STORIA- Pagina 130

Una serata su Torino nera dalla strage del 1864 al delitto Codecà

Mercoledì prossimo, 22 luglio alle ore 20,30 alla libreria Belgravia di via Vicoforte 14/d a Torino lo scrittore Alessandro Cerutti ed il direttore di “Storia Ribelle” Roberto Gremmo dialogheranno compiendo un viaggio singolare nella Torino criminale degli ultimi due secoli.

Nell’esame dei più efferati delitti irrisolti si partirà da quella che proprio Gremmo ha definito in un suo libro “La prima strage di Stato”, il massacro di 62 piemontesi uccisi dalla forza pubblica il 22 e 23 settembre 1864 mentre in piazza San Carlo e piazza Castello manifestavano pacificamente contro lo spostamento della capitale a Firenze e la crisi in cui veniva gettata Torino. Dopo l’analisi dell’omicidio dei Barabba e dei crimini del serial killer del 1915, i due studiosi esamineranno i retroscena torbidi e mai davvero svelati del famoso delitto Codecà che nel 1952 fece tremare la città della Fiat. Un viaggio a ritroso nel tempo nei bassifondi e nella malavita.

Torino e i suoi musei. L’egizio

Torino e i suoi musei
Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere. (ac)

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1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

1. Museo Egizio

La prima volta che mi hanno portato al Museo Egizio ho pianto. Più avanti vi dirò perché.  Quando frequentavo i primi anni delle elementari, come la maggior parte dei bambini, avevo una stereotipata curiosità nei confronti di quel popolo antico e strano, all’epoca per me nient’altro che un “purpurrì” di piramidi e bislacchi esseri zoomorfi. Naturalmente poi, nel corso del tempo, tante altre furono le visite all’Egizio che ho fatto con sempre maggior consapevolezza e desiderio di conoscenza.  Il Museo è situato in Via Accademia delle Scienze 6, dove sorge il “Collegio dei Nobili”, edificio realizzato su progetto di Michelangelo Garove a partire dal 1679 e, in seguito, modificato e ampliato, nella seconda metà dell’Ottocento, grazie agli interventi di Giuseppe Maria Talucci e Alessandro Mazzucchetti.  Si tratta del più antico Museo dedicato alla civiltà dell’antico Egitto, tappa obbligata per turisti e torinesi.
Il Museo, fondato nel 1824, nel 1832 apre al pubblico. Proprio nel 1824 re Carlo Felice acquisì la prima raccolta di Bernardino Drovetti, esperto collezionista che era solito scegliere con criterio illuminato gli oggetti e le opere da acquistare. Egli infatti era interessato in egual maniera ai ritrovamenti più opulenti e a quelli ritenuti di minor valore, eppure essenziali per documentare la storia della civiltà che tanto lo appassionava.

Nel corso del tempo si sono susseguite svariate modifiche espositive, dovute anche all’aumentare dei reperti, sia grazie a scambi con altri musei, sia ad acquisti e concessioni di privati.
Anni essenziali per la crescita della collezione furono quelli tra il 1903 e il 1907, periodo in cui prima Ernesto Schiapparelli, poi Giulio Farina, portarono avanti importanti scavi archeologici in Egitto, da cui ricavarono ben trentamila reperti da trasportare a Torino. Altri lavori vennero eseguiti nel 1908 e nel 1924, per mancanza di spazio lo stesso Schiapparelli ristrutturò la zona espositiva che oggi porta il suo nome. Tra le molte modifiche che si susseguirono tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta, particolarmente significativa risulta l’opera di ricomposizione del tempietto rupestre di Ellesiya donato dal governo Egiziano: la struttura fu tagliata in sessantasei blocchi e inaugurata nel 1970. In occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Torino, nel 2006, lo statuario è stato riallestito dallo scenografo Dante Ferretti.

Oggi non sono in grado di descrivere a memoria l’allestimento degli anni Novanta, quello che ho visto da piccola, durante una gita con la classe delle elementari, eppure mi è rimasto il ricordo di quella fanciullesca sensazione di stupore, novità e straniamento che avevano suscitato in me tutte quelle teche, così numerose da parere ammassate l’una sull’altra, lucide come può essere il vetro antico, ognuna chiusa a proteggere il proprio contenuto come cubici ventri materni.  Ricordo con affetto quella giornata, con le maestre e la guida del Museo intente a mostrare a me e ai miei compagni quella moltitudine di “cose” lì contenute, mentre io ero concentrata a cercare quegli strani ibridi che capeggiavano nei libri illustrati. Avevo come la sensazione che tutto andasse troppo a rilento ma dopo un po’ di sbuffi e tanta pazienza, la guida ci mostrò finalmente qualcosa di davvero interessante: un’enorme stanzone contenente colossali statue dal corpo di donna e dalla testa di gatto. Si trattava della dea Sekhmet, pericolosa figlia del Sole, a cui erano dedicate innumerevoli raffigurazioni. Le statue della dea sono presenti anche nell’attuale allestimento, situate nella Galleria dei Re, poeticamente illuminate da una studiata, calda e scenografica luce mirata. Le sculture tutt’ora esposte appartengono ad un’unica serie, scoperta al tempio di Mut a Karnak (Tebe est), forse inizialmente collocate nel «tempio di milioni di anni» nel sito di Kom el-Hettan, dove erano installate lungo le pareti del grande cortile. Si pensa che in totale fossero presenti nel tempio ben 365 statue: ogni giorno una particolare statua della dea, distinta da appellativi specifici, doveva essere invocata per supplicare la divinità sterminatrice di mantenere in vita il monarca regnante e liberarlo dalle febbri, dall’arsura e dalle forze avverse.

Ma torniamo a noi, la gita scolastica si concluse con un lieto fine, ero riuscita a vedere i miei “mostrini” ed ero quindi soddisfatta di aver lenito la mia curiosità bambinesca. Come mai questa passione per le bizzarre creature che dovrebbero intimorire? La risposta ha a che fare con l’incipit del discorso. Avevo circa tre anni quando mio padre mi portò per la primissima volta al Museo Egizio e proprio in quell’occasione accade “il fattaccio”. La memoria si confonde con i racconti posteriori, ma leggenda vuole che i fatti siano andati così: in mezzo ad una sala ricolma di teche, c’ero io, piccola e maneggevole, in braccio a mio padre, lui guardava gli oggetti alle pareti e io in direzione opposta, con il capo reclino sulla sua spalla. E lì, in mezzo a quel vetroso labirinto a metà tra Lewis Carroll e il giardino dell’Overlook Hotel, pronunciò una frase che in famiglia è ormai un “cult”: “Che belli questi papiri”. Sì, perché non si era accorto che proprio alle sue spalle, e quindi nella direzione del mio sguardo, c’erano dei corpi accartocciati e rattrappiti, in cui le unghie e i capelli avevano continuato a crescere come in un sortilegio di cui nessuno mi aveva mai parlato. Probabilmente mi sentii osservata da quelle orbite vuote sgraziatamente sbendate e ebbi come l’impressione che tutti quei mostri inscatolati stessero ridacchiando della mia paura. Non c’era altro da fare che scoppiare in un pianto disperato. E così finì la mia prima visita al Museo Egizio di Torino.

L’unico modo per sconfiggere le proprie paure è quello di affrontarle, ma spesso accade che i timori si trasformino prima in curiosità incolmabili e poi in passioni. Durante le superiori tornai più volte “sul luogo del delitto”, ormai instancabile ammiratrice di quello che di certo è il popolo antico più magico e misterioso al mondo. L’aspetto che più mi affascinava in quegli anni -e forse tutt’ora- era la grande importanza che gli Egizi riservano al culto dei morti. Essi infatti credono nell’Aldilà e ritengono che nelle tombe prosegua in eterno la vita del defunto, per questo motivo le decorano con pitture in ricordo delle attività quotidiane e le corredano di monili, vasellame e oggetti di uso comune.
Nell’allestimento attuale, questo particolare aspetto cultuale è ben esplicato dai reperti delle tombe degli Ignoti e di Iti e Neferu. La prima venne ritrovata intatta a Gebelein nel 1911 e, grazie ai dettagliati appunti di Virginio Rosa, è stato possibile ricostruire pedestremente la disposizione degli oggetti nella ricostruzione all’interno del Museo. La seconda è un esempio emblematico di sepoltura dedicata a personaggi di alto rango, in cui particolarmente impattanti risultano le pitture parietali, raffiguranti i temi tipici del repertorio decorativo delle cappelle funerarie dell’Antico Regno: le ricchezze offerte al defunto e le persone coinvolte nella preparazione e, nella camera centrale, scene rituali d’offerta, per perpetuare la vita del defunto nell’Aldilà.
L’ultimo riallestimento museale risale al 2015, i lavori hanno riguardato l’intero percorso, articolato su cinque piani espositivi e radicalmente modificato per una più ampia godibilità degli spazi.

