STORIA- Pagina 113

Mazzoli, il trionfo del ritratto

Con l’asservimento alle mode, anche nel campo dell’arte, accade spesso che il figurativo sia penalizzato facendo sì che artisti di livello che durante il 900 continuarono questo genere con capacità tecnica a sostegno dell’idea, siano stati dimenticati.

Purtroppo resiste il malinteso che essi siano accademici e superati, basti pensare a Gino Mazzoli straordinario pittore osannato in vita, uscito dall’Accademia Albertina con medaglia d’oro di cui non si parla quasi più.

La famiglia attenta alla cultura, il padre intagliatore di marmi, la madre discendente dai marchesi Pallavicini di Ghemme, lo sostenne nell’intraprendere gli studi accademici dove ebbe come maestro Giacomo Grosso che lo avviò alla ritrattistica.

Gli fu di stimolo anche l’ambiente casalese in cui gravitavano artisti di spessore quali Leonardo Bistolfi, Angelo Morbelli, il fotografo Francesco Negri e lo scultore Antonio Morera che per primo intuì in Gino, ancora fanciullo, il grande talento.

La predilezione per il ritratto, senza dimenticare la natura morta e il paesaggio, lo resero uno dei più appezzati pittori del tempo, richiesto dai personaggi più rappresentativi della politica, del clero, dell’aristocrazia.

Durante i soggiorni a Torino, Milano, in Francia,in Spagna, ritrasse, fra i tanti, Mussolini, Ciano, re Vittorio Emanuele III e la regina Elena, il generalissimo Franco e papa Giovanni XXIII.

Ritratti realistici e al tempo stesso interpretativi,non segno di adulazione e compromesso pittorico bensì un diario d’incontri che documentano la vita del tempo.

Come osservò acutamente Jean Servato  “ … Mazzoli non divenne pittore del regime ma fu dentro il regime… se così non fosse con la sua pittura di timbro ancora ottocentesco farebbe marciare indietro l’orologio della storia a cui il duce teneva spinto da slanci vitalistici e Bergsoniani…”

In questo modo Mazzoli ha colto la sua personale vittoria ossia il trionfo del ritratto avendo occasione di rappresentare la bellezza del linguaggio del corpo attraverso atteggiamenti, gesti e sguardi ma anche l’interiorità di chi gli stava davanti.

Bellissimi i nudi femminili, in particolare della moglie Tilde, che denotano una sensualità e preziosità affine a D’Annunzio che Gino, diciannovenne, aveva ammirato quando il vate giunse a Casale per presenziare al funerale di Natale Palli, suo pilota nel volo su Vienna, commemorandolo con coinvolgente pathos.

Tanti gli autoritratti che ne hanno accompagnato i cambiamenti fisici ma che hanno mantenuto l’aspetto fiero di chi è orgoglioso di essere pittore.

Solo dopo la morte della moglie gli autoritratti saranno tristi, quasi senza desiderio di vita e si recherà nel ricovero di Casale per ritrarre i vecchi malinconici che rispecchiano il proprio sentire.

 

Giuliana Romano Bussola

 

Pasqua tragica a Pollentia, Alarico contro Stilicone

Svettano le torri e le alte mura di Pollentia. Un anfiteatro da quasi 20.000 spettatori, un teatro per 7000 persone, grandiosi templi innalzati alle divinità romane ci ricordano che Pollentia (oggi la Pollenzo di Bra) era una delle più importanti città romane dell’Italia del nord. Una cittadella militare ben fortificata, quasi inespugnabile, ma nei giorni di Pasqua del 402 d.C. la paura fu grande perché si stavano avvicinando i Visigoti di Alarico con un grande esercito pronto a un nuovo massacro.

Il fetore delle orde barbare infestava la piana del Tanaro, la gente, trincerata dentro le mura, si stava preparando a festeggiare il giorno di Pasqua ma il terrore del nemico alle porte spezzò di colpo la serenità delle famiglie di Pollentia. Chi ricorda più la battaglia di Pollenzo, oggi certamente più nota per la prestigiosa Università di Scienze Gastronomiche, primo ateneo al mondo dedicato alla cultura del cibo, che per la storia antica. Eppure in questo territorio, 1600 anni fa, si svolse una celebre battaglia tra i visigoti di Alarico e i romani del generale Stilicone, di origine vandala. Fu una Pasqua tragica, quella del 6 aprile 402, nella pianura compresa tra il Tanaro e le alture di Santa Vittoria. Pollenzo è circondata dalle tende dei barbari che aspettano il momento giusto per attaccare la città che trascorre in pace e serenità un giorno di festa e di preghiera. Alarico arriva ai confini orientali con il suo sterminato esercito di Visigoti. Avanza verso la parte occidentale della penisola terrorizzando la popolazione e seminando lungo il percorso stragi e distruzioni.
Invasa la pianura padana attacca Asti ma non riesce ad espugnarla, prosegue la marcia e pianta le tende nella zona di Pollentia. Stilicone lo insegue con le sue legioni e si avvicina al campo dei Visigoti. I Goti, cristiani ariani, di Alarico sanno bene che anche per i romani la Pasqua è un giorno sacro e quindi nessun avrebbe attaccato il nemico. Stilicone era a poca distanza dal capo barbaro e lo scontro sarebbe stato inevitabile prima o poi ma per il momento era difficile pensare ad una battaglia proprio il 6 aprile. Invece così non fu, il re dei goti si sbagliava. La cavalleria romana di Saulo e di Stilicone, schierata sulle alture di Santa Vittoria, si lanciò dalle colline sorprendendo i goti che stavano festeggiando la Pasqua. Pur in preda al panico e quasi sbaragliati i barbari riuscirono in qualche modo a reagire e a mettere in seria difficoltà le legioni romane. Alarico parve perfino sul punto di vincere ma l’abilità di Stilicone e il coraggio dei suoi soldati ebbero la meglio sui valorosi barbari. Pollentia è salva. Dopo la disfatta Alarico riuscì a mettere in salvo se stesso e la maggior parte della cavalleria ma tra i goti fu una strage: migliaia furono i morti nella piana di Pollenzo e centinaia i prigionieri tra cui la moglie e i figli del re dei Goti. Alarico fu costretto a trovare un accordo con Stilicone ma non sparì del tutto dalla penisola, anzi tornò per saccheggiare e devastare Roma nel celebre sacco del 410. Nessuno lo fermò, neppure Stilicone che nel frattempo aveva perso il sostegno dei romani per simpatie filo-barbare. Fu arrestato, processato e giustiziato. Il borgo di Pollenzo, frazione di Bra, conserva ruderi e monumenti funerari dell’antica Pollentia nonché resti di armi romane e barbariche e frammenti di ossa umane.
Filippo Re

Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte
L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare. Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”. Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
Liberty misterioso: Villa Scott
Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

 

Articolo 7. Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità

Dopo tutto questo camminare e guardare e ammirare i luoghi splendidi della nostra città, sarà sicuramente venuta un po’ di sete. In questo articolo vi propongo una meritata sosta, magari in uno dei bar storici nel centro di Torino, e una volta scelto il luogo, vi offro un altro consiglio: perché non ordinare un Vermouth? Per i forestieri che non lo sapessero, il Vermouth è un vino aromatizzato ed è uno degli alcolici italiani più conosciuti e ricchi di storia. I puristi lo ordinano liscio, a 12 gradi, con due cubetti di ghiaccio, una fetta d’arancia e la buccia di limone “strizzata” sopra il bicchiere. I sospettosi nei confronti dei gusti nuovi, potrebbero ordinare un Negroni, (vermouth rosso, bitter e gin), o un Manattan, (vermouth dolce, bourbon e angostura) oppure un Martini dry (vermut dry e gin). La bevanda in questione nasce nel 1796, quando Antonio Benedetto Carpano, nella sua bottega di Torino, prova a miscelare un’infusione di erbe e radici con il vino. Il successo, come qualsiasi cosa che affondi le proprie origini nella città sabauda, è legato al favore della famiglia reale, entusiasta consumatrice di questo “vin Amaricà”, ( di qui l’Americano), e in particolar modo alla figura di Vittorio Amedeo III.


L’origine è antichissima, già in alcuni testi palestinesi si dice di un vino reso più gradevole dall’aggiunta di assenzio. Secondo altri il Vermouth viene inventato da Ippocrate, che aromatizza il suo vino con erbe, spezie e miele. Anche in Grecia e a Roma c’è l’usanza di aggiungere al vino infusi di erbe, abitudine che si protrae per tutto il Medioevo e diviene usanza tipica quando i numerosi arrivi di spezie dall’Oriente giungono alla portata della maggioranza della popolazione. Dal mondo antico Antonio Benedetto Carpano prende spunto e nella sua bottega di piazza Castello addiziona il Moscato di Canelli con alcune erbe: il suo esperimento assume il nome di Vermouth, dal tedesco Wermut, che significa assenzio, o artemisia maggiore, che è l’ingrediente caratteristico della nuova bevanda. In pochissimo tempo la sua bottega diviene il locale più frequentato di tutto il capoluogo piemontese. È dunque dal 1700 che il Vermouth è una eccellenza italiana, torinese nello specifico, e inizia ad essere prodotto nelle aziende più note, dalla stessa Carpano, fino alla Cinzano e alla Martini&Rossi, senza che vengano apportate mai grandi modifiche rispetto al procedimento artigianale e originale.

E se una canzone di De Andrè recita: “Ma una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale”, alla nuova bevanda un po’ di pubblicità non può che far comodo. La comunicazione pubblicitaria si sviluppa parallelamente alle esigenze economiche, sociali, politiche e culturali di un paese. Al termine del XIX secolo l’Italia è ancora un paese prevalentemente agricolo, con una situazione di povertà diffusa, dilaniato da differenze socio-economiche tra il Nord e il Sud e un’alta percentuale di analfabetismo. Le prime comunicazioni pubblicitarie (réclame) si diffondono con la nascita dei giornali, tra la metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, di cui occupano le ultime pagine. Si tratta inizialmente di disegni e scritte, i testi sono semplici e posti al modo imperativo: “Bevete”, “ Al vostro farmacista chiedete”. Per la diffusione del nuovo stile si dimostra basilare il progresso delle tecniche fotografiche, litografiche e tipografiche. La grafica pubblicitaria ricreata in Francia da Toulous Lautrec e Jules Cheret a “nuova arte” è per l’Italia spunto di rinnovamento: Carpanetto, Villa, Metlicovitz, Beltrame, Umberto Brunelleschi, Dudovich e tanti altri cartellonisti aiutano la diffusione dei marchi (brand) dell’emergente produzione industriale e artistica, portando alla conseguente ascesa di nuovi status symbol: l’automobile, l’abbigliamento, la villeggiatura, i generi alimentari come l’olio Sasso illustrato da Plinio Novellini. Altri artisti hanno invece l’intuizione di dedicarsi all’elaborazione di immagini di prodotti, quali la serie della Fiat, del Campari o dei grandi magazzini. Le immagini pubblicitarie diventano una sorta di antologia dello stile di vita identificato con l’espressione Belle Époque.

