STORIA- Pagina 126

Quaglieni, Gremmo e la strage di Torino del 1864

STORIA TORINESE / Roberto Gremmo commenta sul giornale “La nuova Padania” il pezzo di Pier Franco Quaglieni sulla strage di Torino del 1864 pubblicato nei giorni scorsi su “il Torinese”. Vi proponiamo l’articolo di Gremmo e una replica di Quaglieni

La replica di Gremmo
Non è “Vistoso e banale piemontesismo” ricordare la strage cittadina del 1864. Non ha atteso due giorni il gran maestro del laicismo Torinese per lanciare i suoi strali contro il “vistoso e banale piemontesismo”, imputato di aver voluto ricordare la strage cittadina del 1864, un tragico evento simbolico che segna la fine del nostro vecchio Piemonte. Con fastidio e disprezzo, sul quotidiano “Il Torinese”, Franco Quaglieni critica duramente la commemorazione dei 62 morti innocenti da parte del Comune e lo accusa di non avere il senso della storia per essersi dimenticato di festeggiare il 20 settembre, giorno dell’invasione militare del pacifico e neutrale, Stato sovrano del Papa. A me pare invece più che doveroso l’omaggio alle vittime d’una violenza militarista e semmai andrebbe biasimato il colpevole disinteresse della Regione, ancorché a guida semi-sovranista.   Ognuno ha i suoi “miti fondanti”, caro Quaglieni. Quello della “terza Roma” e’ stato alla base dell’isteria massonica che ha portato ai 600mila poveri popolani morti del primo conflitto mondiale ed al Fascismo mentre quello nostro, da lei bollato come “revisionismo piemontardo”, e’ il nostalgismo per un Piemonte unito a val d’Aosta, Nizzardo e Savoia, unico orizzonte di Casa Savoia prima dell’avvento del cadetto e caduco ramo Carignano che sconvolse la “Patria Cita” con guerre sanguinose di conquista, intrighi, avventure militariste e cancellazione delle identità culturali dei vari Popoli della Penisola.Celebrare il 20 settembre? Certo, ma solo la battaglia del 1860 a Caiazzo dove i fedeli armati di Francesco II e del duca di Caserta misero in fuga i “picciotti” di Garibaldi. L’ultima vittoria dei soldati meridionali prima di essere deportati a migliaia nel campo di concentramento di Lombardore, primo lager dell’Europa moderna.Un altra vergogna che nessun senso mitologico della storia scritta dai vincitori può cancellare.  Roberto Gremmo
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La risposta di Quaglieni

Di Roberto Gremmo apprezzo la coerenza fin dai tempi in cui su “Repubblica” lo difesi dall’egemonia dei Lumbard che voleva cancellare il suo movimento , l’unico davvero autonomista.

E’ un uomo intero che va avanti solitario per la sua strada , dimostrando che la cultura è più importante del successo politico. E’ uno, tanto per capirci, con cui è bello discutere perché si vede che è in buona fede  Detto questo, nel suo articolo in cui mi onora della sua attenzione polemica, scrive cose imprecise o infondate. Non sono il  gran maestro del laicismo piemontese, perché sono un cattolico laico e liberale che ha riscoperto le ragioni della fede.

Neanche in  passato sono stato gran maestro di nulla ed ogni richiamo alla massoneria mi è estraneo. Io mi occupo come studioso e docente da una vita di Risorgimento e in quella veste ho scritto. Io non sottovaluto i fatti di Torino del 1864 che condanno, ma ritengo che fosse necessario il trasloco della capitale a Firenze, prima tappa verso Roma , come volevano Cavour, Mazzini, Garibaldi. Io credo nel Risorgimento come grande pagina di storia e di riscatto nazionale.

Ho criticato il Sindaco perché  non ha ritenuto di far nulla per il 150 esimo del XX settembre che reputo data importante per la storia italiana. Invito Gremmo ad una discussione amichevole e ravvicinata. Abbiamo idee  molto diverse, ma il confronto ravvicinato è sempre utile per scoprire dei pezzi di verità.

Pierfranco Quaglieni

 I Musei Reali festeggiano le Giornate Europee del Patrimonio Sabato sera ingresso a 1 Euro

Un ricco calendario di iniziative, laboratori e performance dal vivo

 

Sabato 26 e domenica 27 settembre i Musei Reali celebrano le Giornate Europee del Patrimonio con visite, incontri, laboratori e un’apertura serale straordinaria. “Imparare per la vita” è il tema proposto dal Consiglio d’Europa e rilanciato dal MiBACT per questa edizione della manifestazione internazionale, che ogni anno coinvolge in tutta Italia i luoghi della cultura e i musei statali: un richiamo ai benefici che derivano dall’esperienza culturale e dalla trasmissione della conoscenza nella società contemporanea.

 

Sabato 26 settembre

 

Il ruolo educativo dell’arte e l’alleanza tra scuola e museo sono i temi centrali dei due appuntamenti che i Musei Reali dedicano nella giornata di sabato ai progetti didattici condotti nella primavera 2020.

Dalle 10 alle 12, è previsto l’Incontro conclusivo del progetto “Quante storie in Galleria!”, con gli alunni della scuola primaria Rignon di Torino pronti a narrare le storie che ruotano attorno a due capolavori della Galleria Sabauda.

Dalle 15 alle 16, webinar online “Qui si fa arte! scopro, gioco, creo, imparo”, per raccontare il progetto che ha visto i Musei Reali collaborare con la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo e la casa editrice Pearson Italia nell’ambito del programma Riconnessioni, con il coinvolgimento dell’Istituto IC Pertini di Torino. Protagonisti i bambini e le nuove tecnologie, in un’esperienza che permette di imparare l’arte attraverso il digitale e giocare con le opere della Galleria Sabauda mettendo in campo creatività e ingegno, con un approccio innovativo e inclusivo. Partecipazione gratuita iscrivendosi al link: https://attendee.gotowebinar.com/register/8829839642752113424.