Non è passato così tanto tempo dalla mia ultima e recente visita al Museo Egizio e devo dire che personalmente un po’ tutte quelle teche e quelle mummie sbendate mi mancano.
L’aspetto attuale è però davvero straordinario, un chiaro esempio di museo moderno, tecnologicamente avanzato per catturare l’attenzione dei più giovani e assicurare un’esperienza immersiva e totalizzante degli spazi anche ai più grandi. Di certo non si può riassumere la grandiosità del Museo Egizio in un breve articolo come questo, né tantomeno pretendere di spiegare una civiltà che si sé sviluppata per circa quaranta secoli (dall’epoca preistorica sino al fiorire dell’arte copta nel V-VI sec. d.C.) ma a posso permettermi di condividere con voi lettori ciò che più mi ha colpito della mia ultima “passeggiata” museale. In primis, uno dei sarcofagi di Mereru, in cui è presente, oltre ai tipici occhi “udjat”, un “orologio stellare diagonale”, ossia una tabella che indica l’ora di culminazione durante la notte di 36 stelle dette «decani» con il variare dei mesi e delle stagioni.

Vi segnalo gli “ostraka”, (schegge di calcare illustrate con scene inusuali, libere dai canoni tradizionali) e le statuette delle divinità protettrici della famiglia (come Renenutet, Bess o Tuaret), scoperte nel villaggio di Deir El-Medina; nello stesso sito archeologico è stato ritrovato un papiro amministrativo di Amennakht (vissuto durante il regno di Ramesse III), in cui sono riportate le notizie riguardanti il primo sciopero della storia: gli operai del villaggio protestarono perché non ricevettero le dovute razioni alimentari, pagamento per il loro lavoro. Triste ed interessante testimonianza dell’eternità dell’ingiustizia che aleggia in questo mondo.
Affascinanti e mistici sono i papiri srotolati sulle pareti: lo sguardo si perde tra i caratteri pittografici, le composizioni armoniose, le figure che seguono i canoni dell’arte egizia che rimane invariata nei secoli e diventa inconfondibile nell’immaginario delle persone. Vengono chiamati “libri dei morti” i papiri con testi magici e illustrazioni collocati nelle tombe per aiutare i defunti a superare i pericoli dell’oltretomba e raggiungere la vita eterna. Esistevano più di duecento capitoli riguardanti tali tematiche ma nessun libro li conteneva tutti, infatti dal repertorio ciascuno sceglieva le formule a lui più appropriate, (Libro dei Morti di Kha).Mi è dispiaciuto non rivedere, per giusti motivi di restauro, il celebre “papiro erotico”. Si tratta di una parodia sociale, un particolare documento destinato a una classe agiata che trovava piacere nella rappresentazione della trasgressione.

In effetti l’elenco dei reperti che hanno ri-catturato la mia attenzione rischia di diventare eccessivamente lungo e tedioso ed è quindi bene che mi fermi e lasci scoprire a voi le altre meraviglie che non ho citato. Prima di concludere trovo obbligatorio spendere due parole su quello che è “il fiore all’occhiello” del Museo: la Galleria dei Re. L’enorme sala espositiva si trova alla fine del percorso, immensa e fiocamente illuminata, dove le imponenti statue emergono dalla penombra e ipnotizzano con la loro mistica bellezza i visitatori. Tra queste spicca l’effige di Ramesse II, uno dei faraoni più noti di tutta la storia dell’antico Egitto. Raffigurato seduto sul trono, è rappresentato con gli elementi canonici del potere, il volto sorridente e i lobi delle orecchie forati – dettaglio ripreso dall’arte Amarniana- ai lati delle sue gambe sono rappresentati la moglie e il figlio, in scala ridotta, a simboleggiare la continuità dinastica.
Quando il percorso finisce e si ritorna “a riveder le stelle” si ritorna anche alla vita “normale”, a correre frettolosi tra i sanpietrini e le architetture barocche e liberty che non abbiamo quasi mai il tempo di goderci. Eppure per me, ad ogni visita qualcosa cambia, un dubbio lenito ed una curiosità nuova da scoprire la prossima volta, e forse è questo il trucco: provare a non diventare mai “troppo grandi” da non avere tempo per essere curiosi.E comunque quando mi chiedono come mai mi piacciono i mostri e le storie horror e le leggende inquietanti io torno bambina e mi ricordo di quel simpatico trauma che non ho ancora voglia di superare.

Alessia Cagnotto

Sabato riaprono le visite al castello del Valentino

Da sabato 18 luglio ripartono le visite guidate alla dimora sabauda sede storica del Politecnico di Torino

 Dopo oltre 100 giorni di chiusura a causa delle misure di contenimento dovute all’emergenza sanitaria da Covid-19, il Castello del Valentino, sede storica del politecnico di Torino e residenza sabauda dichiarata Patrimonio dell’umanità UNESCO, riapre al pubblico sabato 18 luglio 2020.

Il Castello, proprietà del Politecnico, è sede della Scuola di Architettura. Le stanze del piano nobile sono visitabili solo durante visite guidate gratuite, accompagnati da personale laureato selezionato dall’Ateneo. L’itinerario di un’ora prevede la visita delle stanze del piano nobile, sala delle colonne e cappella al piano terreno: è possibile che l’itinerario possa subire qualche variazione in caso di lavori di restauro e/o sale occupate da convegni.

La visita sarà svolta in assoluta sicurezza, con ingresso contingentato per gruppi di visitatori non superiori a 15 persone e l’adozione di tutte le norme di comportamento necessarie all’accesso a luoghi pubblici, come l’utilizzo delle mascherine e la misurazione della temperatura all’ingresso.

Ogni settimana, sarà quindi nuovamente possibile visitare il Castello, con due orari di ingresso al sabato mattina: alle 10.00 e alle 11.30. (prenotazione obbligatoria sul sito del Castello)

“Abbiamo scelto di riaprire il castello, appena possibile, a cittadini e turisti, consapevoli del patrimonio che abbiamo il privilegio di possedere, custodire e valorizzare, dichiara la professoressa Annalisa Dameri, Referente Scientifico per i Restauri del Castello del Valentino.

 

Istruzioni per la visita e le prenotazioni

Misure per l’emergenza Covid-19

L’ingresso sarà contingentato e, grazie ad alcune semplici norme di comportamento, sarà garantita una visita piacevole e sicura:

All’ingresso sarà misurata la temperatura. Se risulterà 37,5°C o superiore, sarete invitati a lasciare il castello con i vostri accompagnatori
I visitatori sono pregati di indossare la mascherina per tutta la permanenza al castello.
In coda e durante la visita, i visitatori sono pregati di mantenere la distanza di 2 metri con gli altri visitatori e il personale.
Lungo il percorso di visita il pubblico è pregato di attenersi alle indicazioni del personale preposto
I gruppi non dovranno superare i 15 visitatori

Giorni di apertura

Il sabato, ore 10:00 e ore 11:30. La durata è di 1 ora circa.

I gruppi superiori a 15 persone possono concordare orari e giorni di visita inviando una mail a visite.castellodelvalentino@polito.it

È necessario presentarsi 15 minuti prima dell’orario di inizio itinerario.

I minori di 12 anni devono essere accompagnati da un adulto.

L’accesso avviene da Viale Pier Andrea Mattioli 39.

Chiusure

Il Castello sarà chiuso nel periodo delle festività natalizie, delle festività pasquali, il 24 giugno e durante le festività nazionali.

Modalità di prenotazione

Le visite guidate sono organizzate per un massimo di 15 persone e sono tenute da personale laureato in architettura che illustrerà i principali aspetti storici, artistici ed istituzionali del palazzo.

