SPETTACOLI- Pagina 81

L’usignolo e l’imperatore alla Casa Teatro Ragazzi e Giovani

In scena sabato 2 dicembre una coproduzione Fondazione TRG e Unione Musicale Onlus

 

Andrà in scena sabato 2 dicembre alle 20.45, alla Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino l’Usignolo e l’imperatore, uno spettacolo coproduzione dalla Fondazione TRG e Unione Musicale Onlus, una fiaba in musica ispirata a “L’usignolo” di Hans Christian Andersen con Miriam Schiavello, Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci, per la regia, ideazione e scene e costumi di Giacomo Ravicchio, testo di Pasquale Buonarota, Alessandro Pisci, Giacomo Ravicchio, musiche originali di Andrea Chenna.

Il grande imperatore della Cina scopre che la meraviglia più invidiata al mondo è il canto di un usignolo che vive nel suo immenso giardino reale. Quando finalmente ascolta quel canto, si commuove di tanta bellezza e fa rinchiudere l’usignolo nel suo palazzo reale, così da poterlo ascoltare a suo piacere. Un giorno gli viene offerto un uccellino meccanico.

La trama delicata e limpida della fiaba di Andersen traccia percorsi tematici di sorprendente attualità, quali il rapporto tra reale e virtuale, naturalezza e artificio. Lo spettacolo vuol essere una riflessione sulle forza dell’esperienza diretta, del contatto, dell’incontro nei rapporti tra persone e cose e, per analogia, sulla forza del Teatro, sul suo mistero, sulla musica eseguita e fruita dal vivo, sulla forza data dalla fisicità dei gesti, dei suoni, della voce e del canto.

L’usignolo che dà il titolo al racconto è paradigma di natura e bellezza, di meraviglia e vitalità. Quel che rende prezioso e commuovente il canto dell’usignolo è la sua autenticità, perché è presente e vivo come lo sono i suoi sentimenti. Il canto dell’usignolo è un ideale di espressione vera, libera e vitale. Una bellezza che non si oppone ad altre meraviglie, neanche a quella tecnologica dell’uccellino meccanico.

Qui il teatro di parola si intreccia al teatro musicale, al canto, al gioco delle ombre e alle proiezioni in uno spettacolo che vede Giacomo Ravicchio, drammaturgo, regista, attore, scenografo e video designer, tra i fondatori del Teatro dell’Angolo, e in scena un trio già consolidato in ‘Cenerentola, Rossini all’opera’, composto dall’attrice e cantante Mjriam Schiavello e dagli attori Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci.

MARA MARTELLOTTA

Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus

Corso Galileo Ferraris 266.

Tel 01119740260

La band piemontese “Omini” a Sanremo Giovani

“Omini”, i fratelli Julian e Zak Loggia, il primo al basso e alla voce, il secondo alla chitarra e ai cori, insieme a Mattia Fratucelli alla batteria sono una band tutta piemontese. Rivelazione lo scorso anno del programma televisivo “X Factor” insieme ai Santi Francesi, piemontesi pure loro, e tutti di provenienza canavesana. Ora, in occasione di “Sanremo Giovani” le due band si ritroveranno a concorrere alla stessa manifestazione per ottenere la possibilità di partecipare alla 74esima edizione del Festival della Canzone italiana che si svolgerà nel 2024 dal 6 al 10 febbraio. Gli “Omini” da domenica difatti, insieme a Dipinto, Fellow e Nausica, hanno ottenuto il via libera, da Amadeus e dalla Commissione musicale Rai  di “Area Sanremo”, per accedere alla serata del 19 dicembre, in onda in prima serata su Rai1 e in streaming su Raiplay, in diretta dal Teatro del Casinò di Sanremo. Nel corso della quale verranno proclamati i 4 artisti che affiancheranno i Big del cast sanremese 2024 ancora tutti da scoprire: per conoscere i loro nomi bisognerà attendere l’annuncio del direttore artistico Amadeus, al Tg1 delle 13.30, domenica 3 dicembre. “Omini” sono una band giovanissima: i tre ragazzi, nati e cresciuti nella provincia torinese, hanno iniziato a suonare nel 2015 come The Minis aprendo i concerti di artisti del calibro di Caparezza, Subsonica, Africa Unite e Baustelle. Nel 2020 decidono di cambiare il sound e di avvicinarsi a sonorità che spaziano dalla controcultura anni ’60 al rock britannico. I fratelli Julian e Zack Loggia sono i figli di Alex Loggia, chitarrista della famosissima band torinese degli Statuto che nel 1992 ha partecipato al Festival di Sanremo, nella categoria Nuove proposte con il brano “Abbiamo vinto il Festival di Sanremo”. Anche il batterista Mattia Fratucelli è figlio d’arte, del batterista Alberto Fratucelli, molto noto al pubblico del Canavese. Ma perché si chiamano così? Si tratta di un semplice omaggio al loro primo singolo con questa nuova impronta più rock pubblicato nel 2021 appunto con il titolo “Omini”. “Siamo superfelici e onorati di essere tra i finalisti di Sanremo Giovani – scrivono gli Omini sui loro canali social – non stiamo più nella pelle e non vediamo l’ora di farvi sentire “Mare Forza 9oi”.Ci vediamo il 19 dicembre su Rai1!”.