 

La giornata di sabato 26 settembre è anche l’occasione per visitare la Biblioteca Reale e scoprirne il prestigio. Dalle 14 alle 18 il pubblico, guidato da alcuni esperti, potrà ammirare gli affreschi della volta del Salone Monumentale. Un’opera di straordinaria bellezza progettata per il re Carlo Alberto dall’artista di corte Pelagio Palagi, dipinta a monocromo con immagini che celebrano i diversi campi del sapere e i grandi protagonisti delle scienze e delle arti. Ingresso gratuito su prenotazione obbligatoria con almeno 24 ore di anticipo all’indirizzo: mr-to.bibliotecareale@beniculturali.it, e compilando il modulo presente alla pagina: https://www.museireali.beniculturali.it/scheda-di-registrazione-anagrafica-biblioteca-reale/.

 

Sabato sera, dalle 19.30 alle 22.30, l’apertura straordinaria con ingresso a 1 Euro offre la possibilità di riscoprire le architetture, gli ambienti, le collezioni dei Musei Reali e passeggiare nel Giardino Ducale, recentemente rinnovato e impreziosito da una scenografica illuminazione serale.

 

Laboratori

 

Sabato 26 settembre alle ore 14.30, il laboratorio “Dietro lo scavo, dentro il Museo” invita a immedesimarsi nel ruolo dell’archeologo e a collaborare con i professionisti dei Musei Reali. I partecipanti ripercorreranno tutte le attività che precedono gli studi ricostruttivi e l’esposizione dei reperti, al termine dello scavo: il lavaggio, la suddivisione dei materiali e la documentazione. Costo: 5 Euro adulti, 2 Euro 18-25 anni, gratuito 9-18 anni. Partecipazione fino a esaurimento dei posti disponibili (massimo 10 persone) con prenotazione obbligatoria al numero +39.011.19560449 (dal lunedì al venerdì: ore 9.00-13.00) e via mail info.torino@coopculture.it. Consigliato abbigliamento sportivo e calzature chiuse. L’attività prevede contatto con l’acqua.

 

Attività nei Giardini Reali

 

Sabato 26 settembre

 

Alle ore 9.30, in una cornice del tutto eccezionale come quella dei Giardini Reali, sarà possibile praticare yoga con una lezione all’aria aperta, della durata di un’ora. Un’occasione unica per riscoprire sé stessi, riconnettendosi con la terra e l’ambiente circostante. L’attività si terrà ogni sabato di settembre al costo di 15 Euro. Per prenotazioni e informazioni, 011.19560449 o info.torino@coopculture.it. In caso di maltempo, l’attività si svolgerà al secondo piano di Palazzo Reale.

 

Domenica 27 settembre

 

Dalle 10 alle 13, i Musei Reali propongono la visita “Dai Giardini ai Musei: incontri con curatori ed esperti tra storia, arte e natura”. Un interessante percorso, un’insolita chiave di lettura, attraverso il quale scoprire la stretta relazione tra gli elementi naturali dei Giardini e le opere d’arte custodite all’interno delle sale museali. Attività gratuita.

 

Dalle 14.30 alle 17.30, le famiglie sono invitate a partecipare all’attività “Tessendo i colori del re”, ispirata ai tessuti preziosi che rivestono le pareti e i mobili negli appartamenti reali: un laboratorio all’aria aperta in cui sbizzarrirsi con la fantasia, dove adulti e bambini verranno guidati da una restauratrice nella realizzazione di piccolo arazzo. Attività gratuita adatta a bambini dai 6 anni di età. Partecipazione fino a esaurimento dei posti disponibili (massimo 12 persone) con prenotazione obbligatoria al numero +39.011.19560449 (dal lunedì al venerdì: ore 9.00-13.00) e via mail info.torino@coopculture.it.

Dalle ore 14 alle ore 19, in collaborazione con le associazioni culturali Speculum Historiae, TerraTaurina, Okelum e Le vie del tempo, i Musei Reali propongono l’attività “Dai druidi al Grand Tour. Esperienze per imparare a vivere”. Il pubblico è invitato a riscoprire il ruolo che la formazione ha avuto nel tempo. Un viaggio nel mondo dell’istruzione attraverso canti e storie della tradizione orale, un excursus tra le figure dell’apprendista e l’insegnante, il pedagogo, il maestro artigiano o il mastro d’arme.

 

Sia sabato 26 sia domenica 27 settembre, in orario di apertura ordinaria, valgono le consuete tariffe d’ingresso. In caso di maltempo, le attività previste in giardino si svolgeranno in spazi alternativi, all’interno dei Musei Reali.

 

Domenica 27 settembre, inoltre, dalle 16.30 alle 18.30, nella Corte d’Onore di Palazzo Reale si terrà il concerto benefico a favore del service LIONS “Bambini Nuovi Poveri”. L’esibizione, promossa dal Lions Club International Distretto 108-la1, con il patrocinio della Città di Torino, vede la partecipazione dell’Orchestra Giovanile di fiati InCrescenDo e della Banda musicale del Corpo di Polizia Municipale della Città di Torino. Prenotazione obbligatoria all’indirizzo: lionsbambininuovipoveri@gmail.com o telefonando al numero: 3923673237.

 

Visite speciali

 

Sabato 26 e domenica 27 settembre alle ore 15 l’itinerario “Benvenuto a Palazzo!” è visitabile con le guide di CoopCulture, alla scoperta delle sale di rappresentanza del primo piano di Palazzo Reale, con l’Armeria e la Galleria della Sindone, per scorgere il restauro “a vista” dell’altare della Cappella. Il percorso, della durata di circa un’ora, è visitabile in gruppi composti al massimo da 8 persone ciascuno, al costo di 7 euro oltre al biglietto di ingresso ridotto ai Musei Reali. Per una visita individuale, è possibile scaricare MRT, l’app ufficiale dei Musei Reali, comprendente l’audioguida completa con oltre 35 ascolti oppure acquistare al Museum Shop la nuova guida a stampa I Musei Reali di Torino pubblicata da Allemandi Editore e realizzata in collaborazione con CoopCulture.