La dinamicità del settore dell’illustrazione e delle arti applicate richiesti dalla “democratizzazione” dei beni di consumo, mette in secondo piano le arti libere, schiave dell’imperante cultura accademica, borghese e conservatrice. Ciò ha concesso più libertà di espressione e innovazione anche per le caratteristiche insite nella tecnica grafica stessa, incline alla sintesi della forma e alla fluida linearità del segno, tratti peculiari del Liberty. Non va dimenticato l’influsso del “giapponismo”, che irrompe in Europa attraverso le stampe giapponesi importate dalla Compagnia delle Indie dal 1854 alla riapertura dei mercati in Oriente. Enorme è il peso delle riviste, Emporium, Scena Illustrata, Hermes, L’Italia ride ecc., per la diffusione di quello stile, di quel gusto, chiamato in molti modi: Liberty, Belle Époque, Floreale, ma con un’unica attitudine posta fra decadentismo estetico, avanguardia futurista, rilettura di epoche passate e frenesie tecnologiche, fra mistica simbolista e poetica del quotidiano.  Avremo ormai finito di sorseggiare il nostro cocktail ed è tempo, dunque, di andare.

 

Alessia Cagnotto

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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1. La folle storia della follia
Per le comunità arcaiche, la follia possedeva una forte connotazione mistica, infatti l’opinione comune voleva che tale stato mentale fosse causato dall’influsso di qualche divinità, ed era quindi compito dei sacerdoti trovarne una cura attraverso riti e preghiere.  Nel Medioevo, invece, la follia era considerata una forma di possessione demoniaca, e la gestione della malattia passò così dai sacerdoti/stregoni alla Chiesa, più precisamente fu affidata all’arbitrio di esorcisti e inquisitori. Si credeva allora che un’entità malvagia si insinuasse negli umori del malcapitato, intaccandone il corpo, e l’unica guarigione possibile, per una mentalità che guardava prevalentemente all’Aldilà, era la purificazione dell’anima attraverso la distruzione della carne, per mezzo di roghi o impalamenti.  Solo nel XVII secolo la psichiatria venne riconosciuta come una scienza medica, anche se la malattia mentale continuò ad essere ritenuta inguaribile, progressiva e incomprensibile. Durante l’Illuminismo le cause della follia vennero ritrovate nella perversione della volontà che sfuggiva al controllo della ragione, di conseguenza la cura si doveva rinvenire in rigidi metodi di insegnamento di “regole di convivenza”, di “socialità” e “tolleranza reciproca”, attraverso semi-annegamenti in apposite vasche, minacce con ferri roventi ed esplosioni improvvise di polvere da sparo. Con il trascorrere del tempo e l’evolversi delle conoscenze, e con altrettanta lentezza, anche l’atteggiamento nei confronti della malattia mentale mutò. La luce in fondo al claustrofobico tunnel della storia della follia fu il medico francese Philippe Pinel, che, nel 1793, propose l’abolizione delle catene, che tenevano gli alienati doppiamente imprigionati alla loro condizione, e la separazione di questi dai criminali. I matti non sono più terribili sbagli della natura da nascondere con disprezzo e vergogna, ma semplici malati da studiare e curare. I manicomi nascono, dunque, da un gesto umano, oltre che scientifico, ma spesso la storia ci insegna che la volontà e i buoni propositi hanno ben poco a che fare con la cruda realtà dei fatti. Anche a Torino c’erano i “pazzerelli”, e ce n’erano tanti, poiché con questo termine non si indicavano solamente gli alienati o le persone affette da qualche disturbo psichico, ma anche i vagabondi, i mendicanti, i nullatenenti, gli sfaccendati, i maghi, i bestemmiatori, le donne di facili costumi, i libertini, i figli ribelli, i sifilitici, gli alcolisti, gli individui politicamente sospetti, gli eretici, e tutti quei personaggi stravaganti che potevano in un qualche modo essere fonte di instabilità sociale, pericolo per la cittadinanza o fonte di scandalo per le famiglie più abbienti.   Per crudele ironia della sorte, fu proprio il re Vittorio Amedeo II, morto pazzo nel 1732, a finanziare la costruzione del primo “Spedale de’ Pazzerelli” a Torino. La struttura sorgeva tra via San Domenico, via Piave, via Bligny e via Santa Chiara, era gestita dalla Confraternita del SS. Sudario e Beata Vergine, che, in cambio, ottenne di non pagare l’acquisto dei materiali necessari per il funzionamento dell’attività, e già nel 1629, un anno dopo la sua costruzione, lo stabile era in grado di accogliere i primi degenti. All’interno della struttura i folli erano divisi dai vagabondi e dai criminali, inoltre i violenti, o coloro di più difficile gestione, erano sistemati in stanze più interne, mentre a potersi affacciare alle finestre che davano sulla normale vita cittadina, erano quelli ritenuti miti e innocui. Il buon cuore e la carità insiti nell’animo umano non tardarono a farsi sentire: all’esterno della struttura, gli abitanti delle case adiacenti al manicomio iniziarono a lamentarsi dei comportamenti scandalosi dei malati aldilà delle finestre; all’interno, invece, le condizioni di detenzione dei degenti stavano via via ulteriormente peggiorando, tanto che un esponente dei Savoia esordì con un “io qui dentro non ci metterei nemmeno i cavalli!” Il 13 maggio 1834, alla presenza di re Carlo Alberto, venne inaugurato il nuovo manicomio di Torino, che sostituì quello vecchio e sovraffollato; la nuova