SPETTACOLI- Pagina 54

Waltzing with Brando, scritto e diretto da Bill Fishman, in anteprima mondiale al 42TFF

Il regista Bill Fishman e il protagonista Billy Zane presenteranno il film in anteprima mondiale al Torino Film Festival

Waltzing with Brando, scritto e diretto da Bill Fishman, sarà presentato in anteprima mondiale al 42TFF in occasione della cerimonia di premiazione di sabato 30 novembre. Insieme al regista, sarà presente il protagonista Billy Zane che interpreta, con una stupefacente e totale immedesimazione, l’iconica star Marlon Brando.
Il film, che si svolge principalmente tra il 1969 e il 1974, mentre Brando si prepara per i suoi memorabili ruoli ne Il Padrino e Ultimo tango a Parigi, è tratto dall’omonimo libro di memorie di Bernard Judge ed è interpretato, insieme a Zane, da Jon Heder (Napoleon Dynamite, Blades of Glory) con la partecipazione del Premio Oscar Richard Dreyfuss.
Uno dei titoli più attesi e richiesti nei mercati internazionali degli ultimi mesi, Waltzing with Brando segna l’epilogo ideale per il Torino Film Festival, che dedica proprio a Marlon Brando una grande retrospettiva per celebrare il centenario della sua nascita.
Billy Zane
Attore e doppiatore statunitense, dal suo esordio in Ritorno al futuro di Zemeckis ha preso parte a numerose pellicole di grande successo, come Ore 10: calma piatta al fianco di Nicole Kidman, Orlando con Tilda Swinton, Titanic nel ruolo del celebre antagonista, ai più recenti Samson e The Great War.
Bill Fishman
Regista indipendente, nella sua carriera ha diretto e prodotto numerosi film, titoli cult come Tapeheads e Car 54, oltre a pluripremiati video musicali. Tra le sue produzioni di maggiore rilievo: Posse, Underdogs, Odd Man Rush e Forgiveness.
Sinossi di Waltzing with Brando
La storia poco conosciuta e assolutamente vera che racconta di come Marlon Brando convinse l’architetto Bernard “Bernie” Judge che insieme avrebbero potuto costruire il primo rifugio ecologicamente perfetto del mondo su una minuscola e inabitabile isola di Tahiti. Brando credeva che questo grande esperimento ecologico avrebbe ispirato il mondo a un futuro migliore e più sostenibile. Così Bernie, il pratico risolutore di problemi, e Brando, il lunatico sognatore, iniziano un’incredibile avventura e lungo il percorso diventano improbabili amici. Ma questo sogno si realizzerà mai?

Al teatro Carignano l’omaggio di Paolo Fresu a Miles Davis

‘Kind of Miles’ è il titolo che Paolo Fresu ha voluto dare al concerto dedicato a Miles Davis, tratto dal capolavoro che il trombettista di Alton, in Missouri, compose nel 1959, “Kind of blue”.

Martedì 29 ottobre, alle ore 19,30, andrà in scena al teatro Carignano, con replica fino a domenica 3 novembre, “Kind of Miles’ interpretato da Paolo Fresu per la regia di Andrea Bernard. Lo spettacolo è un’opera musicale e teatrale che evoca l’universo creativo di Miles Davis. In scena con Fresu una formazione musicale composta da Bebo Ferra (chitarra elettrica), Dino Rubino ( pianoforte e Fender Rhodes electric piano), Marco Bardoscia (contrabbasso), Stefano Bagnoli (batteria), Christian Mayer (batteria), Filippo Vignato (trombone) e Federico Malaman ( basso elettrico).

‘Kind of Miles’ di Paolo Fresu è un’opera musicale e teatrale che evoca l’universo creativo e visionario dell’immenso musicista scomparso nel 1991. L’intento è quello di ricostruire la vita e la musica di un artista che ha segnato il Novecento attraverso la voce narrante di un unico attore/autore attraverso il suo universo sonoro e le sue relazioni artistiche e umane. La formazione musicale è composta da diverse personalità e strumenti, acustici e elettrici, che hanno segnato il suo percorso discografico e live sotto il profilo del suono e della ricerca.