Igino Macagno

La 7ma edizione del premio Virna Lisi al 41° Torino Film Festival

 

Greta Scarano riceverà il Premio Virna Lisi, a Romana Maggiora Vergano il Premio Giovane Rivelazione

 

 

Torino, mercoledì 29 novembre

Incontro stampa: ore 12.30 Media Center (via Verdi 9)

Premiazione: ore 17.30, Cinema Romano

 

Nell’ambito della 41ma edizione del Torino Film Festival, la Fondazione Virna Lisi assegnerà mercoledì 29 novembre il Premio Virna Lisi, istituito 7 anni da dalla famiglia dell’attrice e assegnato ogni anno a una protagonista del cinema italiano.

 

A ricevere il prestigioso premio sarà Greta Scarano, che nell’ultimo anno è stata tra i protagonisti dell’ultimo film di Ferzan Ozpetk, Nuovo Olimpo, oltre che di Circeo, serie tv in onda su Rai 1 che racconta il massacro del 1975.

 

Il Premio Giovane Rivelazione sarà invece assegnato a Romana Maggiora Vergano per la sua interpretazione in C’è ancora domani di Paola Cortellesi.

 

Greta Scarano e Romana Maggiora Vergano incontreranno la stampa domani alle ore 12.30 nel corso di una conferenza

 

presso il Media Center alla presenza di Corrado Pesci (pres Fondazione Virna Lisi), Veronica Pesci (vicepres Fondazione Virna Lisi), Romana Maggiora Vergano (att), Mauro Tarantino (pres Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi), Bruno Di Marino (docente di Teoria e metodo dei Mass Media presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e curatore del volume “Virna Lisi. Diva e Antidiva”), Stefano Iachetti (dir Cineteca Nazionale – CSC), Steve Della Casa (direttore TFF)

 

Il Premio Virna Lisi a Greta Scarano e Romana Maggiora Vergano sarà assegnato mercoledì 29 novembre alle ore 17.30 presso il Cinema Romano con un talk condotto dal direttore artistico del TFF Steve Della Casa e da Laura Delli Colli (presidente SNGCI).

Nelle immagini, Greta Scarano (a dx nella foto tratta da “Circeo”, in onda su Rai 1; e Romana Maggiora Vergano a dx nella foto, tratta da “C’è ancora domani”, interpretato e diretto da Paola Cortellesi, attualmente sugli schermi con enorme successo di pubblico e di critica.

 

 

Caterina Caselli tra musica e cinema al Tff

Caterina Caselli, protagonista ieri della masterclass al media center della Cavallerizza, viene accolta tra fragorosi applausi dal sottofondo di “Insieme a te non ci sto più”, una canzone significativa non solo perché scritta da Paolo Conte, di cui ha prodotto il film a lui dedicato e presentato in serata, ma ancheperché la canzone è intrecciata al mondo del cinema. Infatti Nanni Moretti l’ha utilizzata ben due volte nei suoi film, per Bianca e perLa stanza del figlio, come ci tiene a ricordare Steve Della Casa.

E poi una canzone manifesto di libertà che ci parla ancora oggi, in un periodo così scottante per la difesa dei diritti delle donne. LaCaselli si è intrattenuta generosamente qui a Torino per il Torino Film Festival nella giornata di ieri per l’anteprima del film “Paolo Conte alla Scala – Il maestro è nell’anima”, la testimonianza superlativa del concerto alla Scala del 19 Febbraio scorso prodotto dalla Sugar, casa discografica della famiglia Caselli per la regia di Giorgi Testi e distribuito da Medusa, nelle sale dal 4 al 6 dicembre. Leitmotiv della masterclass è stato l’intreccio tra cinema e musica. Diversi gli aneddoti: dalla canzone scritta da Ennio Morricone per Elisa, di cui la Caselli è stata talent scout, che poi venne utilizzata da Quentin Tarantino nel film Django Unchained, alla collaborazione con Davide Ferrario,presente alla masterclass, il quale ha anticipato il suo prossimo film dedicato all’ Italo Calvino delle Città invisibili in cui è presente il brano “Ora mi alzo” di Luciano Berio, reinterpretato da Raphael Gualazzi, artista della scuderia della Caselli.

A coronare l’incontro un richiamo all’attualità nei testi delle sue canzoni più famose “Nessuno mi può giudicare” e “Insieme a te non ci sto più” “che sottolineano” commenta la Caselli “la prima che laverità è senza tempo e che la libertà è di tutte e di tutti e nella seconda c’è una donna che capisce che l’altro non è più e quindi “si muore un po per poter vivere” cioè dobbiamo accettare il rifiuto, che la vita è una conquista e che dobbiamo accettare la sofferenza, ascoltare gli altri perché siamo tutti collegati e cercare di volerci bene”.