struttura venne indicata come l’“albergo dei due pini”, ingannevole perifrasi con cui veniva soprannominato l’orrido e temuto luogo di detenzione. Il complesso sorgeva non troppo lontano dal primo, tra via della Consolata, corso Valdocco, corso Regina Margherita e via Giulio, dove era situato l’ingresso. L’edifico era costituito da due lunghe maniche parallele interrotte al centro dal settore dei servizi, che separava il reparto femminile da quello maschile. Sulla carta, le corsie e le celle erano distribuite a seconda delle patologie e del grado di difficoltà che presentava il trattamento, vi era, inoltre, una sezione apposita per i maniaci provenienti dalle carceri. La grande innovazione di questo stabile stava nel fatto che veniva consentito ai degenti di passeggiare all’aria aperta, infatti, ad abbracciare l’edificio c’era uno spazioso giardino, a sua volta perimetrato da alte mura, divisione obbligatoria, materica ed ideologica tra il mondo dei normali e quello degli anormali. Anche un’altra innovazione coincise con l’edificazione del manicomio di via Giulio: il passaggio dei poteri dalla Confraternita ai sanitari, il periodo assistenziale gestito dai religiosi era finito, si apriva ora la fase clinica in cui il medico era il funzionario del nuovo ordinamento. Ad assumere l’incarico di primo medico interno in servizio fu Benedetto Trompeo, un dinamico trentunenne di larghe vedute, a cui si deve l’introduzione del concetto di cartella clinica e dell’ergoterapia. Grazie al suo metodo curativo, che si basava su una terapia sedativa, (salassi e bagni bollenti o congelati) e su una terapia “morale” che consisteva nel passeggiare per l’ombroso giardino, giocare alle bocce e leggere dei libri adatti, riuscì a dimettere cento pazienti come “risanati”. Gli successe Stefano Bonacosa, grande viaggiatore e studioso; egli si soffermò sull’influenza delle condizioni organiche e dell’ambiente sulla genesi della malattia mentale. Divenne primario del Regio Manicomio e il primo ad ottenere in Italia, nel 1850, la cattedra per l’insegnamento della psichiatria.
L’8 settembre del 1852 nasce il fin troppo celebre manicomio di Collegno, giorno in cui ottanta “maniaci maschi”, provenienti da via Giulio, furono trasferiti in una parte della vecchia Certosa Reale di Collegno. I nuovi ospiti risultarono un po’ troppo chiassosi per l’antico ordine monastico che viveva lì, volontariamente silenzioso e lontano dal mondo esterno, e così la convivenza finì nel 1855, anno in cui ufficialmente la Certosa di Collegno, con tutti i terreni annessi, entrò a far parte del patrimonio del Regio Manicomio. Le candide mura tennero al sicuro gli scrupoli di coscienza della gente comune fino al 4 giugno del 1998, quando l’ultimo ospite della struttura fu costretto ad andarsene. Dal punto di vista giuridico, la prima legge organica che regolamentò la materia fu la Legge 36, “Disposizione sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”, relatore Giovanni Giolitti, approvata dal Parlamento italiano nel 1904. In questo modo la società si proteggeva dal “matto” e consentiva a chiunque di individuare un individuo “pericoloso a sé o agli altri” e chiederne l’internamento in manicomio dietro l’invio al Pretore di un certificato medico e di un atto di notorietà “nell’interesse degli infermi e della società”. Il numero dei ricoverati nei manicomi triplicò.  La triste vicenda dello studio e della cura della follia continua, si complica e diventa più affollata. Con l’aumentare dei ricoverati nacquero altre strutture, nel 1913 il Ricovero di Savonera, nel 1931 l’Istituto interprovinciale Vittorio Emanuele III per infermi di mente, a Grugliasco, (dove lavorò Luisa Levi, prima donna italiana a laurearsi in Medicina e Psichiatria), tra il 1931 e il 1934 sorsero otto ville Regina Margherita per i pazienti più abbienti e, infine, nel 1966, Villa Rosa, residenza dedicata alle pazienti anziane tranquille. Tuttavia ciò che è lontano dagli occhi rimane anche lontano dal cuore, gli alienati erano comunque spettri di un altro mondo, nulla avevano da spartire con la quotidiana vita della brava gente non-matta, fino a quando la televisione non costrinse tutti a guardare: il 3 gennaio 1961 andò in onda “ I Giardini di Abele”, un servizio sul manicomio di Gorizia, a cura di Sergio Zavoli, su TV7, subito dopo il Carosello. Ora non c’erano più scuse per non vergognarsi.  I protagonisti dell’inizio della fine degli ospedali psichiatrici, (chiamati così dal 1929), furono gli studenti torinesi di Architettura e di Lettere, sotto la coraggiosa guida di Franco Basaglia, brillante psichiatra veneziano, che proprio nel piccolo manicomio di Gorizia iniziò la sua rivoluzione. Il 13 maggio 1978 il Parlamento approvò la Legge 180, nota come Legge Basaglia, che impose la chiusura degli ospedali psichiatrici in cui erano state rinchiuse migliaia di persone in condizioni disumane. Successe quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo del Presidente Aldo Moro, assassinato dalle Brigate Rosse e forse proprio per questo tale provvedimento, così rivoluzionario, passò inosservato. O forse perché ci sono delle cose che si fatica ad accettare, ci sono colpe difficili da farsi perdonare, alcuni sguardi che è impossibile sostenere. Caetano Veloso cantava “ da vicino nessuno è normale”, ma solo un matto potrebbe lasciarsi avvicinare così tanto da farsi scoprire per come è veramente.
Alessia Cagnotto