 

Sabato 26 settembre il percorso prosegue nelle Cucine Reali al piano interrato di Palazzo Reale e nell’Appartamento della Regina Elena, al piano terreno, ogni ora dalle 10 alle 17. Le visite, della durata di un’ora, sono condotte dai volontari dell’Associazione “Amici di Palazzo Reale”. Il biglietto è acquistabile in cassa il giorno stesso al costo di 7 euro.

 

Le attività del Caffè Reale

 

All’interno della suggestiva Corte d’Onore di Palazzo Reale, è possibile rigenerarsi con una pausa al Caffè Reale Torino, ospitato in una cornice unica ed elegante, impreziosita da suppellettili in porcellana e argento provenienti dalle collezioni sabaude. Sabato 26 settembre, in occasione dell’apertura straordinaria serale, sarà possibile gustare un aperitivo o una cena accompagnati da un sottofondo musicale. Informazioni e prenotazioni al numero 335 8140537.

 

TOward2030. What are you doing?

 

Fino al 17 gennaio il pubblico potrà visitare l’esposizione dedicata al progetto TOward2030. What are you doing? Ideato da Lavazza e dalla Città di Torino per diffondere la cultura della sostenibilità attraverso il linguaggio della street art, il progetto ha previsto la realizzazione di 18 opere murali ispirate ai Sustainable Development Goals elaborati dall’ONU, 17 obiettivi di sviluppo sostenibile più il Goal Zero, pensato da Lavazza per divulgare gli obiettivi stessi. La mostra, curata da Roberto Mastroianni e Filippo Masino, presenta nello Spazio Confronti della Galleria Sabauda fotografie e filmati degli artisti al lavoro, mentre nel Boschetto dei Giardini Reali sono riproposti gli scatti delle 18 opere d’arte urbana presenti a Torino, oltre ai lavori di alcuni artisti dei collettivi Il Cerchio e le Gocce, Monkeys Evolution e Truly Design, realizzati durante il live painting inaugurale con il coordinamento di MurArte Torino.

 

Le iniziative TOward2030. What are you doing e Cinema a Palazzo sono inserite nel programma “Torino a Cielo Aperto” (torinoacieloaperto.it).

 

 

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MUSEI REALI TORINO
museireali.beniculturali.it

Il senso della storia

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni/ Andando a fare piacevolmente shopping  in centro, mi sono imbattuto in un gruppetto di persone attorno ad un assessore,  il gonfalone comunale e due bandiere piemontesi che ricordavano in piazza San Carlo i caduti dei moti di protesta contro il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, in vista di essere portata a Roma come avvenne 150 anni fa

C’era anche un Tenente dei Carabinieri che assai poco c’entrava con quella celebrazione che implicitamente ed anche esplicitamente coinvolgeva l’Arma benemerita in termini negativi. E‘ incredibile che Sindaco e Comune abbiano ignorato la data del 20 settembre e ricordino invece una data negativa e brutta della storia torinese, seguendo i luoghi comuni del più vistoso e banale piemontesismo ,incapace di guardare, andando oltre ai propri occhi, alla nuova Italia nata dal Risorgimento. Sono atteggiamenti che ricordano la virulenza antitirisorgimentale della Lega di Bossi.
Io a palazzo Carignano ho detto domenica scorsa, ricordando la Breccia di Porta Pia del XX settembre 1870, che noi viviamo nel mito del Risorgimento, opposto al mito e alla vulgata antirisorgimentale e antipatriottica di chi ha demonizzato la pagina più importante della nostra storia che segno’ il nostro riscatto nazionale. I pochi torinesi di piazza San Carlo dovrebbero leggersi qualche pagina di Croce, di Omodeo,  di Romeo per capire cosa fu il Risorgimento che Salvemini definì ciclopico. Ogni Nazione ha un suo mito e per noi il primo mito fondante, come diceva Luraghi, è il Risorgimento . Poi a debita distanza viene il mito resistenziale.
I facili revisionismi piemontardi e neo borbonici che si elidono a vicenda, riprendono cose non vere o enfatizzano alcuni errori che di fronte al grande disegno cavouriano, garibaldino e mazziniano di unire l’Italia sono davvero piccole cose.
E‘ strano o, al contrario, è  ovvio che Appendino non capisca il senso della storia, come diceva Omodeo.

Il Museo Pietro Micca alle Giornate europee del patrimonio

Sabato 26 e domenica 27 settembre anche il museo Pietro Micca partecipa alle Giornate Europee del Patrimonio, sul tema “Patrimonio e informazione. Imparare per la vita per richiamare i benefici che derivano dalla esperienza culturale e dalla trasmissione delle conoscenze tra le generazioni.

Il museo Pietro Micca e i suoi siti collegati del Pastiss e del Rivellino degli Invalidi invitano a condividere il loro patrimonio sotterraneo, storico, artistico e valoriale.

INGRESSO GRATUITO E A PRENOTAZIONE

  • museo Pietro Micca aperto in entrambe le giornate di sabato 26 e domenica 27 settembre nell’orario 10,30 – 12,30 e 14,30 – 16,30 (ultimo ingresso)

  • domenica 27 settembre orario:15-19

Area archeologica del Rivellino degli Invalidi di corso Galileo Ferrari 14 e Fortezza del Pastiss di via Papacino 1

Per informazioni e prenotazioni: 011 0116 7580 e info@museopietromicca.it

Sito: www.museopietromicca.it

“Torino non dimentica la prima strage di Stato del settembre 1864”

STORIA / Riceviamo e pubblichiamo un intervento di Roberto Gremmo

Il 21 e 22 settembre 1864 la nuova Italia unita e imperialista che aveva regalato alla Francia Nizza e Savoia, dopo aver invaso Stati sovrani e colonizzato le loro popolazioni, mostrava il suo volto più sanguinario massacrando a Torino decine di popolani inermi che stavano manifestando pacificamente contro lo spostamento della capitale a Firenze.

