Sabato 24 ottobre i riflettori di Rai Storia, il bel canale tematico della televisione di Stato, dedicato all’approfondimento della storia, ha mandato in onda, alle ore 8.50 ed alle 20.20 una intervista di Mariotto Segni, incentrata sul libro da lui scritto ‘Il colpo di Stato del ‘64’.
A Giovanni Paolo Fontana, nell’ambito della trasmissione ‘Scritto, letto, detto’, l’onorevole Segni ha ribadito la tesi che ha illustrato nel testo, ovvero che il cosiddetto ‘Colpo di Stato’ su una gigantesca fake news (oggi verrebbe chiamata in questo modo) e che fu l’inizio di una campagna mistificatoria che ha colpito la Repubblica. Riproponiamo, di seguito l’intervista che Il Torinese.it aveva realizzato a maggio di quest’anno con l’autore, ricca di spunti interessanti che offrono una diversa chiave di lettura della storia recente.
Il “Piano Solo’, del quale le generazioni più giovani hanno quasi perso memoria, negli anni Sessanta fu un argomento di grande e delicata attualità. Si trattava di un piano di emergenza speciale a tutela dell’ordine pubblico, fatto predisporre nel 1964 da Giovanni de Lorenzo, durante il suo incarico di comandante generale dell’Arma dei Carabinieri. Nel 1967 L’Espresso uscì con un titolo ad effetto 1964 Segni e de Lorenzo tentarono il colpo di stato’. I giornalisti Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari sostennero che Antonio Segni, all’epoca dei fatti presidente della Repubblica e de Lorenzo fecero pressione sul Partito Socialista che rinunciò alle riforme ed accettò di formare un secondo governo Moro perché preoccupato dall’attuazione di tale piano. Poche settimane fa si è tornato a parlare nuovamente di quanto accadde 57 anni fa con un libro di Mariotto Segni, edito per i tipi della Rubbettino, che legge quanto accadde allora da tutt’altra angolazione ed il titolo è eloquente: “Il colpo di stato del 1964 – La madre di tutte le fake news”. L’autore è figlio di Antonio Segni, parlamentare nella Democrazia Cristiana, poi fondatore del Patto Segni dopo un breve transito in Alleanza Democratica, e propugnatore di diverse battaglie referendarie, tra cui quella che portò all’abolizione della preferenza multipla. Dal 2004 non ha più incarichi parlamentari (l’ultimo è stato a Strasburgo) e l’ultima campagna referendaria con Parisi e Di Pietro fu quella stoppata dalla Corte Costituzionale. E’ stato anche docente della cattedra di diritto civile all’Università di Sassari. Nel libro, che è molto documentato e si legge agevolmente, sottolinea che lo scoop dell’Espresso, che diede il via ad una vera e propria campagna di stampa che dipinse la Democrazia Cristiana come un partito golpista, fu in realtà una gigantesca fake news, la prima della storia repubblicana e forse la più imponente. Abbiamo chiesto a Mariotto Segni quale sia stata la genesi del libro e le motivazioni che l’hanno spinto a scriverlo a distanza di tanti anni
“Questo libro è nato in modo singolare e mi si potrebbe chiedere perché non l’ho scritto prima. Tre anni fa, nel 2018, ricorrevano i 40 anni del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro. Nel rileggere i giornali che ripercorrevano la sua vita e la sua vicenda mi capitò di leggere anche alcuni articoli che rievocavano in modo arbitrario le vicende del 1964. Ho effettuato una rilettura attenta degli stessi e mi sono accorto che la narrazione era rimasta sostanzialmente inalterata in 50 anni. Ho lavorato per quasi tre anni e avanzando nella ricerca del materiale mi sono reso conto che era stato raccontato un pezzo di storia italiana con una costruzione falsa. Come documenti mi sono basato sull’archivio Antonio Segni e, per una strana circostanza, a casa ho trovato una cassetta con molte lettere e documenti che poi ho richiamato nel libro e prodotto come allegati. Ma nel rileggere il tutto la scoperta più grande, più significativa e più singolare è stato il costatare come documenti conosciuti erano stati raccontati in modo diverso se non opposto”.
All’epoca fece scalpore la proposta di Cesare Merzagora che si propose per guidare un governo di tecnici svincolato da partiti. Certo che i tempi sono davvero cambiati se pensiamo ai governi di Lamberto Dini, su incarico del presidente Scalfaro, o di Monti, nominato dal presidente Napolitano …..