Questa piazza è la più piccola del mondo e si trova a Torino

La piazza più piccola del mondo è qui a Torino. E’ quella che vedete nell’ombra, dietro la bicicletta.

Si tratta della piazzetta Beata vergine degli angeli, all’angolo con via Carlo Alberto.

D’accordo, sostengono in molti che  la targa apposta è in realtà un doppione di quella relativa alla “vera” piazza, la più grande, di fonte all’omonima chiesa. Ma allora perché collocare una targa specifica proprio nello spazio più piccolo e non così bene in vista? Come riportano numerose riviste d’arte, la piazza più grande antistante è indicata sulla targa con la dicitura PIAZZA MADONNA DEGLI ANGELI, mentre la scritta della “minipiazza” recita: PIAZZETTA BEATA VERGINE. Le scuole di pensiero tra i torinesi sono due da sempre. Queste sono le immagini, poi ognuno la pensi come preferisce!

 

Gam, Mao, Palazzo Madama: Aprile, tempo di gioco!

I musei sono chiusi, ma le attività non si fermano! Lo staff Education di GAM, MAO e Palazzo Madama ha continuato la progettazione di laboratori per famiglie da seguire online: divertenti cacce al dettaglio, enigmi da risolvere, collage primaverili per bambini e genitori.
Di seguito le proposte per il mese di aprile:

MAO | SULLE TRACCE DEI SAMURAI
dal 2 al 7 aprile
Sei un appassionato di Giappone? Vuoi scoprire alcune curiosità sui celebri guerrieri giapponesi? Ecco come: acquista online e guarda il video Dalla spada al pennello. Invia la ricevuta d’acquisto a maodidattica@fondazionetorinomusei.it: riceverai le indicazioni per procedere con l’attività in autonomia.
ATTENZIONE: il video rimarrà a disposizione per 48 ore dall’acquisto. Costo: € 3,5
Info: maodidattica@fondazionetorinomusei.it
Maggiori info

PALAZZO MADAMA | BIANCO SU BIANCO
6 aprile ore 17 – su Zoom
25 aprile ore 11 – in presenza a museo aperto, online a museo chiuso
Non sempre il bianco è uno spazio vuoto, a volte basta mettere a fuoco e nel bianco appaiono mondi inaspettati dove vivono figure silenziose. È quello che accade nel Rilievo con San Giovanni Battista di Pietro Paolo Olivieri, dove i bambini scoveranno molte specie di animali nascosti all’interno di una natura rigogliosa. Una “caccia al dettaglio” per analizzare l’opera usando i concetti spaziali di vicino/lontano, davanti/dietro, sinistra/destra e trovare tanti suggerimenti per rappresentare uno spazio immaginario creando una scultura di carta.
Prenotazione obbligatoria. Costo: 5€ online – 7€ in presenza.
Info e prenotazioni  madamadidattica@fondazionetorinomusei.it
ACQUISTA IL LABORATORIO
Maggiori info

GAM | IL MISTERO DEL QUADRO SCOMPARSO
10 aprile al 2 maggio
Vi piacciono gli enigmi? Vi proponiamo una nuova sfida: collegandosi a questo link (attivo a partire dal 10/4) potrete partecipare ad una ESCAPE ROOM virtuale davvero unica! Dovrete aiutare l’ispettore Lucio Machiavelli a riportare l’opera rubata in GAM e incastrare il famoso ladro Nero di Marte. Per farlo, sarà necessario acquistare il video “I materiali dell’arte” al seguente link e guardarlo attentamente per scovare tutti gli indizi!
ATTENZIONE: il video rimarrà a disposizione per 48 ore dall’acquisto. Costo: 3,5€.
Info: infogamdidattica@fondazionetorinomusei.it o tel 011 4429630
Maggiori info