Quelle tragiche giornate di sangue torinesi non sono state dimenticate e sono una ferita ancora aperta. Segnano la dolorosa frattura fra un Popolo che aveva per secoli seguito con disciplina la Dinastia Sabauda, e i regnanti del ramo Carignano che indegnamente e spregiudicatamente aveva avuto la corona reale, dopo la morte dell’ultimo discendente diretto di Emanuele Filiberto che proprio Torino aveva voluto come capitale. Le ragioni della protesta popolare del 1864 sono note. Traevano motivo dal sicuro impoverimento economico della città che veniva “scippata” delle sue più importanti funzioni, ma prendevano forza dal rancore giustificato dei piemontesi che si sentivano, a giusta ragione, traditi, abbandonati e impoveriti. Di fronte al malcontento, una classe politica straniera almeno nella mentalità, capeggiata dal toscano Peruzzi e sostenuta dai politicanti nostrani già pronti a trasformarsi in “italianissimi”, aveva fatto brutalmente ricorso alla maniera forte, ordinando a poliziotti, carabinieri e soldati di sparare ad altezza d’uomo sulla folla inerme. Restarono sul selciato almeno una sessantina di morti, e nel fuggi fuggi generale diversi poveracci rimasero più o meno gravemente feriti. Senza colpa alcuna. Con loro moriva il nostro Piemonte. Ogni anno Torino commemora la strage del 1864.

 

 

Turin arcòrda ël prim ravagi dë Stat dël 1864

El 21 e 22 dë stèmber dël 1864 la neuva Italia unìa e amperialista ch’a l’avìa ofrì a la Fransa Nissa e Savàja dòp avèj debordà at djë Stat andipendent e s-ciavisà soa gent, a fasìa vëdde soa fàci pì sagnosa casand vàire desen-e ‘d përson-e ch’a fasìo ‘na tranquila dimostrassion contra ‘l tramudament dla capital a Firense. Cole tràgiche giornà ‘d sangh turinèis a son nen stàite dësmentià e a son ‘na blëssura ancora duverta. A marco l’angossosa rompura anta ‘n Pòpol ch’a l’avìa për sècoj andà da press sensa banfé ij Sovran Sabàud e ‘dcò coj dij Carignan che nen meritèivolentement  e sfaciatament a l’avèa pià la coron-a real, dòp dla mort dl’ùltim dla sëppa ‘d Manuel Filibert che pròpi Turin a l’avìa vorsù për capital. As conosso le rason dla reclam dla gent. A fongavo andrinta a la sicura tribulassion dla vita sitadin-a ch’ai gavavo soa valevòila mansion ma a piavo fòrsa da la pì che scusabil rancugna dij Piemontèis ch’as sentìo, nen a tòrt, tradì, bandonà e ampovrì. Dëdnans a la dëscontentëssa, ‘na cracia ‘d traficant strangé almanch ant la manèra ‘d pensé, con cap-testa ‘l toscan Peruzzi, e tenùa su da politicant nostran bé-le che pront a trasformesse an “italianissimi”, a l’avìa brutalment butà man a la manèra fòrta, dand man lìbera a plissiòt, carabigné e bajèt ‘d fé feu contra la maraja sens’armi. A l’era finì ch’a restavo an sël pavé almanch ‘na sessanten-a ‘d mòrt e ant lë scapa scapa general vàire povrass a l’ero restà blëssà.
Sensa gnun-e colpe. Con loraotri a morija nòstr vej Piemont.

Roberto Gremmo, dalla rivista Etnie

 

La strage di Torino del 1864

PAGINE DI STORIA TORINESE / Le cose andarono più o meno così. Correva l’anno 1864, i Savoia si erano annessi da poco tempo l’Italia e Torino, capitale del Regno, contava duecentomila abitanti

Nel mese di gennaio il Consiglio comunale approvava il progetto di Piazza Arbarello e la sistemazione di Piazza Statuto. Ai primi di febbraio una nevicata di sessanta centimetri bloccava i treni provenienti da Genova e Pinerolo. Il 13 aprile aveva luogo l’ultima esecuzione capitale, giustiziato il ventitreenne Savio Carlo di Filippo nato a Incisa Balbo. Il 3 giugno gli operai del Regio Arsenale di Borgo Dora proclamavano uno sciopero che cessò dopo che una delegazione venne ricevuta dal Ministro della Guerra. Il 18 settembre i giornali pubblicarono una notizia bomba. Con la firma della Convenzione di Settembre, avvenuta tre giorni prima a Fontainebleau, le truppe francesi si sarebbero ritirate da Roma e l’Italia s’impegnava a non invadere lo Stato Pontificio. Fin qui nulla di che. Fidandosi poco degli italiani, però, Napoleone III aveva ottenuto come garanzia il trasferimento della capitale da Torino a Firenze entro sei mesi. Il protocollo aggiuntivo doveva restare segreto ancora per un po’, ma l’informazione divenne presto di pubblico dominio. Il 20 settembre la filogovernativa Gazzetta di Torino pubblicò un articolo, suggerito personalmente da Vittorio Emanuele II, a favore al trasferimento e che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto placare il previsto dissenso. Lo spostamento della capitale non rappresentava soltanto una grave perdita di prestigio per la città: la borghesia imprenditoriale stava investendo ingenti capitali nell’edilizia, i ministeriali non sarebbero stati propensi a un cambiamento di sede, la nobiltà subalpina avrebbe dovuto rinunciare ai privilegi legati alla presenza della corte sabauda. Ma dopo l’Unità i tempi avevano rapidamente mutato corso, erano entrate in gioco consorterie affaristiche e politiche che miravano a creare una nuova classe dirigente lontano da Torino.