“In realtà quella di Merzagora era una autocandidatura, in realtà è mia convinzione che mio padre non fosse d’accordo su un Governo Merzagora ma pensasse piuttosto ad un monocolore DC”.
Per l’ipotesi di colpo di stato che sarebbe maturato nel 1964 e che indica come una gigantesca fake news ante litteram quale sarebbe stata la ragione alla base ?
“Non saprei dirlo, credo che sia stato il desiderio di un grande scoop. Eugenio Scalfari su ciò ha costruito la sua carriera di giornalista. In ogni caso questo ha influenzato fortemente tutto il corso degli anni Sessanta. Da lì è iniziato il racconto della Democrazia Cristiana golpista. Il risultato di questa predicazione è stata una campagna che dipingeva l’Italia come ad un passo dal colpo di Stato e la Dc come partito pronto a fare il golpe pur di sbarrare la strada al Pci. La narrazione successiva ha poi rafforzato la tesi scalfariana che ha fatto partire tutto dal luglio 1964, con l’azione golpista nella quale sarebbero stati coinvolti il Presidente della Repubblica e l’Arma di Carabinieri.
Antonio Segni era contro il centrosinistra ?
“Mio padre non aveva una preclusione politica di principio, riteneva che si dovesse fare più avanti nel tempo e che l’esperienza dei due anni del Governo Fanfani (che aveva l’appoggio esterno del Psi) costituisse un pericolo enorme per il Paese. E non dimentichiamo la preoccupazione angosciata di Guido Carli, l’allora Governatore della Banca d’Italia, cui si aggiungevano quelle della stampa e della Cee”.
Che rapporto ha sviluppato con Scalfari ?
Lui e Repubblica appoggiarono fortemente la prima parte della campagna referendaria, come Montanelli. Con Scalfari c’è stato un buon rapporto ma nella vicenda in questione le sue responsabilità sono evidenti. La campagna sul presunto golpe del 1964 ha fatto molto male all’Italia. Paolo Mieli negli anni Novanta, in polemica con Scalfari disse “Avete dato la spinta psicologica al terrorismo rosso, se dite ai giovani che c’è uno Stato violento si fornisce ai giovani il motivo per rispondere con la violenza”.
Che reazioni ha avuto l’uscita del libro ?
“E’ da poche settimane in libreria. Ho sentito parecchi amici che mi hanno detto che riapre il discorso non solo sulla crisi del 1964, ma anche di ciò che è seguito. Mi auguro che sia l’inizio di una revisione storica, di un cammino più lungo”.
Il suo libro si chiude con una interessante appendice di documenti. E tutto o c’è ancora qualcosa da aggiungere ?
“In questa pubblicazione ho utilizzato tutto quanto era possibile utilizzare. C’è un punto, però, che ancora non è accertabile ed è quello dell’ipotesi del coinvolgimento del Kgb in questa vicenda. Non è chiaro perché gran parte del materiale che proviene dall’archivio del Kgb e dal Cremlino è ancora ampiamente secretato in quanto è stato consegnato così dal Governo Inglese. Ho chiesto all’archivio storico del Senato ma il Governo italiano è tenuto a seguire le indicazioni di quello britannico”.
Qual è il suo ricordo di Antonio Segni ?
“Con un padre che per tutta la mia giovinezza è stato al centro politico italiano si può essere o contestatori o tifosi e io sono stato un suo tifoso. Era un uomo dal carattere difficile, certamente, ma di grande sentimento e di grande spessore.”