GAM |SEMPLICEMENTE CARTA
11 aprile ore 15 – su Zoom
Un’attività per scoprire la magia dell’opera di Luigi Nervo, figura poliedrica del panorama artistico torinese, impegnata nella scultura, nella pittura con acquerelli e nella creazione di opere in carta. Il suo gusto per il magico, la fiaba e il sorprendente sarà lo spunto per l’attività: dopo aver visitato la mostra, con materiali vari si costruiranno ingegnosi marchingegni semimobili che ricorderanno gli automi o le macchine gioco che Nervo costruiva per i suoi racconti teatrali e per i bambini delle scuole.
Costo: 5€. Prenotazione obbligatoria entro il 9/4.
Info: infogamdidattica@fondazionetorinomusei.it o tel. 0114429630
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MAO | FIORI TRA LE NUVOLE
domenica 18 aprile ore 17 – su Zoom
Collegati online su Zoom, scopriremo insieme le meravigliose ceramiche islamiche del MAO: piatti e piastrelle con decorazioni floreali dai colori caratteristici. Durante l’attività, ispirati dalla primavera, realizzeremo insieme delle decorazioni su cartoncino con fiori, foglie e rametti veri.
Prenotazione obbligatoria. Costo: 5€.
Info e prenotazioni tel. 0114436928 oppure maodidattica@fondazionetorinomusei.it
Prenotazione entro venerdì 16 aprile alle ore 13 (al momento della prenotazione verrà inviato l’elenco con i materiali necessari).
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Oltre il Muro. Un libro per capire il mondo trent’anni dopo il 1989

Oltre il Muro 1989-2019  è il secondo libro pubblicato  nella collana Attraversare il tempo edita da Falsopiano e promossa dall’Isral, l’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea di Alessandria.  La pubblicazione, curata da Luciana Ziruolo – direttrice dell’Istituto e storica – raccoglie le suggestioni e i temi sviluppati durante la giornata di studi svoltasi  il 6 novembre 2019 nella Sala Convegni della Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona.

Con la caduta del Muro nel 1989 e la dissoluzione dell’Urss nel 1991 si sovvertì il quadro geopolitico mondiale. Finiva della Guerra fredda e tramontava l’arduo equilibrio del bipolarismo, l’intero ordine mondiale si dissolveva dopo una lunga e logorante guerra di nervi e diplomazie, segnata dalla folle ricorsa tesa a rafforzare arsenali bellici sempre più distruttivi e sofisticati che non potevano essere usati pena lo sterminio nucleare. A trent’anni di distanza ci si trova di fronte ad una complessa  disarticolazione dell’ordine internazionale che rende sempre meno convincenti e possibili le premesse di un mondo pacificato. Sulle pagine de Il Corriere della Sera, lunedì 1 luglio 2019, lo scrittore triestino Claudio Magris che ha affrontato il tema delle frontiere in molte sue opere di narrativa e saggistica, riflettendo sui nuovi muri che si stavano erigendo nel mondo, scriveva “quando ero ragazzino la frontiera, vicinissima, non era una frontiera qualsiasi, bensì una frontiera che divideva in due il mondo , la Cortina di ferro. Io vedevo quella frontiera sul Carso, quando andavo a passeggiare e a giocare. Dietro quella frontiera c’era un mondo sconosciuto, immenso, minaccioso, il mondo dell’Est”. Un mondo che, come in un grande gioco del domino, cadrà pezzo su pezzo dopo il crollo del muro che divideva Berlino Est da Berlino Ovest. Una transizione di portata vastissima, quasi sempre incruenta a parte ciò che avvenne in Romania, unico paese del Patto di Varsavia nel quale la fine del regime di Ceausescu avvenne in modo violento.

L’intento del  libro è di  provare a decifrare e a interpretare il 1989 e il suo portato, una questione che non riguarda solo l’Europa centro-orientale dell’ex blocco sotto il dominio sovietico  ma che attraversa l’intero spazio europeo e mondiale. Un lavoro importante che si avvale dei contributi di storici e ricercatori come Antonio Brusa, Luigi Bonanate, Alberto De Bernardi, Antonella Ferraris, Carla Marcellini, Dario Siess e la stessa Luciana Ziruolo.

Corredato da interessanti rimandi bibliografici e sitografici e un apparato di mappe e immagini che aiutano i lettore a capire meglio ciò che accadde a partire da quell’anno che cambiò la storia fino ai giorni nostri, dal momento che vennero  ridisegnate le carte geografiche e i confini mentali, si riunì l’Europa ( iniziando dalla Germania) fino alla sfide democratiche dell’oggi, all’idea di unione europea e di democrazia con le quali facciamo i conti tutti i giorni, non senza difficoltà. Di grande interesse anche la parte delle proposte dedicate al mondo della scuola, con i lavori impostati sulle immagini, i film ( dal Cielo sopra Berlino di Wenders a Good Bye,Lenin fino a Il ponte delle spie di Spielberg), la playlist musicale con Lou Reed e il suo concept album Berlin, i Pink Floyd del celeberrimo Another brick in the Wall, l’indimenticabile David Bowie di Heroes e i nostri Battiato di Alexanderplatz e i CCCP di Ferretti e Zamboni con il live in Pancow.

Marco Travaglini

La Banda Cavallero, ricordi di una brutta storia in Barriera

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COSA SUCCEDEVA IN CITTÀ

Il 28 settembre del 1967 ci svegliammo  in Barriera di Milano con la consapevolezza che dei mostri abitavano nelle nostre vie