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La pubblicazione dell’articolo rappresentò la scintilla che scatenò i fatti drammatici dei giorni successivi. Il 21 e il 22 settembre i numerosi cittadini torinesi scesi in piazza (con sabauda compostezza) contro lo spostamento della capitale furono attaccati a diverse riprese dalla forza pubblica, che non esitò a far fuoco. Rimasero sul terreno 52 morti e 187 feriti. L’inaudita carneficina destò scalpore in Italia e all’estero. La successiva inchiesta parlamentare appurò che l’ordine era partito da Silvio Spaventa, segretario generale del Ministero dell’Interno, nonché braccio destro del presidente del Consiglio Minghetti, il quale diede le dimissioni. La repressione era stata resa ancora più crudele dagli esecutori materiali: soldati, agenti di polizia e allievi carabinieri, sobillati da provocatori prezzolati, avevano tirato alla sans-façon sulla folla disarmata. Le autorità di Pubblica Sicurezza, il questore Chiapussi per primo, furono destituite. Al termine dell’inchiesta, tuttavia, il Parlamento decise di non attribuire ad alcuno la responsabilità di quelle tragiche giornate: i mandanti rimasero perciò impuniti. Un mese più tardi, il 30 ottobre, Massimo D’Azeglio scrisse su L’Opinione un articolo che si concludeva così: “Io credo vi sia molto da dire sul trattato ma che, date le circostanze presenti, visto che è stato acclamato dalla Nazione, visto che noi torinesi ne veniamo particolarmente a soffrire, visto che in Italia la questione capitale non è quella della capitale ma quella della concordia, opino che noi per primi dobbiamo rassegnarci ad accettare il trattato. Soltanto che non vorrei sentire parlare di compensi. Al sacrificio mi sento disposto, a presentare il conto no”. L’orgoglio tutto piemontese espresso da tali parole non celava – anzi, paradossalmente sottolineava – che la Ragion di Stato doveva prevalere su ogni altra questione. Il 16 novembre il Senato approvò la Convenzione di Settembre con 134 voti, tra cui quello dello stesso D’Azeglio, contro 47 (e due astenuti). Tre giorni dopo, stessa schiacciante maggioranza alla Camera dei Deputati: 305 voti a favore, 68 contrari e altri due astenuti. Il 15 dicembre la Gazzetta Ufficiale pubblicò la legge che trasferiva la capitale da Torino a Firenze. Il primo gennaio 1865, in occasione del Capodanno, Vittorio Emanuele II si recò come consuetudine allo spettacolo offerto dal Teatro Regio e qui ricevette un’accoglienza a dir poco gelida. La faccenda si ripeté il 30 successivo, quando né il sindaco né il Consiglio comunale parteciparono a un ballo di corte. La situazione, già tesa di per sé, fu aggravata dal comportamento nuovamente violento che le guardie inviate dalla questura tennero contro una folla di manifestanti scesa in Piazza Castello per commemorare le luttuose giornate del settembre precedente.

 

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Mostrando regale sdegno per (a suo dire) tanta ingratitudine, Vittorio Emanuele lasciò Torino per la tenuta di San Rossore e, infine, raggiunse Firenze. Gli avvenimenti che seguirono rasentano il ridicolo, ma raccontano bene l’ambiguità in cui la politica italiana si barcamena da sempre. Informato del risentimento del re, il sindaco di Torino Emanuele Luserna di Rorà non trovò di meglio che partire di gran carriera alla volta di Firenze, latore di un documento in cui il consiglio comunale si profondeva in mille scuse per la dimostrazione ostile del 30 gennaio. A svolgere opera di mediazione tra le parti fu incaricato il ministro Lanza, peraltro organizzatore del gran ballo che aveva scatenato gli incidenti tra forze dell’ordine e manifestanti. In tempi strettissimi fu emanata un’amnistia generale riguardante anche i fatti del settembre precedente, a condonare pilatescamente tanto i militari responsabili delle violenze quanto i civili rimasti coinvolti. Sistemata alla spiccia la faccenda e archiviato il malumore, Vittorio Emanuele II fu nuovamente a Torino il 28 febbraio per partecipare al corso carnevalesco. È in quest’occasione che s’inserisce il noto episodio di Gianduja il quale, in maniche di camicia, si avvicinò alla carrozza reale che transitava in Piazza San Carlo esclamando: << Maestà, l’hai già daje la camisa, per chiel j daria anche la vita! >>. Suppongo che l’episodio sia stato maneggiato per benino dai giornali governativi, e infatti venne unanimemente considerato come suggello dell’avvenuta riconciliazione tra popolo e casa regnante. Il 26 aprile 1865 il trasferimento della capitale diventò ufficiale ed a questo punto nessuno ebbe più da ridire: l’accordo diplomatico con i Francesi era salvo e la cittadinanza aveva ingoiato il rospo tutto intero. Il 7 maggio, all’Hotel Trombetta, si tenne un gran banchetto in onore di cinquantanove deputati che davano l’addio alla vita parlamentare subalpina. Come sempre capita in Italia, tutto si conclude a tarallucci e vino. E il torinese, quando viene sottoposto a un sopruso, non capisce (o finge) ma infine si rassegna e si adegua educatamente allo stato delle cose. Il 12 settembre l’opinione pubblica fu scossa dal furto sacrilego di una lampada votiva in argento avvenuto nella cappella della Sindone. Per giorni e giorni in città non si parlò d’altro. Poi, come sempre capita, nuovi accadimenti si susseguirono: la morte di Massimo D’Azeglio, la consacrazione della chiesa di San Pietro e Paolo alla presenza della futura regina Margherita, un incendio nei magazzini di Porta Nuova… E anche il furto finì per essere dimenticato.

Paolo Maria Iraldi

 

 

“Cara sindaca, perché non ricordare il 150° della Breccia di Porta Pia?”

LETTERA APERTA  di Pier Franco Quaglieni / Gentile Sindaco, Ho letto che anche quest’anno il Comune ricorderà in piazza San Carlo le vittime in seguito alla sommossa contro il trasferimento della capitale da Torino a Firenze nel 1864.