Prenotazioni al link: https://castellodelvalentino.polito.it/?page_id=935

Singoli Visitatori

È richiesta la prenotazione da effettuarsi esclusivamente on line almeno 24 ore prima della visita.

La prenotazione non è dovuta per i minori fino a 10 anni.

L’accesso avviene da Viale Pier Andrea Mattioli 39.

In caso di ritardo non sarà possibile accedere al Castello e verrà richiesta un’ulteriore prenotazione.

Le visite hanno la durata di un’ora circa.

Per i non prenotati, è possibile presentarsi direttamente al castello 15 minuti prima della partenza delle visite: l’accesso sarà possibile solo in caso di annullamento di prenotazioni e comunque sino a raggiungere un max di 15 persone per gruppo.

Lingua Itinerari

Le visite guidate sono in lingua italiana.

Su richiesta, per gruppi di minimo 15 persone, è possibile effettuare la visita in lingua inglese, francese, spagnolo (scrivere a visite.castellodelvalentino@polito.it)

Controlli di sicurezza

All’ingresso, ogni visitatore sarà sottoposto ai necessari controlli di sicurezza.

Non è consentito:

– introdurre valigie, trolley, sacche, zaini, bottiglie di plastica o vetro, lattine, ombrelli, oggetti appuntiti, taglienti o contundenti;

– uscire dai percorsi indicati;

– toccare gli arredi e le opere;

– fumare (anche sigarette elettroniche).

Non sono ammessi animali.

Non è possibile introdurre e utilizzare passeggini.

È necessario rispettare le indicazioni generali riportate sulla segnaletica.

Modalità di accesso per persone con disabilità

Per consentire un’assistenza adeguata, è opportuno segnalare al momento della prenotazione della visita impedimenti o limitazioni derivanti da condizioni di disabilità.

Durante il percorso è possibile utilizzare ascensori e altri mezzi idonei a superare le barriere architettoniche.

Per l’attraversamento del cortile interno potrebbero sussistere problemi negli spostamenti con carrozzine, data la presenza del pavé. È previsto un accesso alternativo al piano nobile.

Sono disponibili maquette e tavole tattili per ipovedenti e non vedenti (scrivere a visite.castellodelvalentino@polito.it)

“Noi curdi stiamo morendo”

Gli F16 con la mezzaluna martellano pesantemente da settimane la zona nei dintorni di Zakho a caccia dei guerriglieri curdi del Pkk. Nel Kurdistan iracheno, a pochi chilometri dal confine settentrionale tra l’Iraq e la Turchia, piovono ogni giorno centinaia di bombe e tante famiglie curde, come quella di Firat, vivono nel terrore. Zakho, 200.000 abitanti, in maggioranza curdi e cristiani caldei, è la città del Patriarca caldeo Louis Sako.

“Noi curdi stiamo morendo, la Turchia ci bombarda, distrugge ogni valore di libertà, di democrazia, di laicità, calpesta i diritti umani della nostra gente. L’Europa e l’Occidente chiudono gli occhi e non fanno nulla per fermare i massacri in corso nel nord dell’Iraq”. Sul volto di Firat Ak, portavoce della comunità curda in Piemonte (circa 250 persone, in gran parte studenti), trapelano rassegnazione, rabbia e voglia di un riscatto impossibile.

Il conflitto tra turchi e curdi non nasce certo oggi ma si trascina da decenni con decine di migliaia di morti. Lui è fuggito in tempo in Italia ma la sua famiglia è terrorizzata dalle bombe turche che si abbattono sui guerriglieri del Pkk curdo che si rifugiano nel Kurdistan iracheno. Ma, a saltare in aria, spesso non sono solo i curdi, considerati “terroristi” da Ankara, ma centinaia di civili curdi, cristiani e yazidi che vivono nell’area presa di mira dai raid aerei turchi. “Oggi una potenza della Nato bombarda il mio territorio, aggiunge Firat, la casa della mia famiglia, i turchi odiano l’identità curda e ci eliminano nel silenzio del mondo e domani si ripeterà la stessa tragedia”. I curdi sono morti per noi contro l’Isis e anche questa volta sono stati traditi e dimenticati. Il Piemonte si mobilita per frenare i piani di conquista neo-ottomani del sultano Erdogan, sempre più presidente-padrone della Turchia. La Rete del Kurdistan Piemonte, il Comitato interconfessionale “Noi siamo con voi” di Giampiero Leo e il “Coordinamento contro le guerre e le atomiche” di Paolo Candelari hanno promosso un incontro, moderato dalla giornalista Laura Schrader, presso il “Polo del 900” per fare il punto sulla brutale repressione degli oppositori in Turchia e sulla situazione nel nord dell’Iraq, dove continuano i bombardamenti turchi su aree popolate da curdi, cristiani e yazidi. I curdi del Piemonte chiedono la liberazione dei prigionieri politici in Turchia e il rispetto della libertà di opinione per quanto riguarda i parlamentari curdi del Partito Democratico Popolare (Hdp) e dei sindaci eletti in Kurdistan. Alla comunità internazionale si chiede inoltre di fermare i bombardamenti e la penetrazione militare turca nel nord Iraq che colpisce villaggi cristiani e yazidi e di condannare l’invasione turca della Siria del Nord. A causa della pandemia, ha affermato Firat Ak, la Turchia ha liberato 90.000 detenuti, alcuni per reati molto gravi, ma ha lasciato in carcere 50.000 prigionieri accusati solo di criticare il governo tra cui parlamentari, giornalisti, accademici e studenti, sindaci e artisti, ignorando ogni norma di prevenzione e di igiene con il chiaro intento di decimarli. Il rappresentante curdo-piemontese ha sottolineato le continue violazioni dei diritti umani compiute in Turchia dove il governo si è trasformato in un regime intollerante verso le “voci critiche” interne, nei confronti delle minoranze, imperialista e aggressivo all’esterno, poiché Erdogan porta avanti una politica da califfo neo ottomano. L’aggressione condotta contro le minoranze e in particolare contro quella curda rappresenta un elemento destabilizzante per tutta la regione mediorientale nonché una vergogna per l’Occidente, l’Europa e la Nato che permettono ad Ankara di agire in questo modo”. Leo e Candelari hanno illustrato i motivi del totale appoggio alla causa curda da parte dei movimenti che rappresentano. Giampiero Leo ha fatto notare che la “realpolitik” invece di salvare i popoli li uccide e che l’indifferenza dell’Unione Europea verso la Turchia che calpesta i diritti umani verso i curdi e le altre minoranze accolte generosamente in quei territori è ingiustificabile. Candelari ha ricordato il controverso e discusso golpe del 15 luglio 2016 usato da Erdogan per comandare il Paese con il pugno di ferro, gli oltre 150.000 dipendenti pubblici licenziati negli ultimi quattro anni e i tanti sindaci curdi finiti in galera da un giorno all’altro. Nel nord dell’Iraq le incursioni aeree hanno come obiettivo postazioni del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) in territorio iracheno. La Turchia colpisce i suoi nemici ovunque, interviene militarmente quando vuole nel Kurdistan iracheno senza informare le autorità di Baghdad e nemmeno quelle della regione autonoma curda e il medesimo comportamento viene adottato in Siria e in Libia. I combattenti curdi del Pkk si nascondono tra le montagne del Kurdistan per sfuggire ai raid turchi e da qui, prossimi alla frontiera, si preparano per colpire basi militari e caserme di polizia in territorio turco. Il governo iracheno non ha la forza, né militare, né politica, per opporsi allo strapotere turco. Tutto quello che può fare è convocare l’ambasciatore turco a Baghdad e protestare per l’intricata situazione nel nord del Paese ma ciò non può certo bloccare l’escalation militare. Il contesto bellico odierno ricorda quanto avvenne tra gli anni Ottanta e Novanta quando le azioni militari di Ankara contro i curdi del Pkk distrussero centinaia di villaggi cristiani assiri-caldei nel nord Iraq e nell’Anatolia sud-orientale. Le operazioni andranno avanti, secondo il diplomatico turco nella capitale irachena, fino a quando i guerriglieri curdi non saranno sconfitti ma sta di fatto che anche negli ultimi raid dei caccia dell’aviazione turca sono stati colpiti alcuni villaggi cristiani e un cimitero caldeo alle porte di Zakho. “Siamo sconvolti dal fatto che per le nostre autorità, ha osservato Giampiero Leo, vicepresidente del Comitato per i diritti umani della Regione Piemonte, per l’opinione pubblica occidentale e anche per gran parte dell’informazione, sembra non valere nulla la vita di bambini, donne e uomini, curdi, armeni, yazidi, cristiani che cadono vittime dei bombardamenti o delle feroci milizie jihadiste filo-turche”. A gridare nuovamente la loro disperazione al mondo sono anche gli yazidi, la minoranza religiosa in gran parte annientata dalla ferocia e dal fanatismo islamista di Al Baghdadi. Per colpire le basi dei curdi i turchi finiscono per bombardare anche il monte Sinjar, sacro agli Yazidi, al confine tra Iraq, Siria e Turchia. Gli yazidi, minoranza di lingua curda, non musulmana, furono duramente perseguitati dall’Isis negli anni scorsi, centinaia di migliaia fecero in tempo a fuggire nel Kurdistan ma decine di migliaia vennero uccisi dai tagliagole del califfo e tanti altri furono ridotti in schiavitù. Yazidi “abbandonati del tutto dalla comunità internazionale di fronte a genocidi, schiavitù sessuale e sei anni di forzati sfollamenti” come scrisse Nadia Murad, irachena yazida, attivista per i diritti umani, due anni fa.premio Nobel per la Pace e vittima a sua volta delle atrocità dei miliziani neri di Al Baghdadi. Firat Ak lancia un appello al mondo politico: “Si indaghi sui massacri e si faccia giustizia. Noi curdi chiediamo aiuto a tutte le forze politiche e a tutte le istituzioni perchè venga costituita una Commissione internazionale sui crimini compiuti dal governo e dall’esercito turco sia in patria che nei territori esterni aggrediti”.