A 10 anni e vedendo il telegiornale conobbi l’esistenza di Pietro Cavallero. Si autodefiniva comunista.
Guardai mio padre che non ebbe dubbi nel rispondermi: un poco di buono,  ed abbiamo fatto bene buttarlo fuori dal Partito. Molto conosciuto in Barriera.  Soprattutto tra piazza Crispi e le case Snia a ridosso della ferrovia. Per tutto corso Vercelli. Via Desana , in particolare. Solo anni dopo ho capito fino in fondo. C’era chi diceva che era solo un semplice iscritto,  chi segretario della sezione 32 o 9,  e chi addirittura funzionario di Partito. Nessuno ne parlava volentieri. Tanta era la vergogna perché qualcuno sapeva o perlomeno sospettava. La banda Cavallero operò per almeno 5 o 6 anni. Romoletto ex partigiano,  tanto fegato e cervello da gallina.
Alla sua prima rapina fu preso il minorenne Lopez. Sante Notarnicola che per tutta la vita cerco’ di darsi un alibi di rivoluzionario. Diventantando in qualche modo un’icona del terrorismo rosso. Dimostrazione che la stupidità umana non ha colore politico. Considerato un povero disgraziato raccontava di quanto rubo’ un camion di scarpe solo sinistre. Un’allegoria per significare la sua nullità. Capo indiscusso Pietro Cavallero. Cinico,  indubbiamente intelligente,  sicuramente un esaltato.
17 rapine con tanti, troppi morti,  sono tante, sono troppe. Cosa faceva la polizia?  Non capiva da dove arrivassero le armi. Già,  proprio cosi , da dove arrivavano le armi per fare le rapine?
Raccontata oggi può sembrare l’uovo di Colombo, ma non lo era 60 anni fa. Pietro Cavallero raccoglieva soldi tra i compagni di Barriera. Compero’ armi per i patrioti algerini contro l’occupazione Francese. Effettivamente consegno’ le armi , tenendosene una minima parte per se’. Dunque? Qualcuno sapeva e tacendo ne è  diventato in qualche modo complice. Sapeva tutto? Forse no, anzi quasi sicuramente no,  ma era ed è altrettanto chiaro che qualcosa non tornava.
Orbene,  non credo di aver letto o sentito tutto ciò che è stato raccontato sulla banda Cavallero. Nessuno,  che io sappia ha raccontato,  ad esempio,  questo episodio sulle armi. Poi nessuno,  sempre che io sappia,  di Barriera,  nato e/o vissuto in Barriera ha scritto della Banda. Niente da dire se non che , si tende a raccontare ciò che è bello. La Storia della Banda Cavallero non ha nulla di bello  e Barriera solo la vergogna di aver dato i natali a queste persone. Ma anche questa è Storia. Ed anche ricordarcelo fa parte delle nostre Vite. Della nostra memoria,  del nostro voler sapere per potere capire fino in fondo. Il più delle volte il male è limitrofo al bene. Saperlo non è cosa da poco per essere,  ancora,  dei genitori,  che hanno ancora qualcosa da raccontare ai propri figli.
Anche le cose brutte,  anche il male,  per poter essere  sempre  dalla parte del giusto.

Patrizio Tosetto 

Quelle lettere dal passato che riaprono la storia

“Lettere dal Confine Orientale” è l’ultima fatica letteraria della scrittrice torinese Maria Teresa Rossitto, edita per Parallelo45

Segue la sua prima opera, il libro di racconti ‘Vite Sospese’ del 2011 ed il romanzo ‘Schopenauer 24’ nel quale una teoria del filosofo tedesco viene ad essere il fondamento principale del movente di un giallo ambientato nella Torino bene del quartiere Crocetta.

‘Lettere dal Confine’ orientale, invece, è una storia di fantasia ma che si muove sullo sfondo reale del dramma del dopoguerra causato dell’esodo degli istriani, giuliani e dalmati. Vengono narrate le vicende di una profuga istriana che vive per moltissimi anni tra Bologna e Ferrara senza conoscere le origini de suoi genitori. Ad un certo momento, negli anni Novanta del secolo scorso, viene chiamata a Lubiana per un’apertura di un testamento e in quella occasione apprende di avere un padre sloveno, notaio, ed una madre, profuga di Pola. Pertanto ritorna nella città della mamma, riscopre tutta la vicenda degli esuli e quello che alla madre era capitato. Troverà in quello che resta della vecchia casa delle lettere e da lì riuscirà a capire. Il romanzo si conclude con due capitoli molto forti, nei quali l’autrice ricostruisce due vicende vere. E’ un libro che vuole cercare di coprire il vuoto di conoscenza sul dramma degli istriani e aiutare ad ampliare la memoria di quel difficile periodo storico. “L’idea di parlare dell’Istria – dice Maria Teresa Rossitto – mi è venuta avendo una forte suggestione vedendo un video sulla città di Pola e da lì ho approfondito la vicenda degli istriani e di quanto era accaduto”, un ricordo storico che non è di destra, né di sinistra ma un fatto accaduto dal quale non si può prescindere. E’ sicuramente un romanzo interessante, ricco di suggestioni, ben scritto che merita senza’altro di essere letto ed è occasione di meditazione su alcune brutture della storia.

Massimo Iaretti

 

Fondazione Torino Musei, appuntamenti con la cultura

26 marzo – 1 aprile 2021

VENERDI 26 MARZO

IL PRIMATO DELL’OPERA. VIAGGIO NELL’ARTE DEL NOVECENTO
GAM – visita online nell’ambito del progetto Connessioni d’arte
La GAM propone un nuovo allestimento della collezione del Novecento storico che permette di restituire centralità all’opera d’arte. Il percorso guidato consente al visitatore di soffermarsi nei diversi ambienti del museo, cogliendo l’aspetto d’insieme delle sale e delle opere, per proseguire con la descrizione di dipinti, sculture e installazioni attraverso video e fotografie esclusive.
L’appuntamento con la guida è un’occasione per ripercorrere la storia dell’arte del Novecento dalle Avanguardie storiche all’Informale, dal New Dada e Pop Art all’Arte Povera attraverso il tesoro della Città di Torino.
Info e prenotazioni: visita guidata on-line 8€ intero; ridotto 7€ (possessori di Abbonamento Musei).
Prenotazioni al numero 011 5211788 oppure scrivendo a info@arteintorino.com ; a seguito della prenotazione saranno inviati dettagli ed estremi bancari per effettuare il pagamento con bonifico oppure sarà possibile effettuare l’acquisto on-line.