Miles Davis è un artista mitico per antonomasia, un uomo capace di raccontare una storia recente che va al di là del jazz e della musica e la cui personalità marcata appare prepotentemente, non solo attraverso la sua tromba, ma anche negli occhi scavati e profondi e nel viso scavato degli ultimi anni che inchiodano lo sguardo e nelle mani rugose che hanno toccato il cuore. A noi del presente non ha solo lasciato un’icona, ma un soffio che è carezza e graffio. L’intento di ‘Kind of Miles’ è quello di ricostruire la vita e la musica di un artista che ha segnato il Novecento, attraverso la voce narrante di un unico autore/attore e attraverso il suo universo sonoro e le sue relazioni artistiche e umane.

Una scrittura intima puntellata da momenti personali di vita vissuta, soprattutto nel periodo dell’apprendistato del jazz tra gli anni Sessanta e i Settanta, la comparazione con l’alter ego Chet Baker, e da storie tratte dalla fiorente letteratura su Davis.

“Considerare Miles Davis un autentico genio – spiega Vittorio Albani nel Volume “La storia del jazz in 50 ritratti” è addirittura notazione superflua e sminuente. E può anche essere retorico affermare come la sua figura artistica sia autentica a di quelle che hanno segnato la storia tutta della musica moderna. Ma è pura verità. Chi lo conobbe da una platea o a una presentazione discografica lo ricorda come una persona scontrosa e asociale. Chi lo conobbe personalmente parla, invece, di una persona posata, gentile, matura, anche se insicura e forse proprio per questo molto diretta. Virtuoso del non virtuoso, nel corso di una carriera unica è riuscito a snocciolare l’enciclopedia dell’esecuzione totale, portando spesso la materia jazzistica oltre i suoi limiti, dando nobiltà alle pause e alla famosa “nota fantasma” che soltanto un creativo inventore può giungere a proferire.

Riuscì come nessun altro a evitare le classiche etichette e classificazioni, utilizzando sempre e comunque elementi stilistici differenti e incomparabili gli uni agli altri. La sua sonorità, in capolavori assoluti quali il modale ‘Kind of Blue’ ( uscito nel 1959 e per molti il miglior disco di jazz mai pubblicato), come in quelli successivi alla celebre “svolta elettrica” di “In a silent way” (1969) e ‘Bitches Brew’ (1970) è un marchio di fabbrica unico e forse irripetibile. Sia per lo stile trombettistsico puro, singolare molto personale, che per quello indiretto del suono elettrico filtrato, o anche per l’uso della sordina. Velato e incisivo, vigoroso e ricco di audacia, come il blues, che ha sempre permeato la sua anima e non lo ha mai abbandonato.

Nelle sue tante formazioni, spesso autentici laboratori di ricerca, sono passati quasi tutti i protagonisti del jazz moderno. Un giorno Miles Davis disse a Quincy Troupe “ Per me la musica e la vita sono una questione di stile”.

Info biglietteria

Teatro Carignano, piazza Carignano 6.

Orari degli spettacoli martedì giovedì e sabati ore 19.30, mercoledì e venerdì ore 20.45, domenica ore 16.

