine del mandato affidato a Giovanni Porcellana nel 1970, ci furono risse interne alla Dc che portarono al paradosso del socialista Guido Secreto a capo di una Giunta monocolore democristiana. Dopo, arrivò un galantuomo come il sindaco Giovanni Picco che chiuse il quinquennio, cercando di recuperare il terreno perduto, ma dovendo affrontare infinite difficoltà. Si trattava di candidare nel 1975 un uomo limpido, capace, credibile, come si direbbe oggi. Un candidato sindaco quasi super partes, un grande torinese come fu Peyron. Io partecipai ad alcune riunioni “clandestine” a cui presero parte amici liberali, socialdemocratici, repubblicani e democristiani. Sono tutti morti, ma preferisco non farne i nomi, essendoci scambiata la parola d’onore che mai avremmo rivelato chi partecipava agli incontri. Rassicuro subito: non eravamo una loggia coperta o, come si diceva allora, un piccolo “superpartito”. Tutti pensammo a Valdo Fusi come Sindaco di Torino. Non trovammo il tempo neppure di parlarne con l’interessato. In una pausa del Consiglio comunale ne accennai al conte Edoardo Calleri di Sala, potentissimo e capacissimo leader della Dc, che mi disse: «Il solito Quaglieni che propone il solito Fusi. Voi sognate, non fate politica». Confesso dopo molti anni che quell’abbinamento tra Fusi e me, giovane assistente universitario, fu uno dei più bei complimenti che mi fecero e di cui vado orgoglioso. Come ci sarebbe bisogno anche oggi, di tanti «soliti Fusi»!

 

(Valdo Fusi: Pavia 1911 – Isola d’Asti 1975)

La Venaria Reale ha ospitato il Liberty: Mucha e Grasset

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte.

L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare.Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”.
Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
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La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

 

Articolo 8. La Venaria Reale ha ospitato  il Liberty: Mucha e Grasset

“Chi a ved Turin e nen la Venaria, a ved la mare e nen la fija”.
La reggia di Venaria ha ospitato  nella Sala dei Paggi la mostra “Art Nouveau. Il trionfo della bellezza”. La mostra è a cura di Katy Spurrel e Valerio Teraroli, in collaborazione con Arthemisia. L’esposizione vuole rendere omaggio allo spirito rivoluzionario dell’Art Nouveau, che scalza la tradizione e le regole accademiche e stravolge architettura, pittura, arredamento, scultura, musica e ogni altro aspetto della vita e dell’arte, traendo ispirazione dalla natura e proponendo un’immagine nuova della figura femminile. L’esposizione propone un percorso alla scoperta di questo movimento artistico e filosofico che si sviluppa tra la fine dell’Ottocento fino allo scoppiare del primo conflitto mondiale. Un corpus di 200 opere che testimoniano la straordinaria fioritura artistica che ha cambiato il gusto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.  Sono presenti in mostra manifesti, dipinti, mobili, ceramiche che illustrano come da una parte l’Art Nouveau rompa con il passato, rifiutando il realismo e il pensiero scientifico, e dall’altra come tale corrente sia andata alla ricerca di mondi onirici e visionari restituiti poi attraverso l’eleganza decorativa di linee dolci e sinuose. Tra gli autori in mostra ci sono due tra le più importanti personalità della corrente dell’Art Nouveau: Eugène Grasset e Alfons Mucha.

Eugène Grasset, nato a Losanna nel maggio 1845, dall’ebanista e scultore Joseph Grasset, frequenta inizialmente le scuole nella città natale. In seguito lavora presso la bottega del padre e prosegue gli studi di architettura al Politecnico di Zurigo. Dopo un periodo di viaggi che lo portano anche in Egitto, torna a Losanna, e si dedica alla scultura e alla pittura. Qualche anno dopo decide di trasferirsi a Parigi, dove affina la sua modalità artistica che unisce tecniche xilografiche e litografiche, preferendo una composizione più formale, colori sfumati, tenui e pallidi. Le sue opere aprono le porte a una moltitudine di artisti, tra i quali Alfons Mucha.

Figlio di un usciere del tribunale e della seconda moglie di quest’ultimo, Alfons Mucha nasce a Ivancice il 24 luglio del 1860. Fin da adolescente dimostra interesse e abilità nel disegno e nel 1879 entra nel laboratorio di pittura di Kautsky-Brioschi-Burghardt, che produce scenari teatrali e sipari. Nel 1882 incontra il suo primo mecenate, il conte Eduar Khuen-Belasi, che gli finanza gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera e un viaggio a Parigi, città in cui Mucha rimane per i successivi diciassette anni. Improvvisamente, nel 1889 il conte smette di sostenere gli studi del giovane, che si ritrova quindi a dover cercare in fretta un lavoro: inizia come illustratore e collabora con importanti riviste e case editrici francesi. Ottiene il suo primo vero successo nel 1894, quando si ritrova a disegnare un manifesto per Sara Bernhardt, in occasione dello spettacolo Gismonda di Victorien Sardou. È l’inizio di una fortunata e duratura collaborazione che lo decreta come uno degli autori più ricercati di arte applicata, manifesti pubblicitari e illustrazioni.

 

Nel 1897 Mucha inaugura la sua prima mostra personale, alla Galerie de la Bodinière di Parigi e negli anni successivi continua a collezionare successi, e incontra personalità che lo vogliono come collaboratore. La fortuna lo segue fino al giorno della morte, avvenuta a Praga nel 1939. In quello stesso anno la rivista parigina di grafica “Arts e Metiers” dedica un numero alla commemorazione dell’artista. Mucha ha il merito di aver costruito un universo iconico immortale, le donne che compaiono sulle sue locandine sono diventate icone dell’Art Nouveau, con i loro sorrisi delicati e la loro bellezza disarmante. Possiamo dunque dire che è stato proprio Mucha a trasformare la pubblicità in arte, un grandissimo artista grazie al quale ancora oggi guardiamo con nostalgia e ammirazione i manifesti di inizio Novecento.

Alessia Cagnotto