Filippo Re
dal settimanale “la Voce e il Tempo”

Una Regione allo specchio

“Piemonte cinquant’anni” è la rappresentazione di mezzo secolo di vita della nostra Regione attraverso più di 200 fotografie in bianco e nero e a colori. Un percorso lungo e complesso che ha scavalcato non solo il Secolo Breve ma addirittura la svolta del Millennio.

“Sfogliando le pagine di questo catalogo – afferma il Presidente del Consiglio regionale Stefano Allasia nella presentazione – è legittimo provare un senso di orgoglio per essere cittadini della nostra regione. Le immagini testimoniano episodi cruciali della storia degli ultimi cinque decenni. Questo percorso, talvolta drammatico talvolta più sereno, rimane tuttavia lontano da intenti celebrativi o autoreferenziali, mirando piuttosto a sviluppare nel lettore una doverosa riflessione sull’identità regionale, che deve attingere alla propria memoria passata per affrontare con determinazione, fiducia e senso di appartenenza comunitario le sfide del presente e del futuro”.

In occasione delle celebrazioni del cinquantenario il Consiglio regionale del Piemonte, con il sostegno della Fondazione CRT, ha promosso la realizzazione di una mostra e di un catalogo fotografico, che l’agenzia Ansa ha curato a partire dai materiali iconografici provenienti dagli archivi storici istituzionali. Il percorso si snoda idealmente attraverso i primi 15 articoli dello Statuto regionale che contengono i suoi principi fondamentali.

“La storia della Fondazione CRT si è sempre intrecciata con quella della Regione Piemonte, accompagnando ogni giorno la vita dei cittadini in molti ambiti: cultura, welfare, ambiente, lavoro, ricerca, innovazione, formazione”, afferma il Presidente della Fondazione CRT Giovanni Quaglia.

“Il volume propone un racconto iconografico sobrio ma autorevole, come l’informazione dell’Ansa, un viaggio nella storia di un Piemonte dalle forti tradizioni, pioniere nella politica e nell’economia come nell’arte e nella cultura. Centocinquanta pagine di fotografie che immortalano la vita della Regione e, con questa, il risultato di cinquant’anni di produzione legislativa e attività di governo”, dichiara Luigi Contu, direttore Agenzia Ansa.

La prima Carta della Regione Piemonte, come quella delle altre 14 Regioni italiane a statuto ordinario, era stata promulgata nel 1971. La revisione e l’aggiornamento del testo sono stati portati a termine il 19 novembre 2004, mentre l’entrata in vigore della nuova carta risale al 22 marzo 2005. Nel 2020 quindi celebriamo non soltanto il cinquantenario della Regione ma anche i 15 anni del nostro nuovo Statuto.

Il racconto della storia del Piemonte dal 1970 al 2020 parte dalle immagini in bianco e nero delle prime legislature e attraverso i numerosi argomenti toccati dallo Statuto (autonomia e partecipazione, sussidiarietà, programmazione, sviluppo economico e sociale, territorio, patrimonio naturale e culturale, salute, casa, tutela dei consumatori, diritti sociali, informazione, pari opportunità, scuola e ricerca, relazioni con l’Europa) arriva alle immagini più recenti del Piemonte di oggi.

La mostra (e il ricco catalogo a colori che la accompagna) saranno presentati al pubblico con un’anteprima virtuale sui canali social di @crpiemonte (Twitter, Facebook, YouTube, sito Web) in occasione delle celebrazioni del cinquantenario lunedì 13 luglio 2020, mentre verranno messi a disposizione dei visitatori nella versione completa (arricchita anche da alcuni video) a novembre 2020, quando sarà celebrato solennemente l’anniversario della firma del primo Statuto della Regione Piemonte (10 novembre 1970) e quello dell’approvazione della sua più recente versione (19 novembre 2004).

13 luglio 1970 – 13 luglio 2020

Nel tardo pomeriggio di lunedì 13 luglio 1970, alle ore 17, iniziò nell’aula ottocentesca del Palazzo delle Segreterie di piazza Castello a Torino (sede gentilmente offerta dalla Provincia), la seduta inaugurale della I Legislatura del primo Consiglio regionale della storia del Piemonte.

Alla presenza dei 50 consiglieri eletti il 7 giugno 1970, di numerose Autorità e con l’esposizione dei gonfaloni dei Comuni insigniti dalla medaglia d’oro, il Consigliere anziano Gianni Oberto Tarena, interpretando appieno la solennità e l’emozione del momento storico che tutti avvertivano, aprì la seduta con queste parole: “Da questo momento la Regione Piemonte, costituita in Ente autonomo, esercita propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione”. 

“Il mio discorso deve avere anche un contenuto politico – proseguì Oberto – che riaffermi la fede e i propositi che l’accompagnano in questo nuovo ente che trova la sua collocazione nella volontà politica e per noi adesso nell’adempimento di quel documento fondamentale che è al Costituzione nata dal travaglio ella riscossa e del riscatto che ha avuto e d ha nella lotta di liberazione il suo fermento, il suo lievito, il suo fondamento, il suo insegnamento”.
Proseguendo Oberto fece riferimento alle deleghe di compiti e funzioni alle Province e agli altri Enti territoriali, ai 1209 Comuni prima di tutto. Sottolineando le funzioni della Regione come “essenzialmente normative in senso legislativo e programmatorio prima che esecutivo”. Un cenno nel suo discorso andò anche al tasso di immigrazione che “che per il Piemonte è altissimo: il saldo migratorio nel decennio 1958-1968 si chiude con la impressionante cifra di 521.567 unità e siamo oggi a 4.400.000 abitanti”. Oberto parlò anche dell’imminente stesura dello Statuto della Regione: “i 120 giorni fissati per tale adempimento non sono molti ma la Regione Piemonte, nel solco della sua tradizione di laboriosità, penso vorrà rispettare i termini”.