DOMENICA 28 MARZO

LA FESTA INDIANA DEI COLORI, HOLI
MAO – attività per famiglie – ONLINE su piattaforma Zoom
Domenica 28 marzo 2021 ricorre Holi, la festa dei colori, una delle festività più antiche nate in India e celebrata oggi anche in molti altri paesi. Durante l’appuntamento online, collegati su Zoom, scopriremo insieme diversi aspetti di questa festa e coloreremo soggetti a tema con materiali inconsueti.
L’attività è a pagamento e con prenotazione obbligatoria.
Costo: bambini € 5
Per prenotazione e informazioni tel. 011-4436928 oppure maodidattica@fondazionetorinomusei.it.
Le prenotazioni dovranno pervenire entro venerdì 26 marzo alle 13.

Domenica 28 marzo ore 18
LE GALLERIE DEDICATE ALLA CINA E GIAPPONE
MAO – visita online nell’ambito del progetto Connessioni d’arte
Connessi con la guida, intraprenderemo un viaggio verso l’Asia orientale, alla scoperta delle opere esposte nelle due gallerie.
I partecipanti saranno accompagnati all’interno degli ambienti del museo, attraverso immagini d’insieme dell’allestimento, per proseguire nell’osservazione degli oggetti d’arte della Cina antica, caratterizzati da vasellame neolitico, bronzi rituali, lacche e terrecotte – databili dal periodo Neolitico al X secolo d.C.
Il viaggio prosegue nella suggestiva galleria dedicata al Giappone, dove si evidenziano le statue lignee di ispirazione buddhista, eccezionali paraventi, armature dei samurai, dipinti su rotolo verticale e xilografie policrome note come ukiyo-e, ‘immagini del mondo fluttuante’.
Info e prenotazioni: visita guidata on-line 8€ intero; ridotto 7€ (possessori di Abbonamento Musei).
Prenotazioni al numero 011 5211788 oppure scrivendo a info@arteintorino.com; a seguito della prenotazione saranno inviati dettagli ed estremi bancari per effettuare il pagamento con bonifico oppure sarà possibile effettuare l’acquisto on-line.

LUNEDI 29 MARZO
L’ARCHITETTURA DEL TEMPO
Palazzo Madama – visita online nell’ambito del progetto Connessioni d’arte
L’architettura di Palazzo Madama si presenta ai nostri occhi attraverso un accostamento di anime diverse: romana, medievale e barocca. La visita guidata on line condurrà i visitatori alla scoperta di questo magnifico edificio, attraverso fotografie e video riprese che permettono di poter entrare anche in luoghi difficilmente accessibili al pubblico. Un viaggio esplorativo, guidati da chi normalmente accompagna in presenza i visitatori in museo, che partirà dagli scavi archeologici per arrivare fino alle torri medievali, da dove si potrà godere di una magnifica vista panoramica sulla città di Torino. Si proseguirà nel percorso salendo uno degli scaloni più affascinanti d’Europa, realizzato dall’architetto Filippo Juvarra, fino all’entrata nelle sale barocche, un tempo abitate dalle Madame reali Cristina di Francia e Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours.
Info e prenotazioni: visita guidata on-line 8€ intero; ridotto 7€ (possessori di Abbonamento Musei).
Prenotazioni al numero 011 5211788 oppure scrivendo a info@arteintorino.com ; a seguito della prenotazione saranno inviati dettagli ed estremi bancari per effettuare il pagamento con bonifico oppure sarà possibile effettuare l’acquisto on-line.

MERCOLEDI 31 MARZO

IL PRIMATO DELL’OPERA. VIAGGIO NELL’ARTE DEL NOVECENTO
GAM – visita online nell’ambito del progetto Connessioni d’arte
La GAM propone un nuovo allestimento della collezione del Novecento storico che permette di restituire centralità all’opera d’arte. Il percorso guidato consente al visitatore di soffermarsi nei diversi ambienti del museo, cogliendo l’aspetto d’insieme delle sale e delle opere, per proseguire con la descrizione di dipinti, sculture e installazioni attraverso video e fotografie esclusive.
L’appuntamento con la guida è un’occasione per ripercorrere la storia dell’arte del Novecento dalle Avanguardie storiche all’Informale, dal New Dada e Pop Art all’Arte Povera attraverso il tesoro della Città di Torino.
Info e prenotazioni: visita guidata on-line 8€ intero; ridotto 7€ (possessori di Abbonamento Musei).
Prenotazioni al numero 011 5211788 oppure scrivendo a info@arteintorino.com ; a seguito della prenotazione saranno inviati dettagli ed estremi bancari per effettuare il pagamento con bonifico oppure sarà possibile effettuare l’acquisto on-line.

Ufficio Stampa Fondazione Torino Musei
ufficio.stampa@fondazionetorinomusei.it