GIULIANA PRESTIPINO

L’orchestra Svoboda all’Osteria Rabezzana

Osteria Rabezzana, via San Francesco d’Assisi 23/c, Torino

Mercoledì 29 novembre, ore 21.30

Svoboda

L’orchestra Svoboda è una formazione composta da voce, tromba, tastiere, chitarra acustica, basso elettrico, batteria, percussioni, sassofoni. Da oltre vent’anni la loro musica oltrepassa i generi ricreando la colonna sonora di un sorprendente viaggio geografico-emotivo attraverso il pianeta. Superando ogni confine e mescolando le culture, Svoboda accompagna in un mondo musicale dove armonia, melodie e ritmi rinascono a nuova vita grazie ad una voce senza limiti.

FORMAZIONE

Silvano Bargelli, tastiere

Stefania Cammarata, voce

Gianni Daniello, batteria

Roberto Freggiaro, basso

Doriano Goglio, tromba e flicorno

Massimo Iamone, chitarra

Paolo Ginanneschi, percussioni

Sergio Zaccardelli, sassofoni

Ora di inizio: 21.30

Ingresso:

15 euro (con calice di vino e dolce) – 10 euro (prezzo riservato a chi cena)

Possibilità di cenare prima del concerto con il menù alla carta

Info e prenotazioni

Web: www.osteriarabezzana.it

Tel: 011.543070 – E-mail: info@osteriarabezzana.it

Mozart al concerto rotariano dell’Orchestra Polledro diretta dal Maestro Bisio

Il  5 dicembre 2023 

 

Il concerto natalizio che coinvolge il Distretto Rotariano 2031 sarà affidato all’Orchestra Polledro e si terrà martedì 5 dicembre alle 20:30 presso il Teatro Vittoria, in Via Gramsci 4, a Torino. Al concerto è abbinato un service a favore delle Fonderie Ozanam, che operano nel sociale formando e inserendo nel mondo del lavoro decine di ragazzi che si trovano in situazioni difficili. Il concerto, diretto dal Maestro Federico Bisio, prevede l’Ouverture dall’opera “Artaserse” di Johann Christian Bach; di Wolfgang Amadeus Mozart la Sinfonia di Do Maggiore n. 28 KV 200 e la Sinfonia in Re Maggiore n. 30 KV 203.

L’ Artaserse è la prima opera di Johann Christian Bach, sul libretto di Pietro Metastasio, che andò in scena al Teatro Regio di Torino il 26 dicembre del 1760. Nel ruolo del protagonista, il celebre Gaetano Guadagni, in seguito primo interprete di Orfeo nell’omonima opera di Gluck. Nonostante la calorosa accoglienza, l’opera ebbe soltanto sette rappresentazioni a causa di un’epidemia che colpì i membri della casa regnante e alcuni musicisti. L’Ouverture comincia in modo sorprendente: all’unisono e con una figura ascendente basata sulle note dell’accordo perfetto in Re Maggiore. Il carattere generale risulta febbrile e scattante. Il secondo movimento, in netto contrasto, presenta una figurazione più riflessiva e calma degli archi, arricchita da interventi dei fiati. Il finale si presenta come un Rondò in miniatura, con due episodi (il secondo in tonalità minore) che ristabiliscono il carattere festoso del primo movimento.

Mozart compose la Sinfonia in Do Maggiore n. 28 KV 200 nel 1773, o 1774 per Salisburgo. Come le altre Sinfonie scritte prima della sua fuga dall’autocratico arcivescovo di Salisburgo nel 1781, la n. 28 è stata immeritatamente oscurata dalle sue ultime sei Sinfonie, a partire dalla Haffner del 1782. Secondo alcuni studiosi la Sinfonia n. 28 riecheggia (o anticipa) opere che vanno dalla Sinfonia Degli Addii di Haydn del 1772 al suo stesso Flauto Magico del 1791. A Salisburgo, sotto l’ala protettrice di Michael Haydn, Mozart si spinse a investire la sua musica con sentimenti più profondi di quanto avesse rischiato in precedenza e, a partire dalla Sinfonia n.25, il cambiamento si manifesta in modo straordinario.

Nel primo movimento risalta il tono rigoroso dell’introduzione, mentre nei successivi melodie e temi sono sviluppati nella semplice tonalità in Do Maggiore, ma in modo più leggero, contrastando con gli arpeggi il primo movimento. Nel finale Mozart fa suonare gli ottoni in modo più prominente del solito, offrendo un primo indizio di quella che sarà la Sinfonia n. 41 chiamata Jupiter.

L’ultima parte del concerto prevede l’esecuzione della festosa Sinfonia n. 30 in Re Maggiore KV 203, scritta a Salisburgo per un’occasione non conosciuta, completata il 5 maggio del 1764. Mentre la Sinfonia precedente, la n. 29, raggiungeva una nobile serenità, e quella ancora precedente denominata n. 25 era la prima Sinfonia veramente tragica, questa sembra essere più incentrata sulla leggerezza e il divertimento. Questo fatto ha portato i commentatori dell’epoca romantica a considerarla un passo indietro, in quanto opera meno seria. In realtà è una Sinfonia che per la varietà delle idee musicali e l’intelligenza del loro trattamento è pari alle altre due. A unificare l’opera sta il fatto che sia il primo sia l’ultimo movimento iniziano con una melodia discendente che traccia un accordo di Re Maggiore. Nel primo movimento questo è preceduto dal alcuni accordi e figure introduttive, tra cui una che include un semplice trillo. Nel corso dell’esposizione questo trillo cresce e acquista importanza, fino a quando l’intera orchestra è dominata dal suo “ronzio”.