Si tratta certamente di una iniziativa molto lodevole, ma quest’anno ricorrono i 150 anni  della Breccia di Porta Pia  del 20 settembre 1870 e di Roma capitale. Non mi risulta che a Torino il Comune abbia promosso iniziative in proposito. Al Museo del Risorgimento si terrà un concerto per iniziativa del Museo e del Centro Pannunzio che avrò l’onore di aprire con un ricordo storico di una tappa fondamentale del nostro Risorgimento.
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Sarebbe stato importante che Torino, prima capitale d’ Italia, ricordasse una data che appartiene alla nostra storia nazionale e che non fu così divisiva come quella dei moti del 1864. Roma capitale d’ Italia era voluta da Cavour che solennemente a Torino nel primo Parlamento italiano la  proclamò capitale nel 1861, era voluta da Mazzini che diede vita alla straordinaria esperienza democratica della Repubblica romana ,era voluta da Garibaldi che con tanti volontari tentò, manu militari, di arrivarvi per due volte e venne fermato in Aspromonte e a Mentana. Vinse la linea moderata e diplomatica degli eredi di Cavour, Minghetti e  Visconti Venosta che portò a Roma dopo Firenze capitale, approfittando della caduta di Napoleone III dopo Sedan.
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Fu la via più lunga, ma l’unica percorribile perché l’Italia neonata era fragilissima e un’avventata occupazione di Roma avrebbe potuto determinare l’intervento austriaco oltre che quello francese e mettere in crisi il nuovo Stato aggredito all’interno dal brigantaggio meridionale. Il XX settembre determinò anche l’apertura della Questione Romana da parte della Chiesa cattolica che si ritenne prigioniera e  della stragrande maggioranza dei cattolici italiani. Non tutti perché il cattolico liberale Alessandro Manzoni fu favorevole a Roma capitale del nuovo Regno, dimostrando anche in questa occasione una grande lungimiranza. Si aprì un caso di coscienza per i cattolici che come cittadini avrebbero dovuto partecipare alla vita politica e come credenti non potevano essere presenti sul terreno politico in seguito al Non  exspedit del Vaticano. La Legge delle Guarentigie nel 1871 cercò di garantire il “libera Chiesa in libero Stato“ di Cavour e la Chiesa in effetti fu sempre garantita nella sua indipendenza. Un papa illuminato come Paolo  VI nel 1970 riconobbe che la Chiesa venne liberata dal peso del potere temporale, consentendole l’esercizio pieno della sua funzione universale. Il presidente Saragat  ricordò anche lui la data del XX settembre.
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A Torino il Sindaco Giovanni Porcellana non volle aderire ad un mio invito a ricordare il centenario della data che fu un punto di arrivo importante del Risorgimento nazionale. Era un cattolico un po’ integralista e soprattutto illiberale. Anni dopo ci chiarimmo amichevolmente . Vedo che anche Lei, 50 anni dopo, ne segue inconsapevolmente l’esempio. Essere laici resta un problema difficile da rivolvere e soprattutto resta ancora difficile avere il senso della storia, come diceva Adolfo Omodeo, maestro di studi risorgimentali. Oggi a Torino dovrebbe risuonare la grande lezione storica di Chabod, di Maturi,  di Garosci, di Galante Garrone, di Nada, di Levra che hanno contribuito a scrivere la storia risorgimentale. Ma forse il Risorgimento è considerato dai più una cosa vecchia, mentre non lo è affatto. Noi torinesi dobbiamo sentire l’orgoglio di avere nella straordinaria cornice storica di Palazzo Carignano il Museo Nazionale del Risorgimento, il più importante d’ Italia in assoluto. Un cordiale saluto.
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Alla Casa della Resistenza di Verbania il libro su “Genni” Wiegmann

Domenica 20 settembre, alle 17,30, verrà presentato nella sede della Casa della Resistenza di Verbania Fondotoce ( in via Turati,9) il volume “Genni-Jenny Wiegmann Mucchi”,pubblicato da Unicopli nella collana Novecentodonne. Dopo i saluti istituzionali, insieme all’autrice Lisa Steiner interverrà il critico d’arte Giorgio Seveso. L’iniziativa è promossa congiuntamente dalla Casa della Resistenza con il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte.

Jenni Wiegmann,scultrice tedesca naturalizzata italiana nata a Berlino nel 1895 studiò tra il 1917 e il 1923 presso l’istituto berlinese Levin-Funke in quegli anni di grande fermento. Nel 1918 prese parte,finita la Prima guerra mondiale, ai moti rivoluzionari di Monaco che portarono alla Repubblica di Weimar e due anni dopo sposò Berthold Müller-Oerlinghausen, uno scultore suo compagno di studi, da cui divorzierà nel 1931. Verso la fine degli anni venti partecipò ad una mostra a New Yorkprima tappa importante della sua carriera artistica. Il matrimonio con Gabriele Mucchi, architetto e pittore nato a Torino, avvenne nel 1933. Conosciutisi nel 1925  svilupparono un intenso rapporto intellettuale e sentimentale che li portò a condividere molte esperienze sia artistiche che politiche, in Italia e a Parigi. Nel 1933 con il marito espose alla V Triennale di Milano, avvicinandosi agli ambienti di “Corrente”, il movimento artistico vicino alla omonima rivista fondata da Ernesto Treccani.  Nel 1937 venne premiata al Salone Mondiale di Parigi con una medaglia d’oro. Gli anni della guerra la videro impegnata nella resistenza come staffetta e attiva nella difesa degli ebrei mentre il marito, salito in montagna, si unì ai partigiani garibaldini in Val d’Ossola. Jenny Wiegman, conosciuta negli ambienti italiani semplicemente come “Genni”, collaborò in vita  anche con molti  architetti come Piero Bottoni, lasciando tracce del sodalizio artistico  in numerosi edifici.

Il libro affronta la vita affascinante di questa donna dalla cultura mitteleuropea, apparentemente fragile e delicata ma con una volontà ferrea e convinzioni maturate con scelte autonome e innovative sia sul piano politico-sociale che di lavoro come scultrice e moglie di un pittore come Gabriele Mucchi. Una donna che, come racconta Lisa Steiner “si è sempre battuta contro quel perbenismo becero e conformista che ha prodotto e produce ancora razzismo e odio nei confronti di chi vuole innovare o ragionare senza uniformarsi facendo solo il passo dell’oca”.