Mara Martellotta

I mostri e la Grande Bellezza della Napoli di Sorrentino

Il controverso “Parthenope” con Celeste Dalla Porta, bellissima e intrigante

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Si snoda, tra colori e zone d’ombra, l’arco pressoché intero della vita di Parthenope, nata nell’acqua del mare come la sirena che le ha dato il nome, quel mare azzurro (il primo nome che mi viene in mente, in questo inizio, è quello di Raffaele La Capria, e del suo “Ferito a morte”) che è nascita e vita ma che può anche accogliere il suicidio del fratello (un convincente Daniele Rienzo) della bellissima protagonista, innamorato di lei e geloso di quel Sandrino (Dario Aita) che con lei avrà il primo rapporto sessuale: in una mescolanza di consapevolezza della sconfitta e di gelosia, in uno sguardo convinto e convincente ai “Dreamers” di Bertolucci. “Pathenope” di Paolo Sorrentino, presentato a Cannes con esiti opposti, è favola e realtà, è elegia volta allo scorrere del tempo, un ampio mosaico che potrebbe non avere confini, luccicanti bellezze e un insieme di atrocità abnormi, un attraversamento dei gironi della città come attraverso la Roma della “Grande Bellezza” poteva passeggiare il disincanto di Jep Gampardella. Sotto gli sguardi di tutti (perché non ritrovarci dalle parti di “Malena” di Tornatore?), sotto il desiderio di tutti. Il sole, il mare, i panorami di luce a lungo ripresi ma non è la felicità perché “non si può essere felici nella città più bella del mondo”. “Parthenope” è il mistero, la giovinezza, anzi l’illusione della giovinezza, una giovinezza dove anche è venuto a mancare un abbraccio paterno, perché “è stato meraviglioso, ragazzi, è durato poco”, dirà la Parthenope matura di Stefania Sandrelli, che se n’è andata, scappata a fare la professora ordinaria a Trento, per poi ritornare, senza rimpianti, con un sorriso finale. Lungo i 138’ è passata più di una volta, al centro di una colonna sonora bellissima, “Era già tutto previsto” di Riccardo Cocciante.

Se prima avevamo visto – e preferito – con “È stata la mano di Dio” il Sorrentino più intimo e personale, adesso guardiamo al fuori, all’altro, a quel destino che ha continue giravolte e incontri, speranze e disillusioni, a volte ogni cosa fatta di vera commozione, tutta femminile. Lunga settant’anni e poco più, tra il 1950 e il ’73 per assaporare tutta la gioia dello scudetto al Napoli, dentro una trama che trama non è, come poteva essere “Roma” felliniana, una storia zigzagante che racconta amori giovanili, il nume di Achille Lauro – l’armatore, per carità, non il cantante! – che nel suo abito bianco regge un’intera città e sforna protezioni e lunghe tavolate e dona, direttamente da Versailles, una carrozza d’oro, che sarà letto per la principessa appena nata; la scelta universitaria poi degli studi d’antropologia (“l’antropologia è vedere” sarà la grande verità forgiata per lei dal mentore ormai pensionabile e in odore di tramandare la cattedra: e “vedere” è così difficile, troppo facile il “guardare”) interrotta momentaneamente da qualche press agent in avanscoperta che vorrebbe portarla sui sentieri del cinema, previa consultazione di una Isabella Ferrari da viso perennemente ricoperto, a nascondere un intervento non del tutto riuscito. Ed è anche: il corteggiamento da bordo di un elicottero di un giovane boss della camorra che prima ti offre frutti di mare per accompagnarti poi tra i vicoli di Rione Sanità a dispensare quattrini e a sbirciare tra i bassi, tra i cumuli di miseria, tra le donne sfatte e i femminielli in attesa, a far calar giù dai balconi certi azzurrati panierini (uno dei momenti più suggestivi del film) per essere riempiti, là dove dinanzi a quello che è un pubblico teatrino due ragazzi concepiranno il figlio che metterà pace tra due opposte famiglie.

Le feste nei grandi palazzi che sostituiscono la fragorosa terrazza romana della “Grande Bellezza” – e qui davvero di “grande bellezza” non ce n’è più, maggiore è il degrado, la corruzione, la nostalgia che prende a rotolare tra i vicoli, la povertà, la religiosità ostentata e camuffata; l’apparizione della grande attrice, che è emblema e cornice tutta della città, metti – certo non per assurdo – una Loren che ha le sembianze perfette di Luisa Ranieri, che dopo la zia Patrizia di “È stata la mano di Dio” diviene il cameo d’obbligo e insuperato del regista – nella sua grande parrucca posta a nascondere la calvizie, la sua parure di smeraldi, e la sua bocca che vomita roventi rimproveri e disillusioni (“ve ne andate a braccetto con l’orrore e non lo sapete, siete solo trasandati e folcloristici, con l’abitudine di piangervi addosso, sempre”), pagata con una miseria in luogo dell’assegno ben maggiore pattuito, ma con altro esito; è l’urticante religioso Tesorone che Beppe Lanzetta incarna, ripugnante nel proprio eros che alterna al miracolo di San Gennaro, in una celebrazione che accomuna superstizione e realtà e truffa, è il percorso universitario, composto e svolto sotto la guida del professor Marotta (altro aggancio a Napoli, un sempre più straordinario Silvio Orlando), l’unico dallo sguardo e dall’abbraccio innocente e disinteressato, portatore della tragedia di quel figlio mostro “fatto di acqua e sale”, biancastro, lattiginoso, un sorriso perso nell’enormità del corpo e nelle vene che gli si disegnano addosso, uno di quei “mostri” ancora una volta che Napoli genera. Forse anche qui una pagina che confina con il fellinismo, un essere informe arenato sulla spiaggia della “Dolce vita”.