Il secondo movimento per soli archi è in forma di Sonata su scala ridotta ed è ricco di melodie cantabili. Mostra la cura da parte del compositore nel mantenere interessanti tutte e quattro le voci. Il Minuetto è uno dei più danzanti tra le Sinfonie più mature di Mozart. Il finale, sempre in forma di Sonata, contrappone una fanfara d’apertura a passo veloce in ritmo puntato a un’idea lirica contrastante. Il colpo di genio è la coda conclusiva che fa evaporare la Sinfonia in piano, non facendoci dimenticare che il compositore era allora un diciottenne dotato di grande senso dell’umorismo.

Mara Martellotta

 

TFF: “Non riattaccare”, un’altra grande prova per Barbara Ronchi

Nei mesi del lockdown, il chiuso delle proprie case e le chiusure agli altri obbligatorie, i rapporti pressoché azzerati, le notti come spazi di pace. Ma non per tutti. Quando è ancora tutto immerso nel buio, quando nella strada passano soltanto le luci e la sirena di una autoambulanza, Irene viene svegliata dall’ex Pietro, non lo sente da tempo, l’agitazione di lui, una voce stanca e rotta, se ne sta in bilico sul tetto della casa di Santa Marinella, chiede il suo aiuto. Sono le prime scene di “Non riattaccare”, unico italiano in concorso, tratto liberamente dal romanzo di Alessandra Montrucchio, scritto (con Jacopo Del Giudice: un thriller? una seduta psicanalitica?) e diretto da Manfredi Lucibello, classe 1984, fiorentino, arrivato alla sua opera seconda, dopo “Tutte le mie notti” di cinque anni fa. Una sorta di felicissimo risultato, un capolavoro di scrittura e di resa nel cuore del TFF, che guarda alla Magnani disperata in piena area Cocteau e quel “Locke” inventato dal regista inglese Steve Knight per Tom Hardy, raccontato nel chiuso di un’auto.

Perché anche qui, non potendo rinunciare a quel sentimento che ancora le sta stretto nel cuore, in fondo un rapporto mai terminato, Irene è pronta a mettersi in macchina, a combattere con la benzina che è sempre più in riserva e con i distributori chiusi, con il cellulare che va scaricandosi e un caricabatteria da rubare, con i porci che vorrebbero approfittarsi di lei e un paio di poliziotti che le fanno rovistare nella borsa pur di ritrovare libretto patente e permesso di circolazione, soprattutto con i dialoghi di Pietro (un Claudio Santamaria invisibile, una voce soltanto, ma capace di farsi personaggio concreto e autentico attraverso un lamento, una parola precisa o una frase che chissà dove porterà il dialogo dei ricordi, delle insinuazioni, delle cose taciute e di quelle troppo urlate) che va guidato, tenuto a bada, terrorizzato o sorretto con amore. Difficile tenere per 90’ ben alta e salda la tensione, far filtrare all’attenzione dello spettatore – che si spera non venga mai meno – un passato e un presente, rifuggire i luoghi comuni, costruire emozioni vere e giuste invenzioni sonore: Lucibello ci riesce appieno, non un attimo di ripetizioni o di noia, circondato da un gruppo di collaboratori – Emilio Costa direttore di fotografia, Diego Berré con un montaggio da applauso, le musiche ossessionanti di Motta – di primissimo ordine.

Poi, c’è Barbara Ronchi al centro della vicenda, di ogni racconto, di qualsiasi sensazione, di ogni sguardo. Un’attrice che quest’anno s’è vinta un David e un Nastro, che è la cancelliera della Tataranni e ti diverte, che scala le montagne più alte del drammatico: e ti convince. Guardare i gesti convulsi, la disperazione e gli affetti riscoperti e trovarti davanti ad un’attrice che ad ogni prova ti piace riscoprire, analizzare. Un miracolo di intelligenza e di dedizione.

Fuori concorso, torinese ormai sessantenne, regista intimista e pronto a cavalcare la gioventù di Montalbano, Gianluca Tavarelli punta al divertimento e all’analisi del nostro tempo con “Indagine su una storia d’amore”, sovvertendo, capovolgendo lo sguardo drammatico con cui aveva affrontato la coppia in “Un amore” nel 1999. Oggi, lo sguardo è su Paolo e Lucia, anni insieme ma un rapporto che si sta esaurendo, una vita d’attori che non gira, un paio di pose di tanto in tanto, un provino che chissà dove porterà, il cinema indipendente a secco di quattrini e la grande produzione sempre soltanto sognata. E se ci fosse data la possibilità d’affrontare le telecamere di una tivù, la possibilità di raccontare la nostra storia, vedrai andrà tutto bene, cominceremmo a entrare in milioni di case d’italiani, la gente ci riconoscerebbe, finalmente arriverebbero le scritture. Paolo recalcitrante, Lucia al colmo dell’entusiasmo. Ma se telecamera è, il racconto deve essere completo, senza censure, del tutto scoperto. Si dovrà raccontare un passato, con i continui ardori sessuali di lui (è Alessio Vassallo, il femminaro Mimì, compagno e giovane sciupafemmine del giovane Montalbano; lei è Barbara Giordano), le bugie, tutto un entroterra sconosciuto cui entrami cercheranno di sottrarsi, bisognerà affrontare i genitori di lui che non riescono neppure più ad uscire di casa e un intero paese che ha decretato l’ostracismo. Lo spunto poteva essere buono, forse ottimo (considerato il mondo sciupato della televisione e di certi suoi programmi con maggiore introspezione), se il tutto dopo la prima mezz’ora non si fosse risolto in una sequenza più o meno boccaccesca di incontri e sotterfugi e abbandoni. Anche la simpatia dei due interpreti in fin dei conti finisce per venire meno, lasciandoci supporre che il tentativo di Tavarelli, nonostante le risate del pubblico, nel territorio della comicità stia un po’ stretto e azzardato.