Nell’occasione della presentazione sarà esposta l’opera di Genni Wiegmann Mucchi “Partigiano impiccato”, gentilmente concessa dal Museo del Paesaggio di Verbania che sarà rappresentato dall’aiuto conservatore del museo, Stefano Martinella.

I Principi di Piemonte

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Oggi ricorrerebbe il compleanno che per un reale si dice genetliaco, di Umberto di Savoia, Principe di Piemonte e futuro Re d’Italia con il nome di Umberto II. Umberto  regnò poco tempo, ma seppe anteporre le ragioni dell’ Italia agli interessi dinastici, partendo nel giugno del 1946 per l’esilio in Portogallo, per evitare una probabile guerra civile che avrebbe ulteriormente insanguinato il Paese appena uscito da una guerra che era diventata anche guerra civile al Nord.

Nel lungo esilio affrontato con grande dignità e rassegnazione cristiana, il Re non interruppe mai il suo legame con milioni di italiani che avevano votato per lui e che lo ritenevano il loro Re. Ma anche tanti giovani si entusiasmarono per la causa del Re che seppe praticare il suo motto: “ L’Italia innanzi tutto“. Mori’ in terra straniera perché gli fu negato di morire in Italia ed oggi riposa ad Altacomba, l’abbazia benedettina tomba di parte dei suoi avi, restaurata da Carlo Felice dopo le devastazioni della Rivoluzione francese.
Fu un Re esemplare ,tanto che molti dissero che sarebbe stato un ottimo presidente della Repubblica. Ma Umberto che non era uomo di parte perché educato ad essere il Re di tutti gli Italiani, era qualcosa di più perché discendeva dalla più antica casata europea con una nobiltà che trovava le sue radici nel Medio Evo con  il capostipite Umberto Biancamano. Per molti italiani il Re rappresento’ la Patria e la sua unità acquisita per merito dei Savoia durante il Risorgimento.
Sono stato nei giorni scorsi ospite dell’ Hotel Principe di Piemonte di Viareggio costruito negli anni Venti quando Viareggio incominciava ad essere l’attrattiva prediletta di tanti che fecero della città la perla della Versilia. Non ci sono segni sabaudi di sorta, neppure uno stemma. Vorrei proporre alla direzione di porre in evidenza un ritratto del giovane Principe di Piemonte Umberto. Ricordare anche ai tanti stranieri l’origine di quel nome mai richiamato neppure  nel sito dell’ Hotel sarebbe un modo bello per ricordare la storia d’Italia e del bellissimo albergo viareggino.
Umberto II non è un nome divisivo, se non per i faziosi che fraintendono la storia e vogliono che le colpe dei padri ricadano in modo barbaro  anche sui figli. E anche l’ hotel torinese “Principi di Piemonte“ potrebbe riandare alla sua storia, esponendo i ritratti degli ultimi Sovrani d’ Italia che furono sposi felici proprio a Torino.
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Giancarlo Pajetta, il “ragazzo rosso” 

Trent’anni fa, il 13 settembre 1990, si spegneva nella sua casa romana  Giancarlo Pajetta, il “ragazzo rosso”, definizione che offrì lo spunto per il titolo della sua autobiografia.

 

Irriducibile antifascista, partigiano e vicecomandante delle Brigate d’assalto Garibaldi, parlamentare della Repubblica fin dalla Costituente, dirigente di primo piano del Partito Comunista Italiano, Pajetta è stato uno dei protagonisti del ‘900. La sua salma riposa in Val d’Ossola, nel piccolo cimitero di Megolo , frazione di Pieve Vergonte, nella  stessa tomba che ospita l’intera famiglia Pajetta, dai fratelli Gaspare (morto giovanissimo in battaglia proprio a Megolo, durante la Resistenza, nel febbraio del ‘44) e Giuliano, a mamma Elvira e papà Carlo.

Giancarlo Pajetta era nato a Torino il 24 giugno del 1911. Figlio di Carlo, avvocato, e di Elvira Berrini, maestra elementare, iniziò giovanissimo la sua attività politica iscrivendosi nel 1925, a quattordici anni, alla federazione giovanile comunista. Una scelta di campo che gli valse nel febbraio del 1927, mentre frequentava il liceo-ginnasio Massimo D’Azeglio a Torino, l’espulsione da “tutte le scuole del Regno” per tre anni per “propaganda antifascista”, secondo la locuzione dl tempo. Come non bastasse, Gian Carlo Pajetta venne arrestato e rinchiuso, quando non aveva ancora 17 anni, nella sezione minorile delle carceri giudiziarie di Torino. Il 25 settembre del  1928 il Tribunale Speciale lo condannò a due anni di reclusione che scontò nelle carceri di Torino, Roma e Forlì. Nel 1931 espatriò in Francia dove il “ragazzo rosso” assunse lo pseudonimo di “Nullo”, diventando segretario della Federazione giovanile comunista, direttore di Avanguardia e rappresentante italiano nell’organizzazione comunista internazionale. In quel periodo Pajetta compì numerose missioni clandestine in Italia fino a quando, il 17 febbraio del 1933, venne arrestato a Reggio Emilia. Il Tribunale Speciale fascista lo condannò a 21 anni di reclusione. Rimase in carcere dieci anni e sei mesi tra Civitavecchia e Sulmona, fino alla liberazione che avvenne il 23 agosto del 1943, un mese dopo la caduta del fascismo. Poi venne l’8 settembre e la guerra partigiana, durante la quale perse la vita a diciotto anni il fratello Gaspare, combattendo a fianco del capitano Filippo Maria Beltrami e degli altri resistenti sulle balze del Cortavolo, sopra l’abitato di Megolo.