Massimo Iaretti
Per ricordarlo e aiutarci a conoscerlo più a fondo Giuseppe Mendicino ha pubblicato, recentemente, per l’editore Laterza “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”. Si tratta di un libro utilissimo, impreziosito da belle immagini messe a disposizione dal figlio Alberico, primogenito di Rigoni Stern, che offre squarci poco conosciuti o addirittura inediti sulla vita dell’autore del Sergente nella neve, dall’infanzia in via Ortigara dove viveva la sua famiglia, agli anni giovanili e dei giochi spericolati sull’Altopiano dei Sette Comuni che spaventavano la madre Anna (“Can de toso, mi fai morire” lo rimbrottava per poi coccolarselo e difenderlo) fino ai tempi della guerra, della ritirata di Russia e della prigionia. Le vicissitudini della guerra sono state narrate da Rigoni Stern non soltanto nel suo capolavoro, ma anche in volumi come Quota Albania, Ritorno sul Don, I racconti di guerra,Quel Natale nella steppa, Tra due guerre. Nel volume sono rievocati gli anni della ricostruzione, il lavoro all’ufficio imposte del catasto, la scrittura e la grande lezione d’amore per la montagna e la natura che accompagnarono per tutta la vita l’impegno e l’etica morale di Mario Rigoni Stern e ci avvicinano al suo stile narrativo semplice e chiaro, profondo e mai banale, fortemente caratterizzato da una vena umanissima, antieroica e di forte valore civile. Scrive Mendicino: “Rigoni teneva ad evidenziare che l’etica è una, a tutte le latitudini, dovunque ci troviamo. I valori sono sempre gli stessi: amicizia, coraggio, desiderio di libertà, altruismo. L’umanità è una, al di là dei confini, dei colori e delle razze. E’ stato un uomo coerente, che ha vissuto, applicando in maniera concreta questi valori“. Un altro tema caro allo scrittore di Asiago che trova largo spazio nel racconto di Mendicino fu il rapporto d’amore e rispetto per la natura, il paesaggio, la flora e gli animali. In una intervista Rigoni Stern confidò come il suo ambiente fosse ”fatto di boschi, di pascoli, di montagne, di nevi e temporali”. Temi ai quali dedicò libri importanti come Il bosco degli urogalli, Inverni lontani, Aspettando l’alba, Uomini, boschi e api e soprattutto Arboreto salvatico. In quest’ultimo libro , pubblicato nel 1991, Mario Rigoni Stern scelse venti alberi a lui particolarmente cari e li raccontò, partendo dalle caratteristiche botaniche e ambientali per poi illustrarne la storia e le ricchezze, spiegando gli influssi che hanno avuto nella cultura popolare e nella letteratura, non facendo mancare riferimenti alle sue esperienze di vita. Una intera comunità e le sue genti, quella dell’altipiano dei Sette Comuni, venne narrata nella stupenda trilogia composta da Storia di Tönle, L’anno della vittoria e Le stagioni di Giacomo, annoverabile senza dubbio tra i suoi libri migliori. Mario Rigoni Stern. Un ritratto è la terza opera che Giuseppe Medicino gli ha dedicato, accanto a Mario Rigoni Stern. Il coraggio di dire no, e Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri. Il centenario della nascita è celebrato anche da un bellissimo volume a fumetti che gli dedica un omaggio antiretorico, incrociando le sue narrazioni e la biografia con una formula intelligente e originale. I due grandi temi che costituiscono il filo comune delle sue opere letterarie, come ricorda nella prefazione Sergio Frigo, presidente del Premio letterario Rigoni Stern, sono quelli della storia – “la guerra che tutto travolge senza remissione”, e la natura, “che invece rimargina le ferite e risolleva l’uomo dagli abissi in cui si va periodicamente a cacciare”. La sceneggiatura del graphic novel è intessuta sulla vicenda de Il sergente nella neve, in cui Mario Rigoni Stern ripercorre la ritirata di Russia con i suoi alpini riportati “a baita“, con i ricordi rivissuti nel Ritorno sul Don quando, accompagnato dalla moglie, intraprese il viaggio verso l’Est per rivedere i luoghi della guerra “col cuore gonfio e la toponomastica impressa nella mente”.
La storia si intitola semplicemente Rigoni Stern (144 pagine edite da Becco Giallo, con la sceneggiatura di Camilla Trainini e i disegni di Chiara Raimondi) e inizia nel 1970 quando allo scrittore, seduto al suo tavolo di impiegato del catasto di Asiago, di tanto in tanto e quasi inavvertitamente trascrive sui fogli i nomi dei commilitoni, sussurrando: “Sento di avere un conto in sospeso con la memoria”. Parte con la moglie Anna per il lungo viaggio in treno alla volta di Kiev dove sono attesi da una guida per raggiungere la steppa russa e i luoghi del fronte del Don che riaccendono in lui le memorie. Le illustrazioni della venticinquenne Chiara Raimondi cambiamo colore ogni volta che si passa dal presente al passato, imprimendo una potente forza evocativa al racconto. Spesso le frasi sono tratte dai due libri, rispettando rigorosamente il pensiero e le descrizioni dello scrittore nei giorni della ritirata e della battaglia di Nikolajewka, dei campi di concentramento e del ritorno sull’altipiano. Le due giovanissime autrici fanno riecheggiare la sua voce: “..sotto la neve ritrovo i miei sentieri, sento di non essere solo. Nel silenzio, sembra che i compagni camminino ancora con me, risvegliati dalla memoria”. Un originale tributo al più grande scrittore di montagna del dopoguerra.