È questo e altro ancora “Parthenope” di Sorrentino, nella splendida fotografia di Daria D’Antonio, il suo primo film al femminile, dallo e attraverso lo sguardo di una donna, un film spezzato nelle tante sue parti, che hanno è vero un centro nella protagonista ma che troppo spesso si sciolgono negli episodi che si susseguono, taluni scritti per poter vivere di vita propria, di poter correre a far parte di un altro film, episodi inconclusi di cui non si sente alcuna necessità, come potrebbe essere la presenza vuota di Gary Oldman e del suo poeta John Cheever. Mentre sono piene di luci cinefile le memorie cinematografiche (anche un piccolo omaggio a De Sica, con il funerale di Riccardo, prima che divampi il colera: ancora un mostro), convincenti certe annotazioni di costume, non soddisfano l’eccessivo ricorso al ralenti, il traboccare che è sempre in agguato, taluni vuoti di scrittura, le troppe frasi a effetto, la mancanza di quella trama che abbiamo capito a Sorrentino non interessa. Restano complete la bellezza e la bravura della protagonista Celeste Dalla Porta, intrigante ad ogni inquadratura, capace di sopportarla benissimo, di fronteggiare l’obiettivo con sicurezza, di porsi vestita dei gioielli del Tesoro o in striminzito bikini con la stessa padronanza di autentica attrice, sempre credibile nella costruzione del personaggio, che è ricco di ogni sfumatura e di una tangibile crescita. E allora, come Parthenope, in un rimando continuo, Sorrentino ci suggerisce Napoli bella e per molti impossibile, illusoria, frutto del caos, accogliente o da respingere: forse anche il cinema di Sorrentino è così. Però esci dal cinema e cominci a discuterne. Anche questo è il bello, l’amore convincente del Cinema.

La rilettura dei Marcido dell’Uomo sofferente di Dostoevskij

Al Teatro Marcidofilm! sino a giovedì 31 ottobre

Da stasera (repliche sino a giovedì 31 ottobre) “Memorie del sottosuolo” è riproposto e ancora una volta ripensato “sulla misura” del particolarissimo palcoscenico del Marcidofilm! di corso Brescia, insostituibile Paolo Oricco del ruolo del protagonista. Doverosamente “da” Dostoevskij. Ancora una volta riconfermando nel piccolo spazio come le pagine dell’immenso Dostoevskij sin dalla fondazione siano state un prepotente richiamo per il gruppo dei Marcido, un percorso vagamente sotterraneo che qui sfocia dal basso ed esplode, pagine che fuoriescono e si concretizzano visivamente, in tutto il loro “straordinario fascino drammatico”. Già in precedenza avevo visto come “c’è Dostoevskij e c’è l’Isidori, il secondo ad acchiappare, anche lui, – rutilante e famelico quanto spudorato autore in cerca di un personaggio, che non esita a farsi complementare nel desiderio e nella necessità di una riscrittura -, la materia scritta che il russo gli offre e adattarla alla filosofia e alla teatralità dei Marcido, stiparla in quel bagaglio di palcoscenico che da sempre il gruppo costruisce e disfa per poi ricostruire, in una lodevolissima sperimentazione, efficace e guerriera, che gli è da sempre riconosciuta, adeguarla al modointerpretativo che della compagnia è proprio. Conseguenza (felice) prima, è “un’oralità dispiegata, pietra angolare è la “voce, ricerca sempiterna del gruppo, cui è anche per questa occasione affidato il nucleo primario. E la voce’ è l’attoredice lIsidori: e lattore diventa voce, affascinante, spasmodica, mai ripiegata su se stessa ma esplosiva in ogni accento”.