Un’isola a parte, “Luci dell’Avanspettacolo” è un gustosissimo affresco dentro il quale è lo stesso direttore del TFF, Steve Della Casa, come nuovo Virgilio degli anni Duemila, ad accompagnare lo spettatore che abbia deboli ricordi circa una forma d’arte che possiamo far partire dai cafè chantant degli anni Trenta (ma dovremmo risalire alla seconda metà del Seicento, in Francia, quando una compagnia italiana ebbe l’idea di frapporre ai versi alcune brevi canzoni), che ebbe il proprio periodo più felice durante la guerra e il periodo postbellico, per spegnersi con i varietà televisivi dei Settanta. Un affresco che è dovuto ad un’idea di Antonio Ferraro e alla regia di Francesco Frangipane (gli stessi produttori di “Non riattaccare”: Carlo Macchitella scomparso di recente, Piergiorgio Bellocchio e i Manetti Bros.), 70’ di ricchezza di materiali, conosciuti e no, nel vorticoso montaggio di Annalisa Schillaci, con attori e registi di oggi – Lillo e Greg, Antonio Calenda, Massimiliano Bruno, Enrico Vanzina, Gino e Michele, David Riondino e Margherita Fumero (“rivedo ancora quando a sei anni mia mamma mi accompagnò al Maffei, a me del film non importava nulla, furono le ballerine a colpirmi… e poi la Osiris, magari dalle doti artistiche non altissime ma bella come una dea… e l’arte di Macario!”) a raccontare di Petrolini, di Totò e Fabrizi, della grandiosa Magnani, di Billi e Riva, di Franco e Ciccio, dei primi approcci di Gina e Sofia, pronte a sgambettare e a sgomitare, delle tante gag inventate e divenute un repertorio, dei gatti morti lanciati in palcoscenico, degli scambi di parole e di gesti non sempre al colmo della gentilezza con il pubblico che aveva le proprie esigenze, degli inviti e dei pranzi scroccati ad un nobilotto di paese quando le compagnie, poverissime, si avventuravano per le strade d’Italia, gli alberghi che rifiutavano le notti nella paura di non essere pagati, le soubrette che avanzavano qualche trattamento di favore e le soubrettine che avrebbe continuato a restare relegate in terza o quarta fila, per tacere di quelle che in qualche maniera s’aggiustavano. Con il gran bagaglio di costumi ridotti, di cosce bene in vista, dei mazzi di fiori degli ammiratori. Il vecchio avanspettacolo avrebbe lasciato il posto alla rivista, e alla commedia musicale in seguito. Ognuno racconta e testimonia, cattura immagini anche cinematografiche, da “Luci del varietà” (1951) con cui Fellini e Lattuada ruppero un sodalizio rivendicando una controversa paternità, a “Vita da cani” firmato da Monicelli e Steno, che approfittarono dei bisticci dei colleghi per uscire prima nelle sale, a “Ci vediamo in galleria” di Bolognini (1953), che sognava su quel luogo di riunioni, di scritture sognate, di successi e insuccessi, a “Polvere di stelle” dove Sordi e la Vitti – come si fa a dimenticare Mimmo Adami e Dea Dani? – riuscivano a resuscitare del tutto un’epoca. Ma era un’epoca che terminava, il pubblico a teatro aveva altri gusti e altri beniamini: ci avrebbe ancora provato Bramieri con il suo sonoro “Felicibumtà”. Ma eravamo arrivati alla fine degli anni Settanta.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Barbara Ronchi, interprete di “Non uccidere”, una scena di “Indagine su una storia d’amore di Gianluca Tavarelli e un momento di “Luci del varietà” per la regia di Fellini e Lattuada, tra gli interpreti Giulietta Masina e Peppino De Filippo.