All’intervento di apertura del presidente provvisorio fecero seguito quelli dei rappresentanti degli schieramenti politici presenti in Consiglio, partendo dai minori per arrivare a quelli più numerosi.
Il primo consigliere a cui il presidente diede la parola fu Mario Giovana (PSIUP-PCI) il quale, dopo aver sottolineato duramente che erano passati ben 22 anni prima di giungere della costituzione delle Regioni, disse: “Riteniamo spetti a questa assemblea farsi momento promotore e collettore delle spinte nuove che emergono dal travaglio di crescita della nostra società, stabilendo rapporti diretti e sostanziosi con quante istanze di democrazia e di autogoverno delle masse vengono maturando in seno al corpo sociale”.
Seguì l’intervento di Domenico Curci, consigliere del MSI, che subito precisò la sua posizione: “Quali rappresentanti dell’unico partito politico che nel parlamento nazionale ha portato coerentemente, sino alle estreme conseguenze, la sua opposizione all’istituzione delle Regioni, ma che come è nella sua morale e nelle sue tradizioni, rispetta istituti, metodi e principi che pur avversa quando essi sono parte integrante della legislazione e degli ordinamenti dello Stato, ci accingiamo a compiere, nella Regione che vede oggi la luce il nostro dovere al servizio della Nazione”.
La parola passò poi ad Aldo Gandolfi, consigliere del PRI, che iniziò il suo intervento dicendo: “…rappresento una corrente, un partito politico che da quasi un secolo conduce una battaglia regionalista. Attraverso una corretta realizzazione delle Regioni passa in concreto la possibilità di realizzare anche nel nostro Paese una moderna democrazia industriale”.
Terenzio Magliano, consigliere del PSU, disse: “… ci accomuna e rende possibile il discorso la convinzione di dover passare, sia pure nel confronto critico continuo, attraverso la sola e unica strada possibile, quella democratica nella quale tutte le riforme sono possibili e tutti gli apporti costruttivi hanno incidenza e lasciano traccia duratura”.
Il consigliere del PLI Cesare Rotta, esordì citando Einaudi: “Come liberali noi siamo assertori del decentramento delle istituzioni e della devoluzione del potere in modo da rendere possibile, al maggior numero di cittadini di conoscere e controllare l’operato della pubblica amministrazione e di occuparsi della cosa pubblica. L’ordinamento regionale non può essere una federazione di sovranità frazionate e divise, deve essere un sistema di autonomie decentrate. Luigi Einaudi ci ammoniva che l’unità del Paese non è data dalle circolari, dalle istruzioni, e dalle autorizzazioni romane; l’unità del Paese deve essere fatta dagli italiani i quali imparino a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé”.
Nerio Nesi, consigliere regionale per il PSI – dopo aver sottolineato con forza la necessità di procedere speditamente alla stesura dello Statuto regionale – così analizzò la situazione del Piemonte di quegli anni: “Qui risiedono alcuni tra i più grandi, gruppi industriali e finanziari europei, ma qui è quasi completamente assente l’impresa pubblica, qui si è riscontrato il più grande fenomeno immigratorio che ricordi la storia del nostro paese, ma qui vi è stata la maggiore diminuzione di occupazione che si sia verificata in questi anni in Italia. Ciò è dovuto soprattutto alla disoccupazione giovanile, fenomeno che diventa sempre più preoccupante ed al massiccio abbandono delle campagne. In questa Regione si costruiscono manufatti perfetti, ma qui si assiste a forme, fra le più odiose, di speculazione e di sfruttamento”.
Conclusero il primo gruppo di interventi i consiglieri dei due partiti politici principali, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana.
Dino Sanlorenzo, consigliere del PCI, dedicò buona parte del suo discorso alla questione meridionale: “… proprio nel giorno in cui si insediano, insieme al nostro, altri Consigli regionali di alcune Regioni meridionali che hanno tanti loro figli nel Piemonte di oggi, noi, comunisti, vogliamo ricordare a noi stessi e alle forze politiche piemontesi la lezione di Gramsci, la necessità di unire i lavoratori venuti da tutte le Regioni, realizzare intanto qui la saldatura fra nord e sud e al tempo stesso operare perché siano affrontati e risolti con metodi e contenuti nuovi i problemi di uno sviluppo distorto, caotico non programmato secondo gli interessi della collettività, diretto sinora dai gruppi privilegiati che questi problemi hanno mantenuto e aggravato in tutti questi anni”.
L’ultimo intervento fu quello di Adriano Bianchi, rappresentante della forza politica più numerosa in Consiglio regionale, che espresse gli obiettivi della Democrazia Cristiana in Piemonte: “L’azione della Regione – disse Bianchi – non può realizzarsi ed esaurirsi nel rapporto e nel confronto fra gli schieramenti politici, o nella loro iniziativa, ma comporta un collegamento con ogni sede in cui si riveli o possa essere suscitata una esigenza di autogoverno. … La risposta che si coglie nella visione di un’unica polis, di un’unica città-regione, senza periferie e senza mura esterne, nella quale le autonomie locali, anche le più esigue, trovino un quadro di riferimento, un modello, una funzione valida”.

Venne poi eletto l’Ufficio di Presidenza, che risulterà così composto: Paolo Vittorelli (PSI) presidente (eletto con 46 voti favorevoli e 4 schede bianche su 50), Gianni Oberto Tarena (DC) e Dino Sanlorenzo (PCI) vicepresidenti, Stanislao Menozzi (DC) e Cesare Rotta (PLI) Consiglieri Segretari.

Il neo presidente del primo Consiglio regionale del Piemonte, il senatore Paolo Vittorelli, tenne quindi il suo discorso di insediamento sottolineando i caratteri peculiari del nuovo ente.
“Noi non siamo un ente autonomo come gli altri. Non pretendiamo di essere un Parlamento. Ma, nello stesso tempo, noi dobbiamo essere consapevoli che il Consiglio regionale è qualcosa di diverso dal Consiglio delle altre Amministrazioni autonome – disse Vittorelli -. Non foss’altro che per la struttura della quale noi siamo dotati; struttura che presenta alcune analogie con quella degli organi di carattere nazionale. Non è per puro caso che il Consiglio regionale, diversamente dai Consigli provinciali e dai Consigli comunali, è dotato di organi assembleari e di organi di governo; e la distinzione delle loro funzioni è diretta conseguenza delle caratteristiche che la Regione assume nella Costituzione della Repubblica, caratteristiche secondo le quali la Regione è il primo ente autarchico al quale sia stata conferita potestà legislativa e al quale, nello stesso tempo, siano state attribuite funzioni di controllo sugli altri enti locali”.
“Nello stesso tempo – proseguì Vittorelli – come ente autonomo, siamo anche un ente dotato di una propria sfera, sia pur limitata, di sovranità, fissata negli articoli 117 e 121 della Costituzione della Repubblica. Sfera di sovranità che consente alla Regione, su materie esplicitamente enunciate, di emanare norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti nelle leggi dello Stato….. Si tratta di una innovazione importante nel nostro ordinamento amministrativo, in quanto la Regione assume, in questo modo, una responsabilità che, fino ad oggi, in tutta la storia delle nostre autonomie locali, nessun ente locale era riuscito a conseguire”. ” Vorrei, per concludere, Signori Consiglieri, ricordare che la nostra non è una Regione come le altre. Questo non soltanto perché è una Regione industrialmente sviluppata, ma anche perché ha avuto una funzione importante nella storia del nostro Paese. Non voglio ricordare per esteso la funzione che essa ebbe cent’anni fa: desidero soltanto ricordare a questo riguardo che da questo territorio partì una tradizione di correttezza amministrativa che, con la complessità dei problemi sorti dopo l’Unità d’Italia, andò a poco a poco disperdendosi. In questa Regione noi possiamo ricostituire le condizioni di questa correttezza amministrativa, anche perché i problemi che ci stanno davanti sono problemi di una gravità estrema”.

Alle 20.45 di un caldo lunedì sera, il 13 luglio 1970, il presidente Vittorelli pronunciò le solenni parole conclusive: “La seduta è tolta”. Da quella importante serata ebbe inizio la storia della Regione Piemonte che è arrivata oggi, a 50 anni da quel giorno, alla sua undicesima legislatura.

Dall’Ufficio stampa di Palazzo Lascaris

Cinquant’anni fa nasceva la Regione Piemonte

Esattamente cinquant’anni fa, il 13 luglio 1970 (ironia della sorte anche quel giorno cadeva di lunedì) muoveva i suoi primi passi ufficiali la Regione Piemonte.

Riuniti nel Palazzo delle Segreterie in Piazza Castello, i cinquanta membri del primo Consiglio regionale del Piemonte, diedero inizio alla fase costituente dell’Ente la cui nascita era stata prevista nella Costituzione entrata in vigore nel 1948.

L’annuncio  dello storico evento, pronunciato dall’avvocato canavesano Gianni Oberto Tarena, presidente provvisorio dell’Assemblea, venne suggellato dall’applauso unanime dell’intero Consiglio e delle autorità che presenziarono alla cerimonia di insediamento.