La voce “è” Paolo Oricco, un successo tutto personale, un eccellente tour de force, una gimkana che attraversa il testo in pienissima libertà, in un saliscendi ininterrotto di vette e di profondità: “sarei propenso – ricordavo – a pensare che, questa volta, lattore con tutto il suo lavoro, orale e fisico, la sua negazione a risparmiarsi, il suo saper costruire un personaggio fuori di ogni dimensione, agghindato di ogni libertà interpretativa e arricchito della ricerca, e della riuscita, sulla sua propria voce, superi il testo e il non facile compito del co-autore, dellIsidori, affascinante, chi mai lo negherebbe?, ma affaticante al tempo stesso, ricco di una scelta finissima di parole che a tratti finiscono collaffastellarsi oltre ogni argine, debordanti in quel loro incessante rotolare in platea.”

Alle spalle di Oricco, la grande pala/sipario realizzata e rivisitata per l’occasione da Daniela Dal Cin, una vera opera pittorica ispirata al “Trionfo della Morte”, affresco quattrocentesco di Palazzo Abatellis a Palermo, grottesco e ossessivo, un livido marasma bruegeliano modernamente inteso, dove l’uccellaccio della preistoria viene a recidere vite con quei falcetti che tiene tra gli artigli.

Questo il primo appuntamento dei Marcido per la stagione. Dal 13 al 15 “Studio per le Baccanti”, anche qui – manco a dirlo – “da” Euripide, ancora una rappresentazione incaricata di portare in scena la pura partitura vocale, in vista – per i festeggiamenti del quarantennale della compagnia – della messinscena finale delle “Baccanti”, deus ex machina ancora l’Isi pirotecnico, dal 25 febbraio al Gobetti, coproduzione con la Fondazione del Teatro Stabile torinese. A seguire, dal 18 al 20 dicembre, la ripresa del “Malato immaginario” di Molière, autore studiato e inseguito, ripreso negli anni in buona compagnia di “Misantropo”, “Avaro”, “Tartufo” e “Borghese”.

e.rb.

Nelle immagini, Paolo Oricco in alcuni momenti dello spettacolo.

Teatro MARCIDOFILM! – Torino – corso Brescia 4/bis (int. 2)

orari recite: da lunedì a giovedì ore 20.45

ingresso: intero euro 20 / ridotto euro 15

info e prenotazioni: 011 8193522 – 329 9611663 (segreteria)

info.marcido@gmail.com

www.marcido.it

 

La bella addormentata

“Piazza Paradiso Cabaret” chiude con Andrea Agresti

 

Domenica 27 ottobre alle 18.30 – ingresso libero

Piazza Upim, Centro commerciale Piazza Paradiso (primo piano)

 

Domenica 27 ottobre, alle ore 18.30, presso il centro commerciale Piazza Paradiso di Collegno (piazza Bruno Trentin 1), va in scena l’ultimo spettacolo dell’edizione 2024 di “Piazza Paradiso Cabaret”.

 

Andrea Agresti, comico, presentatore, cantante ma soprattutto… Iena, si presenta al pubblico con la sua band nello spettacolo che unisce musica e cabaret “Sempre lo stesso show”.

 

Una serata in cui il pubblico ride fino alle lacrime e canta a squarciagola per un’esibizione nella quale Agresti – musicista dalle grandi doti canore – ripercorre i successi italiani degli anni ’70- ’80 – ‘90, in un mix di gag, risate e ritornelli cantati insieme al pubblico.

 

Non manca un momento che accompagna ogni spettacolo in cui Andrea coinvolge i presenti in un simpaticissimo quiz a tema “LE IENE”.