Durante i primi giorni del 41° TFF. Eccellente prova della francese Iris Kaltenbäck con “Le ravissement”

DAL TORINO FILM FESTIVAL

Nel panorama di una Parigi caotica e affannosa nel vivere quotidiano, sembra scorrere tranquilla la vita di Lydia, felicemente portata avanti la sua professione di ostetrica, diligentemente corretta in “assistente al parto”, ovvero quelle donne che durante e dopo una nascita badano più alle mamme che ai piccoli. Tranquilla fino a che il compagno le confessa, dopo tre anni di convivenza, di essere andata a letto con un’altra persona, fino a che non scopre che la sua migliore amica Salomè è incinta, fino a che non incontra, nel suo girovagare notturno – anche la casa le sta stretta e inospitale -, Milos, di origini serbe, fuggito ragazzino dalla guerra, in terra francese solitario conduttore di autobus. Una chiacchierata in un caffè, una notte insieme e tutto parrebbe finire lì: ma nel cuore di Lydia si viene creando una sofferenza non superabile, nella mente di Lydia scatta una spirale di frenesia, di castelli di fantasia costruiti per sé e per gli altri, di bugie che sconvolgono del tutto quella vita. Perché con il passare dei giorni e delle settimane non alleggerire le giornate dell’amica traumatizzata dal parto prendendosi cura della piccola Esmée (“l’amata”), portarla al parco, giocare con lei, prepararle le pappe, dimenticare il lavoro per starle sempre più accanto, per sentirsela sempre più propria? Perché non catturare sempre più gli affetti e la passione di Milos facendole credere sua la bambina? Perché non essere inevitabilmente coinvolta dalla famiglia del ragazzo, affettuosamente oppressiva? Perché non tentare di formare anche per soli pochi giorni una coppia con una bambina, continuando a mentire, fuggendo verso le spiagge della Normandia?

Iris Kaltenbäck, per la prima volta dietro la macchina da presa (un passato di sceneggiatrice, “Le vol des cicognes” è del 2015, mai apparso da noi), ci offre con “Le ravissement” (2023) – non soltanto per noi “il rapimento” ma altresì “l’infatuazione” o “l’incantamento” – il quadro preciso dell’urgenza senza confini di certi sentimenti, dello scompiglio che possono creare, di uno sconvolgimento totale verso gli altri che può annientare una vita. Sono bisogno d’amore, sono lo specchio del desiderio di uscire da una troppo duratura solitudine. Accompagna la regista con una fermezza e una durezza (come sono costantemente duri i tratti della protagonista Hafsia Herzi, eccellente, pochi i sorrisi, quasi sempre innaturali e forzati) senza mai sbavature il cammino interiormente doloroso di Lydia, intrappolata nelle sue giornate e nelle sue menzogne, in quella costruzione assurda di un universo parallelo che finisce col coinvolgere tutti. Racconta con autentica padronanza un’amara vicenda tutta in salita, affaticata, dolorosa e offre ai due protagonisti principali (Milos è Alexis Manenti) l’occasione per altrettanti ritratti fatti di cuore e di animi controversi.

Nelle prime giornate di questo 41mo Torino Film Festival arriva anche dal Canada “Soleils Atikamekw”, un’altra donna alla direzione, Chloé Leriche, alla sua seconda opera. Il film (che somiglia di lontano al fratello povero se non poverissimo dei recenti e poco soddisfacenti “Killers” di Martin Scorsese) è il racconto ai giorni nostri, la disperazione non scomparsa, il ricordo triste dei famigliari delle cinque vittime di un incidente realmente accaduto nel giugno del 1977 e mai completamente chiarito. Un’auto finita poco oltre la riva di un fiume, due metri d’acqua al massimo, due ragazzi del Québec che si salvano e cinque, uomini e donne, della comunità Atikamekw perdono la vita, annegati in circostanze su cui si pretende di vederci chiaro. La polizia concluse all’epoca le indagini con la parola incidente, gli indizi, i dubbi, le prove scoperte non sono mai state prese in considerazione. Per sette anni la regista e produttrice ha lavorato in comunione con quelle cinque famiglie per renderle partecipi davanti e dietro la macchina da presa. Alcuni, in doppio ruolo, incarnano i loro avi, altri testimoniano per intero la mancanza di considerazione subita. Come per Scorsese, anche qui la volontà del bianco di nascondere ogni responsabilità, di tirar fuori da ogni coinvolgimento chi potrebbe spiegare il passato e calmare il presente: mentre le note di regia ci dicono che in Canada, malgrado le apparenze, il razzismo nei confronti dei popoli autoctoni è oggi ancora presente nelle istituzioni pubbliche.

Forse i risultati non hanno la chiarezza e l’applauso che la vicenda avrebbe meritato, il film politico della Leriche, pensato e girato per quella comunità, ha di certo il pregio di riportare alla luce scomodi fatti di cui in patria si è rinunciato a parlare: è tuttavia condotto con un’impronta piuttosto debole, indecisa se intraprendere la strada documentaristica piuttosto che quella della ricostruzione, per cui al di là dell’amarezza che continua a essere presente si è portati ad apprezzare maggiormente la componente poetica, quel sottofondo religioso e antico, ancestrale, di cui l’opera contiene non pochi spunti.