Nella stessa seduta si procedette all’elezione del Presidente, il socialista Paolo Vittorelli, coadiuvato dagli altri componenti dell’Ufficio di Presidenza formato dai Vicepresidenti Gianni Oberto Tarena (DC) e Dino Sanlorenzo (PCI), dai segretari Stanislao Menozzi (DC) e Cesare Rota (PLI).

Dieci giorni più tardi, il 23 luglio, il Consiglio procedette all’elezione del primo governo regionale guidato dal Presidente Edoardo Calleri di Sala, esponente della Democrazia Cristiana. Ne fecero parte, oltre al Presidente, altri 15 membri: 11 effettivi (Giovanni Falco, Angelo Armella, Augusto Dotti, Domenico Conti, Pierino Franzi e Carlo

Gianni Oberto Tarena

Borando della DC, Aldo Viglione e Mario Fonio del PSI, Germano Benzi e Giulio Cardinali del PSDI (ex PSU) e Aldo Gandolfi del PRI)  e 4 supplenti (Anna Maria Vietti, Ettore Paganelli, Enzo Garabello e Mauro Chiabrando, tutti appartenenti allo scudo crociato).

L’appuntamento con le urne per eleggere i cinquanta membri del “parlamentino” subalpino si era tenuto poco più di un mese prima, il 7 e 8 giugno del 1970. Nove erano stati i partiti in lizza sulle cui liste si erano riversati  i 2.805.786 voti validi, determinando la composizione del primo Consiglio regionale sulla base proporzionale della rappresentanza politica: 20 seggi alla DC, 13 al PCI, 5 al PSI, 4 al PSDI (a quel tempo PSU), 4 al PLI, 2 al MSI e infine uno ciascuno a PRI e PSIUP.

Unico partito che non raggiunse il quorum per eleggere un consigliere fu quello monarchico del PDIUM. Dopo una lunga attesa durata oltre vent’anni le Regioni, segnata da una gestazione molto laboriosa e non facile, il regionalismo muoveva i suoi primi passi. In mezzo secolo è stato compiuto un lungo cammino da parte della comunità regionale piemontese che quest’anno festeggia anche il terzo lustro dell’approvazione del nuovo Statuto.  Quindici anni fa, durante la VII legislatura, infatti, venne ridefinito il profilo istituzionale della Regione nell’ottica dell’autonomia e della partecipazione, della devoluzione dei poteri e della sussidiarietà.

Gianni Oberto Tarena con Paolo Vittorelli

 

 

Nel corso dei decenni  le funzioni regionali sono aumentate e con esse il ruolo e la responsabilità fino a ipotizzare nuovi e importanti traguardi nella realizzazione di un federalismo moderno, rispondente alle esigenze dei territori e dei cittadini in una cornice istituzionale basata su rapporti nuovi e condivisi tra lo Stato, il sistema regionale e gli Enti locali.

Basterebbe uno sguardo ai provvedimenti più importanti che sono stati varati in cinquant’anni per rendersi conto del lavoro svolto nel corso delle undici legislature da una classe dirigente di amministratori e legislatori appartenenti alle diverse forze politiche alternatesi al governo della Regione.

Marco Travaglini

 

Srebrenica, venticinque anni dopo il genocidio

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L’11 luglio di venticinque anni fa, nella calda estate del 1995, nel cuore del Balcani sconvolti dalla guerra cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del ‘900 in Europa. In quella cittadina tra le montagne della Bosnia nord-orientale, enclave musulmana a pochi chilometri dalla Drina, oltre diecimila musulmani bosniaci maschi, tra i 12 e i 76 anni,vennero catturati, torturati, uccisi e sepolti in fosse comuni dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi. Fu un genocidio, riconosciuto tale dal Tribunale internazionale per i criminini nella ex-Jugoslavia dell’Aja. Vogliamo ricordare quel dramma atroce con il racconto di un viaggio della memoria a Srebrenica con un gruppo di studenti piemontesi. L’autore, il nostro collaboratore Marco Travaglini, è da sempre un attento osservatore delle questioni balcaniche alle quali ha dedicato molti articoli e i libri “Bruciami l’anima” e “Bosnia, l’Europa di mezzo.Viaggio tra guerra e pace,tra Oriente e Occidente”.

 