Avevo parlato domenica scorsa a Palazzo Carignano di Torino del centenario della tumulazione al Vittoriano a Roma del Milite ignoto, un evento straordinario di patriottismo in un 1921 dominato da una guerra civile tra socialisti, comunisti e fascisti che procuro’ morte e violenze selvagge. Furono pochi giorni di miracolosa ritrovata unità nazionale con centinaia di migliaia di Italiani che tra la fine di ottobre e i
Chissà se all’imperatore Napoleone, ormai al termine della vita, prigioniero a Sant’Elena, giungono gli echi della rivoluzione liberale iniziata in Spagna il primo gennaio 1820, subito attecchita a Napoli e in Sicilia, e riacutizzata in Piemonte nel marzo del 1821?
E con tanta fantasia possiamo immaginare anche il poderoso castello che dominava dall’alto l’abitato, come si vede nella fotografia che ricostruisce il maniero, esattamente com’era, tanto tempo fa. Siamo a Revello, piccolo borgo medioevale di 4200 abitanti alle porte della Valle Po, a pochi chilometri da Saluzzo e a circa un’ora di auto da Torino. Nell’Alto Medioevo il castello difendeva il borgo e il territorio ma oggi di quella fortificazione non resta nulla, solo qualche rudere. Possiamo immaginarlo lassù dove indubbiamente abbelliva il paesaggio, forse costruito già nel IX secolo per arginare l’avanzata dei saraceni e poi da essi fortificato per controllare i territori conquistati. Alcuni secoli più tardi sarebbe diventato il perno del sistema difensivo del Marchesato di Saluzzo. Strada facendo, percorrendo le viuzze interne si incontrano diversi edifici sia civili che religiosi che sono la storia di Revello. Visitiamo il Palazzo Marchionale che al piano nobile si apre sulla famosa cappella e poi la Collegiata di Santa Maria, mentre del castello, distrutto dalla batterie sabaude durante l’assedio del 1588, non rimane nulla. Grande successo ha riscosso l’itinerario del FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) alla scoperta del borgo di Revello e dei suoi monumenti con banchetti e gazebo affollati di turisti pronti a seguire i volontari e le guide del FAI. Mille anni fa era di proprietà del marchese di Torino e Susa, poi nel 1215 entrò a far parte dei territori del Marchesato di Saluzzo diventando uno dei borghi principali. Ed è proprio in questo periodo che nascono gli edifici più importanti, quelli che vediamo oggi tra cui la Cappella Marchionale, un ambiente tardo-gotico collocato in una torre a lato dell’attuale Municipio fatta affrescare dai marchesi di Saluzzo con i santi protettori del Marchesato tra cui Luigi IX, il re santo di Francia che promosse diverse Crociate nel Duecento. Nel
centro storico si trova la Collegiata del Quattrocento concessa da Papa Sisto IV su richiesta dei revellesi e del Marchese Ludovico II. Sulla facciata un portale rinascimentale in marmo bianco e preziose pale d’altare all’interno. Durante il Marchesato di Ludovico II (1475-1504) e Giovanna del Monferrato il borgo di Revello fu eletto come sede preferita. A metà del Cinquecento fu occupato dai francesi ma nel 1588 Carlo Emanuele I di Savoia li sconfisse e occupò militarmente il Marchesato. Fu in questa occasione che andò distrutto il castello. Si combatté ancora a Revello nel 1693 quando il borgo fu saccheggiato dalle truppe del generale Catinat. Dopo la visita a Revello tappa obbligata (senza il FAI) all’Abbazia di Staffarda, a nove chilometri dal borgo, fondata nel 1135 dai monaci cistercensi giunti dalla Francia. Da vedere la grande chiesa e lo splendido chiostro. I monaci non ci sono più, in compenso sono arrivati i pipistrelli, centinaia di volatili che trascorrono lunghi periodi dell’anno nell’Abbazia, sotto il controllo del WWF. Nei terreni circostanti l’Abbazia nel 1690 si svolse la battaglia di Staffarda in cui l’esercito austro-piemontese di Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, appoggiato dagli spagnoli e dal cugino Eugenio di Savoia fu sconfitto dai francesi di Luigi XIV.