Applausi alla proiezione di “Girasoli”, presentato fuori concorso, debutto dietro la macchina da presa di Catrinel Marlon, all’anagrafe Catrinel Menghia, rumena di origine, un passato di sportiva e di modella, volto di Armani, copertine, testimonial d’eccellenza e interprete del primo film di Luigi Lo Cascio, “La città ideale”. Un corto lo scorso anno e adesso, oltre ad essere madrina del Festival, bellezza insuperabile nello scenario dell’inaugurazione a Venaria, autrice applaudita di una storia che, trasportata nel tempo, affonda le radici dolorose nella storia della sua famiglia, “la storia di una zia che vive in Romania”, e tra le righe di una lettera d’amore “che risale al 1888 e che ho trovato nell’ormai chiuso manicomio di Siena”. Al centro della vicenda, Lucia che ha il viso di ventenne e tutta la sempre maggior bravura di Gaia Girace (“L’amica geniale”), una ragazza di quindici anni curata per la sua schizofrenia con cure inconcludenti e sperimentali all’interno di un fatiscente manicomio degli anni Sessanta. È nelle mani di due medici che hanno linee mediche opposte (Monica Guerritore e Pietro Ragusa), che si scannerebbero pur di far prevalere ognuno la propria: mentre Lucia trova un’amicizia e una forza nell’infermiera Anna, una nuova assunta. È chiaro che sorveglianti, medici e monache vigilino su quell’amicizia i cui confini con l’amore sono del tutto labili. Un film a tratti più di scrittura che di direzione registica, più letterario che legato intimamente alla corposità del reale: comunque un’opera che altresì s’imprime nella memoria come esempio di ribellione e di ritratti femminili finemente scanditi, forti nel momento infelice che l’universo della donna continua a vivere.

Il versante del divertimento – che anche in un festival come il TFF è preteso e condiviso – è felicemente rappresentato da “Un anno difficile” (da giovedì prossimo nelle sale) del duo d’oltralpe, re Mida di quel cinema e non soltanto, formato da Eric Toledano e Olivier Nakache, autori di quel “Quasi amici” che poco più di una decina di anni fa ci ha emozionato e divertito. Due amici, anche qui e senza nessun tentennamento, due uomini sempre al verde, di quelli che si sprecano a cercare un ricevimento per sbarcare la giornata nel migliore dei modi. È durante uno di questi che si ritrovano senza nessun preavviso nel bel mezzo di una manifestazione di ecoattivisti: e sarà un susseguirsi di bugie, di giocare a essere quello che mai si sognerebbero, a costruire sotterfugi e maldestre azioni di proteste. Complice una dolce ragazza forte delle proprie idee e anche di una certa insensatezza dei suoi anni. Black Friday in cui tutti tentano di accaparrarsi tutto, ironia a carrettate su consumismo e ambientalismo, dove qualcuno cerca anche di bluffare, tornando a percorrere vecchie strade di comodo. Toledano&Nakache si sono divertiti a dare al film un andamento ultraveloce, a rotta di collo, e a buttarvi dentro i loro attori Pio Marmaï e Jonathan Cohen, cui s’aggiunge una dolcissima Noémie Merlant, srotolando episodi su episodi che faranno la felicità del pubblico. Forse dimenticando – a torto – quegli angoli di sentimentalismo autentico che avevano fatto (più) grande l’opera precedente.

Elio Rabbione

Nelle immagini: scene tratte (nell’ordine) da “Le ravissement”, “Soleils Atikamewk”, “Girasoli” con Monica Guerritore e Gaia Girace e “Un anno difficile” degli autori di “Quasi amici”.

Al teatro Carignano va in scena Clitennestra

Con Isabella Ragonese per la regia di Roberto Andò

 

Debutto al teatro Carignano, alle 19.30 di martedì 28 novembre, di ‘Clitennestra’, tratto dal romanzo “La casa dei nomi” di Colm Toibin, per l’adattamentio e la regia di Roberto Andò. Interpreti Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Becheroni, Denis Fasolo, Katia Gargani, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini.

È in collaborazione con il Teatro di Napoli, Teatro Nazionale Campania Teatro Festival.

Al teatro Gobetti, sempre nelle stesse date, dal 28 novembre al 3 dicembre prossimo, andrà in scena la piéce ‘Tipi umani seduti al chiuso. Partitura sentimentale per biblioteche’ di Lucia Calamaro. Interpreti Riccardo Goretti, Lorenzo Marangoni, Cristiano Maioli, Cristiano Parolin, Filippo Quezel, Susanna Re, Simona Senzacqu. In collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto.

Nell’elegante ed essenziale lingua che gli appartiene l’irlandese Colm Toibin fa rivivere e attualizza in questo testo le figure epiche della casa di Atreo, restituendo ai personaggi carne e sangue e donando loro motivazioni, psicologia e toni fortemente contemporanei. Si tratta di un processo di umanizzazione necessario, la conseguenza irreversibile della scomparsa di un orizzonte divino: Clitennestra, qui interpretata da Isabella Ragonese, è dunque, ancora la rancorosa regina del mito, ma anche una donna alle prese con una gestione complessa e moderna del proprio potere, una figura più sfaccettata, matura e dal grande fascino.

“Leggendo di romanzo di Colm Toibin “La casa dei nomi” – spiega il regista Roberto Andò- ho provato una grande emozione e alla fine, quasi senza accorgermene, mi sono sorpreso a fantasticare sulla possibilità di mettere in scena il personaggio più grandioso che vi è narrato, Clitennestra. Una figura che nell’Odissea è presentata come l’anti Penelope, il prototipo della donna infedele e assassina. La stessa che quando Ulisse scende nel mondo dei morti e si imbatte nel fantasma di Agamennone è qualificata con l’appellativo di “perfido mostro”. Invece nell’Orestea di Eschilo Clitennestra è una regina assetata di potere, autrice di una vendetta che si prolungherà oltre la morte. Essa uccide il marito Agamennone che, oltre ad infliggerle gravissimi torti, aveva sacrificato in nome della guerra sua figlia Ifigenia ed è uccisa a sua volta dal figlio Oreste, che perseguita da morta fino al delirio.