 

L’altro fratello, Giuliano, anch’esso dirigente comunista fu deportato nel campo di concentramento di Mauthausen e tre suoi cugini persero la vita per mano dei nazisti e dei fascisti. “Nullo” partecipò da protagonista alla lotta di Liberazione come Capo di Stato Maggiore ( anche se, di fatto, fu vice comandante generale) delle Brigate Garibaldi e membro del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà. Fu in questa veste che, tra il novembre e il dicembre del 1944, Pajetta si trovò a Roma, come membro del CLNAI, per trattare con gli Alleati e con il governo Bonomi l’accordo politico-militare che portò al riconoscimento delle formazioni partigiane come formazioni regolari e all’attribuzione delle funzioni di governo al Comitato di Liberazione dell’Alta Italia. Dopo la liberazione Giancarlo Pajetta diventò direttore dell’edizione milanese de l’Unità e membro della Direzione del Pci. Nel 1945 venne eletto alla Consulta (non era potuto diventare senatore perché troppo giovane) e successivamente nel 1946 all’Assemblea costituente. Nel 1948 diventò deputato della Repubblica, ruolo nel quale venne riconfermato ben dodici volte). Negli ultimi anni della sua vita, a partire dal 1984, venne eletto al parlamento europeo. La sua biografia si intreccia con la storia repubblicana del dopoguerra e con le vicende del movimento comunista. Una storia lunga decenni tra i fronti popolari, i legami e le divergenze tra le peculiarità nazionali dell’Europa occidentale e l’Unione Sovietica, i grandi eventi storici e le guerre, la liberazione dal fascismo, il Cominform, la guerra fredda, il promemoria di Yalta e la destalinizzazione, la primavera di Praga stroncata dai carri armati sovietici, la crescente attenzione verso un nuovo internazionalismo e i paesi emergenti nel sud e nell’est del mondo,  il destino strategico dell’area mediterranea e la ricerca di una visione nuova attraverso l’eurocomunismo. Un impegno appassionato sul quale occorre ancora oggi riflettere, indagare. In un libro-intervista a cura di Ottavio Cecchi, intitolata “La lunga marcia dell’internazionalismo” e pubblicata dagli Editori Riuniti, Pajetta concentrò il suo pensiero su questi temi di grande attualità sostenendo come dovessero “fondarsi sulla distensione, sulla pace, sulla collaborazione internazionale, su rapporti non imperialisti tra paesi sviluppati e paesi emergenti,sullo scambio di esperienze”. Scriveva( eravamo nel marzo del 1978, anno cruciale) “Circolazione delle idee e degli uomini deve voler significare anche circolazione del socialismo e fiducia nelle forze nazionali e di classe che in ogni paese tendono al rinnovamento sociale”.

 

Un pensiero che, in un epoca di appannamento e confusione valoriale, di scarse capacità di elaborazione di un pensiero di sinistra e progressista, di profonda debolezza delle classi dirigenti della politica, rivela all’opposto la preparazione, la passione e la determinata volontà dei protagonisti di una fase importante della storia italiana. Il giorno prima di morire a causa di un arresto cardiaco Giancarlo Pajetta rilasciò al Messaggero un’intervista nella quale, riferendosi alla “svolta della Bolognina” che avrebbe portato allo scioglimento del PCI, confessò di vivere i giorni più brutti della sua vita. Un sentimento comprensibile per chi aveva vissuto e partecipato a quella storia collettiva che segnò la vita di intere generazioni. Pajetta sapeva cogliere le novità, il bisogno di cambiare, l’evoluzione della storia ma temeva che un grande patrimonio di idee e valori potesse in qualche modo disperdersi.  Era toccato a lui, con la sua voce tonante, pronunciare l’orazione ai funerali di Enrico Berlinguer, dopo aver accompagnato Giorgio Almirante, avversario di mille battaglie, a render visita alla salma del leader comunista nella camera ardente alle Botteghe Oscure. Anche da quell’episodio si coglie la cifra democratica e la levatura di un grande personalità. Miriam Mafai, giornalista e scrittrice scomparsa nel 2012, visse per trent’anni al suo  fianco e così raccontò il “ragazzo rosso”: “È morto a casa mia. Ma ho vissuto con lui molti anni, se si intende per vivere insieme stare insieme, viaggiare insieme, studiare insieme. Stiamo stati anche molto felici ma non abbiamo mai vissuto da coniugi: non eravamo interessati né io, che avevo già più di 30 anni né lui, che ne aveva oltre 50, a scambiarci l’esistenza dalla mattina alla sera. Giancarlo si trasferì a casa mia solo nell’ultimo periodo”. Pajetta morì senza assistere alla fine, ormai decretata, del Pci. Lo raccontò, ancora, Miriam Mafai: “Lui muore quando sta morendo il partito comunista. Quindi ha già visto il crollo del muro di Berlino ma non ha visto, per sua fortuna, la bandiera rossa calare dal pennone del Cremlino.Ma all’epoca il Pci sta cambiando nome e lui sa che finirà. Certo Giancarlo è morto perché non era più un giovanotto ma credo che non abbia voluto vedere il seguito”. La drammaticità della sua personalità stava nell’estrema fedeltà al socialismo e al Pci, vissuta senza nasconderne e denunciandone limiti e difetti. Era consapevole di quella che Berlinguer chiamò “l’esaurimento della spinta propulsiva” dell’URSS pur riponendo molte speranze in Gorbaciov. Pajetta, tra i leader più amati e popolari nel vecchio partito comunista era un grandissimo oratore e i suoi comizi si trasformavano ogni volta in un avvenimento perché riusciva a stabilire un rapporto straordinario con il sentimento popolare di quelle piazze piene. Quando chiesero alla Mafai che uomo fosse, questa fu la sua risposta:“Era una personalità ricca di sfumature, per alcuni versi insopportabile.Impaziente, molto colto, un divoratore di libri di ogni genere. E poi viveva di niente, a Roma in un appartamento orrendo. Non aveva mobili e io gli dicevo che aveva nostalgia del carcere. Parlando della mia casa diceva: Vedi? Qui in Unione Sovietica ci vivrebbero tre famiglie! Io gli rispondevo: infatti, io non voglio andare a vivere in Unione Sovietica. Giancarlo immaginava una società che non esisteva più e il suo sogno, da vecchio, era una camera in affitto in una casa di operai a Torino. E, diversamente da tutti i deputati, ai suoi figli ha lasciato praticamente niente”.

Marco Travaglini