Un giorno a Srebrenica

di Marco Travaglini

La strada da Tuzla a Srebrenica è tutta a curve e tornanti e si snoda, per la maggior parte, nel territorio  della Republika Srpska. Oltrepassata  la periferia urbana di Tuzla, all’improvviso il paesaggio cambia. C’è molto verde, con boschi e prati. S’attraversano piccole borgate contadine con i segni del conflitto ancora evidenti sui muri delle case. S’avverte la povertà tra i panni stesi, i mucchi di letame secco e  le stoppie. Unica presenza quasi continua, di là dal ciglio della strada, sono le lapidi di irregolari  cimiteri. Le indicazioni stradali sono in cirillico. Da tanti anni, in questo angolo di Balcani, non si spara e non si muore  più, se non ci si avventura sconsideratamente tra i boschi ancora infestati dalle mine , ma la cappa di diffidenze, rancori e  odio resta appiccicata nell’animo delle persone. Del resto è difficile perdonare ciò che appare imperdonabile nel fondo delle coscienze di chi ha subito i torti e le violenze peggiori . Le distanze assumono una dimensione concreta, fisica se si pensa a quella mostruosità d’ingegneria istituzionale  rappresentata da una confederazione di due repubbliche basata sulle differenze etnico-religiose: da un lato la Federazione di Bosnia Erzegovina a maggioranza croato-bosniaca e di religione musulmana, dall’altro la Repubblica Srpska ( per alcuni “la piccola Serbia” di Bosnia) di religione ortodossa. Due mondi che faticano a comunicare, quando non si guardano in cagnesco. Due realtà separate, come ho letto in un reportage sul portale ecologista “Terra News”, “da una linea invisibile lunga più di mille chilometri. Non è mai segnalata, eppure ha un nome ben preciso: si chiama Ielb, Inter-entity boundary line, e ricalca più o meno fedelmente il fronte di guerra del 1995. Da quel momento in poi, il confine tra i due stati confederati non ha più avuto alcun bisogno di essere indicato. Tanto lo conoscono tutti: è rimasto scolpito in ogni ruga, in ogni memoria. La Ielb è la stessa linea che quel maledetto 11 luglio del 1995 i bosniaci in fuga cercarono disperatamente di raggiungere, passando per i boschi”. Dall’altro lato c’erano i luoghi che ci siamo lasciati alle spalle: il territorio libero di Tuzla, controllato dall’armata repubblicana bosgnacca, e quindi la salvezza. Per migliaia restò un miraggio e furono uccisi sul percorso della “marcia della morte” dalle truppe paramilitari serbe sguinzagliate sulle loro tracce dal generale Ratko Mladić, il boia condannato all’ergastolo dal Tribunale internazionale dell’Aja insieme all’altro criminale di guerra, Radovan Karadžić. Di lui si ricordano frasi agghiaccianti come “le frontiere sono sempre state tracciate col sangue e le nazioni delimitate dalle tombe”. Nell’ordinare la strage di Srebrenica Mladić raccomandò ai propri uomini di uccidere solo gli uomini perché “le loro donne devono vivere per soffrire”. Sono gli stessi uomini, ragazzi e vecchi i cui nomi sono impressi nell’enorme lapide di pietra che circonda la grande pagoda del Memoriale di Potočari . E’ lì che stiamo andando. Il pullman ci mette quasi tre ore a coprire una distanza di circa cento chilometri. I ragazzi chiacchierano, ridono, scherzano. Alcuni sono assorti nell’ascolto dell’iPod. Qualcuno dorme.  Arriviamo a Potočari e lasciamo il pullman a qualche centinaio di metri dal memoriale. Sono da poco passate le undici del mattino e fa molto caldo. Tra le file delle  steli bianche e verdi delle lapidi s’aggirano anziane donne. Camminano sotto il sole, ognuna  con la sua  bottiglietta d’acqua in mano. Si rimane sbalorditi dal senso di pace e dal silenzio. S’avverte appena il brusio, sommesso, della preghiera di un gruppo di musulmani raccolti con il loro mullah sotto la grande cupola della moschea all’aperto. La visita prosegue con l’intervento dei rappresentanti della municipalità di Srebrenica e la posa di una corona d’alloro del Consiglio regionale ai piedi della  lapide  con inciso 8372″. E’ il numero delle vittime, che corrisponde a quello ipotizzato quando venne aperto il memoriale. In realtà la cifra più attendibile è di oltre diecimila morti. Terminata la cerimonia si attraversa la strada per visitare l’ex-fabbrica delle batterie che fu la  base dei caschi blu dell’ONU, luogo dove si consumò la pulizia etnica nei giorni della vergogna. Il contrasto è netto. Se fuori fa caldo e la luce è accecante, dentro fa freddo ed è semibuio. La fabbrica, pur mantenendo gli ambienti originali con i grandi capannoni,  è diventata un museo. Sui muri ci sono le fotografie dell’assedio di Srebrenica, dei militari, delle fosse comuni. Alcuni pannelli raccontano  le storie di alcune delle vittime e accanto, dentro delle teche di vetro illuminate, ci sono gli oggetti personali che sono stati trovati accanto ai loro corpi. Ciò che resta di un orologio, un pacchetto di sigarette, un anello, un piccolo quaderno. Oggetti semplici, quotidiani, che fanno parte delle storie semplici di vite spezzate. Sui muri ci sono ancora le scritte e i disegni osceni dei militari olandesi. Gli stessi che avevano il compito di proteggere gli sfollati e non alzarono un dito. Ci sono anche due video. Il primo mostra quello stesso cortile nel primo pomeriggio dell’11 luglio 1995. È ingombro di automezzi  carichi di anziani, donne e bambini attorniati da paramilitari serbi e caschi blu olandesi. Le donne vengono separate dagli uomini con la collaborazione degli stessi caschi blu, forse impauriti da una possibile reazione. Poi i maschi spariscono per sempre nei boschi e le donne vengono selezionate: quelle più giovani sono portate all’interno, dove tuttora è intatta la ‘infertivno dom’, la stanza dell’inseminazione, corredata dalle scritte che sui muri celebrano orari e protagonisti di ogni stupro. Viene voglia di voltare lo sguardo ma gli occhi rimangono incollati alle immagini. Quelle donne, ferite e coraggiose,  sono le stesse donne che da tanti anni aspettano di ritrovare il corpo dei loro cari, ostinandosi a visionare ogni reperto trovato e effettuare gli esami del dna. E’ grazie a loro se tutto ciò oggi può essere raccontato. Al loro  dramma il Tribunale dell’Aja non ha mai riconosciuto un indennizzo di guerra poiché quel genocidio, si è detto, fu opera di singoli e non del governo serbo. Ed eccoli, nel filmato del documentario,i “singoli”: dagli “Scorpioni”, truppe paramilitari d’assalto, alle milizie di Mladić, il “boia di Srebrenica”. Si filmano da soli, in preda a un delirio di onnipotenza,  per testimoniare le loro nefandezze. Si vedono mentre inseguono i fuggiaschi nei boschi, puntando le armi su una fila di bosnacchi disperati. Sanno cosa fare: prendono un uomo alla volta, lo portano in mezzo alle frasche, gli sparano. Nel filmato si comprende bene la loro richiesta prima di ogni esecuzione: “guarda per terra”. Poter non guardare in faccia la propria vittima, hanno spiegato gli psicologi, è ciò che serve anche al più duro dei criminali per resistere così allo stress di una mattanza. In questo caso di un genocidio. E’ una richiesta allucinante: “abbassa gli occhi e muori. Muori, ma non guardarmi”. Le immagini scorrono, incollando gli sguardi allo schermo. Il silenzio si fa ancora più assordante. Di tanto in tanto un rumore metallico ( basta appoggiarsi  o inciampare in qualche struttura per provocarlo e  amplificarlo nel vuoto di questi enormi scatoloni di ferro e cemento) lo  spezza , facendo sobbalzare i ragazzi. L’atmosfera è pesante e la tensione diventa palpabile, densa. Un grumo di emozioni s’accumula e fatica a sciogliesi. Non sono pochi quelli che, pur cercando in qualche modo  di mascherarlo, non reggono allo stress emotivo e piangono. In fondo è un atto liberatorio, un modo per espellere il veleno inoculato negli animi  da  queste immagini che non sono tratte da un film ma dalla testimonianza, diretta e cruda, di una realtà violenta e arrogante. Mi sembra di udire la voce profonda e un po’ rauca  di Giovanni Lindo Ferretti. Ne immagino la faccia scavata, senza età mentre canta “Memorie di una testa tagliata”. Parole che fanno riflettere a Srebrenica. “Chi è che sa di che siamo capaci tutti,vanificato il limite oramai. Vanificato il limite, sotto occhi lontani, indifferenti e bui…Pomeriggio dolce assolato terso, sotto un cielo slavo del Sud. Slavo cielo del Sud non senza grazia”. Un limite oltrepassato, calpestato, negato con un cinismo paragonabile solo alle pianificazione nazista dell’Olocausto. E tutto questo cinquant’anni dopo. Segno che la storia, troppe volte, non insegna nulla nonostante ci offra un’infinità di cose sulle quali riflettere. Quando si esce dai capannoni  sotto il sole caldo e accecante sono quasi le tredici. E’ come s’uscisse da una tomba. Gli sguardi sono persi, attoniti, provati. I ragazzi salgono sul pullman ammutoliti. Difficilmente dimenticheranno ciò che hanno visto. Si  passa veloci dal centro di Srebrenica, si svolta e si torna indietro, costeggiando il grande cimitero dove ci sono ancora moltissime tombe provvisorie. Secondo i precetti musulmani, le steli  di legno verde devono anticipare di un anno la lapide definitiva in marmo bianco. Ma sopra ognuno di quei legni verdi,  c’è un nome e un cognome. E ci sarà qualcuno che, finalmente,  potrà ritrovarsi lì per piangere un padre, un marito o un figlio. Ci si lascia alle spalle, silenziosi, il cuore della memoria rimossa dell’Europa, mentre il sole s’avvia con una  lentezza esasperante verso il tramonto a ovest. Nella stessa nostra direzione. C’è chi fa notare che , a poche centinaia di chilometri , oltre l’Adriatico, c’è l’Italia. Non troppo lontana e ugualmente europea , anche se pare un altro mondo.

Morricone a proposito di monarchia e Risorgimento

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / In morte di Ennio Morricone è uscita sui giornali anche  questa sua dichiarazione : “Piansi anche per il Re, quando perse il referendum e fu costretto all’esilio. Per me la Monarchia era l’Italia del Risorgimento, che finiva per sempre”