“Riabilitata” da filosofi e scrittrici, Clitennestra è rimasta a lungo il prototipo dell’infamia femminile. La sua vicenda è giunta a noi soprattutto grazie all’Orestea, la trilogia ( Agamennone, Coefore ed Eumenidi) in cui Eschilo nel 458 a.C celebrò la fine del mondo della vendetta e la nascita del diritto.

Nel romanzo di Toibin, la tragica storia di rancore e solitudine, di sangue e vendetta, di passione e dolore, è narrata da tre punti di vista, ma soltanto le due donne, Clitennestra e Elettra, raccontano in prima persona e la loro voce è decisamente la più drammatica.

Chi conosce Toibin sa che egli compone in ogni suo libro una drammaturgia del dolore e della perdita ed è interessato al silenzio che si crea attorno al dolore, alla vita di donne sole che portano con sé il peso di un trauma. Voci che parlano con il timbro speciale loro conferito dalla violenza subita.

Se Clitennestra ci è stata tramandata come un personaggio estremamente negativo, qui si trovano dispiegate le sue ragioni umane. Ed è ciò che mi ha attratto di questo testo, per il quale ho subito individuato un’interprete straordinaria come Isabella Ragonese. Un’attrice in grado di esaltare e modulare i toni complessi, e emotivamente risonante, di Clitennestra. Toibin non esprime giudizi, accoglie la potenza emotiva che scaturisce da questo personaggio e ne esplora le azioni, confrontandole con le parole che adopera per far luce nel buio della sua interiorità danneggiata. Ne nasce un teatro di ombre, di voci, di fantasmi, che si muove dentro e fuori: dentro, tra i labirinti della mente, fuori in un luogo senza tempo dove vivi e morti dialogano senza requie”.

 

Dal 28 novembre al 3 dicembre prossimi al teatro Carignano Clitennestra da “La casa dei nomi” di Colm Toibin

 

Teatro Carignano piazza Carignano 6

Orario degli spettacoli martedì giovedì e sabato ore 19.30; mercoledi e venerdì ore 20.45. Domenica ore 16.

 

Mara Martellotta

 

Rock jazz e dintorni a Torino: Madame e gli Elii, sold out in città

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

 

Lunedì. Al teatro Colosseo il concerto sold out di Madame. Al Mad Dog serata jazz con il Trio Monne che reinterpreta Jimi Hendrix.

 

Martedì. Prima delle due serate, sempre al teatro Colosseo, con la rentrée, anche in questo caso sold out, di Elio e le Storie Tese. Spostandosi al Duomo delle Ogr, fari accesi sul concerto di Daniela Pes, cantautrice esordiente premiata con la targa Tenco.

 

Mercoledì. Allo Ziggy il britannico Matt Elliott. Al Capodoglio dei Murazzi performance del Power4et di Fabio Giacalone. Al Blah Blah, glam e cabaret con le Piume di Morris.

 

Giovedì. Margherita Vicario al Concordia di Venaria; Venerussuona all’Hiroshima Mon Amour. Al Cap10100 tocca all’hip hop italiano di Dj Shocca, Mad Buddy ed Egreen. Al Capodoglio c’è la performance “Anima L” di Laura Messerklinger; al Magazzino sul Po il concerto del cantautore novarese Pit Coccato; allo Ziggy microfoni e luci sullo show di Michele Cosentino, in arte Antimusica.

 

Venerdì. Evento del Torino Film Festival: all’Edit Porto Ubanoconcerto del contrabbassista Kyle Eastwood, figlio del grande Clint, con un programma omaggio al cinema di suo padre. Al teatro Colosseo lo show della cover band Dire Straits Legacy. All’Off Topic suona Bluem, Fabrizio Cammarata al Jazz Club, Pino Forastiere al Folk Club.

 

Sabato. Al Pala Alpitour due maestri della scena musicale italiana, Francesco De Gregori ed Antonello Venditti. Emma suona al Cap10100; il metallaro Chris Holmes si esibisce al BlahBlah; al Magazzino sul Po microfoni e proscenio per Master BootRecord, Arottenbit, The Last Vinci e Daniele Brusaschetto.All’Off Topic la musica elettronica di Lorenzo Nada, akaGodblesscomputers. A Moncalieri (all’Audiodrome) la techno di Luke Slater; alla Sala Polivalente di Lauriano i francesi CyrilleBrotto e Stéphane Mallet. Al Music Circus di “Collisioni” (ad Alba) Nitro; al Magda Olivero di Saluzzo, recital di Giovanni Truppo.

 

Domenica. Emma in replica al Cap10100; i piacentini NotMoving LTD, leggenda del garage rock nazionale, al Blah Blah.

 

Pier Luigi Fuggetta