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Morricone era del 1928 e nel 1946 aveva 18 anni. Espresse un giudizio non positivo sul vecchio re Vittorio Emanuele III, ma giunse a dire che aveva pianto per Umberto II, il nuovo re che aveva suscitato tante speranze e che aveva comunque raccolto quasi 12  milioni di consensi.  Morricone  era un giovane, non era un vecchio ufficiale o un nobile legato alla corte sabauda  Mio nonno che aveva combattuto nella Grande Guerra pianse,nel 1947 all’annuncio della morte in esilio del Re del Piave, come lo definiva lui.
Morricone invece era un giovane che aveva vissuto consciamente le tragiche vicende italiane tra il 1943 e il 1945. Espresse un giudizio appassionato  sul nuovo Re che lo accomuna  idealmente ai giovani di Via Medina a Napoli che nel giugno del 1946 testimoniarono con la vita il loro attaccamento a Casa Savoia. Ma soprattutto e’ importante la seconda parte del suo pensiero  che identificava la Monarchia con il Risorgimento. Era il pensiero di un giovane, forse neppure molto colto in fatto di storia: concluderà infatti   i suoi studi musicali al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma proprio nell’ ottobre 1946. Quell’identificare la Monarchia con il Risorgimento era di alcuni grandi spiriti da Benedetto Croce a Luigi Einaudi. Francesco Carnelutti, Giorgio De Chirico, Anna Magnani, Maria Montessori , Padre Pio votarono per la Monarchia al referendum. Votò per il Re  persino il giovane  Eugenio Scalfari che aveva esordito sui giornalisti fascisti della capitale e che scrisse di aver obbedito a Croce in quella scelta istituzionale. Il grande storico di idee repubblicane Rosario Romeo nel suo libro “Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale“ colse quella linea di continuità espressa in maniera semplice e immediata  da Morricone. Se penso alle  semplificazioni storiche, ridotte a battute di varietà,scritte di recente da Alessandro Barbero su Vittorio Emanuele II nel Bicentenario della nascita, constato come quella certa idea di Risorgimento non sia stata capita  da chi pure  pretende di farci costantemente  lezione, come e’ solito fare  il professore dell’Universita’ di Vercelli. Certo, c’è stato anche un Risorgimento repubblicano: Mazzini, Pisacane, Cattaneo, Ferrari. Fu gran cosa sotto il profilo etico, ma falì sul piano politico perché l’idea di unire l’Italia non poteva realizzarsi con la creazione ex novo di una repubblica ì, come già aveva intravisto tanti secoli prima  Machiavelli. Ci fu infatti anche chi come il repubblicano Garibaldi  mise la sua spada al servizio della Monarchia perchè essa era il fulcro su cui far leva per realizzare l’ unità d‘Italia. Francesco Crispi disse che la Monarchia ci univa e che la Repubblica ci avrebbe diviso. Un grande della musica novecentesca seguiva più o meno consciamente Giuseppe Verdi che fu anche patriota del Risorgimento. Poi Morricone fu tanto altro. Era  anche molto amico Mario Pannunzio e di sua moglie Mary. Una volta al Caffè Greco di Roma in via Condotti me lo  fece conoscere e il maestro si interessò del nascente centro Pannunzio, molto interessato perché c’era con noi anche il suo amico Mario Soldati. Avrei desiderato conferirgli il Premio Pannunzio, ma non fu possibile per i suoi tanti impegni internazionali. Mi deluse un po’ quando sostenne con forte partecipazione   nel 2007 Walter Veltroni, una meteora politica piuttosto inconsistente, ma Morricone va ricordato e celebrato essenzialmente  per il suo genio musicale e la sua umanità. Fu un grande della musica, ma fu anche grande umanamente. Cosa rarissima. La politica in fondo non ha nessuna importanza per un personaggio che ha speso la sua vita nell’arte più universale qual è la musica.

Cent’anni fa governava Giolitti…

Di Pier Franco Quaglieni / Cent’anni fa iniziava l’esperienza dell’ultimo governo Giolitti, il quinto. Sembrava la rinascita dell’età giolittiana che si era chiusa con l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio 1915

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Giolitti era contrario all’intervento perché riteneva che si potesse ottenere “parecchio“ dall’Austria attraverso le trattative diplomatiche. Forse era inevitabile quell’intervento in guerra, al di là del compimento del Risorgimento con la quarta guerra di indipendenza. Ma certamente l’Italia, pur vittoriosa nel 1918, uscì sconvolta da quella guerra. La crescita di benessere realizzata durante i governi giolittiani si era fermata. Divampava nel Paese un forte disagio sociale. La guerra aveva toccato quasi tutte le famiglie e la spagnola aveva mietuto le stesse vittime delle trincee.
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I socialisti pensarono fosse giunto il momento di fare anche in Italia la rivoluzione dei Soviet sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre in Russia. Un colossale errore che genererà la reazione fascista. I fasci di combattimento nacquero nel 1919 anche a tutela degli ex combattenti offesi e scherniti dai socialisti. Lo stesso Gaetano Salvemini, già socialista e poi interventista e intervenuto volontario  nella guerra, fu eletto in Parlamento in rappresentanza dei combattenti. L’Italia, anche in conseguenza della pace ingiusta di Versailles che portò D’Annunzio all’impresa di Fiume, si trovò non riconosciuti i suoi diritti territoriali. Si parlò non senza ragione di <<vittoria mutilata>> . Nel 1919 c’era stata anche l’introduzione della proporzionale per le elezioni politiche che permise un’alta rappresentanza parlamentare di socialisti e popolari. In quello stesso anno Don Sturzo aveva fondato il Partito Popolare, portando direttamente  i cattolici – malgrado la questione romana – nell’arengo politico. Il fronte liberale, diviso tra una destra salandrina e un centro-sinistra giolittiano, uscì indebolito dalle elezioni del 1919. Di fronte ai partiti di massa socialisti e cattolici i liberali non seppero organizzarsi neppure in partito. Il partito liberale nacque nel 1922 alla vigilia della marcia su Roma. Quello di Giolitti di cent’anni fa fu l’estremo tentativo di salvare la democrazia liberale in Italia, riannodando i fili della sua politica prima della guerra : coinvolgere socialisti e cattolici nel governo del Paese. Lo Statista di Dronero, in un celebre discorso che gli valse l’appellativo di “Bolscevico dell’Annunziata“, aveva tracciato un programma di riforme  sociali anche molto ardite. Non a caso Giolitti aveva portato nel 1912 all’estensione del suffragio universale maschile per allargare le basi ancora troppo élitarie dello Stato nato dal Risorgimento.
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Allargare il consenso, migliorare le condizioni di vita dei cittadini attraverso un attivo riformismo fu il programma che fece di lui lo statista della nuova Italia. Il V Governo Giolitti fu in carica dal 15 giugno, ma divenne operativo nel luglio 1920. Rimase in carica poco più di un anno. Il vecchio Giolitti fu l’unico presidente del Consiglio risoluto del dopoguerra e arrivò nel dicembre del 1920 a cacciare D’Annunzio da Fiume. Il governo era espressione di liberali, popolari, socialisti riformisti, radicali, indipendenti. Agli Esteri c’era il Conte Carlo Sforza, alla Guerra Ivanoe Bonomi, all’istruzione Benedetto Croce, agli Interni lo stesso Giolitti, al Lavoro Arturo Labriola, al Tesoro Filippo Meda. L’ipotesi di un’alleanza democratica tra liberali, cattolici e socialisti venne avviata da Giolitti come l’unica soluzione  possibile alla crisi italiana, politica ed economica. Giolitti era un pragmatico molti concreto e capace.  Il Governo cercò con risolutezza di andare oltre l’emergenza post – bellica. Ma l’infuriare del ribellismo violento dei socialisti massimalisti e dei comunisti da una parte e delle squadracce fasciste dall’altra impedì il realizzarsi di una politica che avrebbe salvato l’Italia ed avrebbe evitato il fascismo. Le colpe sono da ascriversi ai socialisti e ai popolari e in parte minima allo stesso Giolitti che forse non aveva pienamente colto che il clima politico era totalmente cambiato. Quel Governo fu comunque il migliore possibile e quelli che seguirono furono fragili e deboli e finirono con Facta di consegnare l’Italia a Mussolini che rivelò invece  sorprendenti doti politiche perché con appena 35 deputati fascisti divenne nel 1922 presidente del Consiglio.
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Peccato che Giolitti non abbia più avuto da tempo uno storico serio che abbia aggiornato gli studi su di lui e che dobbiamo ancora avvalerci esclusivamente  del volume di Nino Valeri. Non sarebbe un discorso storico confrontare il Governo Giolitti con il Governo che abbiamo cent’anni dopo perché i contesti sono distanti e diversi . Ma non sarebbe neppure possibile tentare un confronto tra un grande statista e l’avvocato pugliese, anche se oggi ci ritroviamo nel pieno di una crisi peggiore di quella di cent’anni fa. Giolitti dopo Cavour fu e resta il più grande statista italiano della nostra storia unitaria.  Giolitti fu anche l’esempio del modo di intendere lo Stato da parte un piemontese che era nato nel 1842, quando il Risorgimento era di là da venire .Era stato prima di entrare in Parlamento un alto funzionario dello Stato di cui conosceva gli ingranaggi a menadito. ”Governe’ bin“ era il suo obiettivo e Salvemini che lo definì ministro della malavita ,commise un grave errore storico di cui in tempi successivi si rese pienamente conto. Anche Luigi Firpo mise in evidenza le qualità tutte  piemontesi di Giolitti che venne sottovalutato e criticato da Gobetti e anche da Einaudi. C’è  chi scrisse del mito del buongoverno giolittiano, senza comprendere lo sforzo titanico che  egli fece per cucire ,come disse, un abito su misura ad un’ Italia molto difficile e problematica: un’ impresa disperata.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com