 

L’ingresso, come sempre, è gratuito; l’appuntamento sarà introdotto dal comico torinese Mauro Villata, “maestro di palco” della rassegna.

Il Centro Commerciale Piazza Paradiso nasce da un progetto di riqualificazione urbana di un ex complesso industriale e si compone di tre piani: uno interrato e destinato a parcheggi e due fuoriterra di galleria commerciale, con oltre 30 punti vendita. Al piano terra si trovano l’ipermercato, a insegna Ipercoop, e varie attività commerciali e di servizio quali Marionnaud, Vision Ottica, Kasanova, centro TIM, Max Battaglia Parrucchieri, Stroili Gioielli, (In)Estasy, Centro Wind 3, Yo Yogurt, Lavasecco, Sale e Tabacchi e NewDigital Foto. Il primo piano ospita esercizi commerciali (Pittarosso, Upim, Sottotono, Maison et Cadeaux, Unigross, Libreria Ubik, Jerry abbigliamento, il centro estetico Coralline), una food court (In Primis, Food Paradise, ODS Store, Amo Pokè e Caffè Vergnano), l’Area Playground per i bambini, il CinemaParadiso e il Centro Dentistico DentalPro.

A Chieri l’orchestra da Camera Polledro

Venerdì 25 ottobre, alle ore 21, presso l’Auditorium Leo Chiosso (ex sala Conceria) si esibirà l’orchestra da Camera Giovanni Battista Polledro, diretta dal maestro Federico Bisio nel programma “Il respiro della musica edizione seconda. Tosca e Carmen, due vite d’amore nel centenario pucciniano”.

Da Amilcare Ponchielli verrà eseguita la Danza delle ore da La Gioconda, trascrizione per ensemble di fiati di Tarkmann, da Giacomo Puccini una Tosca Fantasy, elaborazione di flauti di Mangani e di Georges Bizet la Carmen Suite, trascrizione per ensemble di flauti di Tarkmann.

Carmen è un’opera comique di Georges Bizet composta da quattro atti, definiti quadri dal compositore, su libretto di Henri Meilhanc e Ludovic Halevy. Tratta dalla novella omonima di Prosper Mérimée (1845), alla quale i librettisti apportarono delle varianti salienti, tra cui l’introduzione del personaggio di Micaela, diedero maggiore risalto alla figura di Escamillo e apportarono modifiche al carattere di don José. Bizet collaborò lui stesso al libretto, partecipando alla stasera della celebre habanera ” L’amour est un oiuseau rebelle”.

La prima rappresentazione avvenne all’Opera Comique di Parigi il 3 marzo 1875, inizialmente l’opera non riscosse molto successo, cosicché Bizet, morto appena tre mesi dopo la prima, non poté assaporarne la fortuna. L’opera irruppe nella seconda metà del XIX secolo come un lavoro innovativo , ma al tempo stesso riassuntivo di molti aspetti della tradizione operistica e ad essa compete il riconoscimento di capolavoro assoluto”.

Dal 1880 è stata una delle opere più eseguite ed è un classico del repertorio operistico, tanto da apparire al terzo posto sulla lista di Operabase delle opere più rappresentate al mondo.

 

Mara Martellotta

TFF: Mazzantini, Torre e Cescon alla guida delle giurie 

 

 

Saranno Margaret MazzantiniRoberta Torre e Michela Cescon a presiedere le tre giurie dei concorsi della nuova edizione del Torino Film Festival, rispettivamente, Lungometraggi, Documentari e Cortometraggi. Ad annunciarlo, insieme all’elenco di tutti gli altri prestigiosi giurati, è il Direttore Giulio Base.

I componenti delle tre giurie, ognuno con la propria competenza e autorevolezza, ben rappresentano il panorama culturale e cinematografico italiano e internazionale, con uno sguardo attento alle tradizioni della settima arte e al contempo aperto ai suoi nuovi linguaggi e declinazioni.

La giuria del Concorso Lungometraggi è composta dalla presidente Margaret Mazzantini, scrittrice, drammaturga e sceneggiatrice, vincitrice per le sue opere dei più prestigiosi premi letterari, come il Premio Strega per Non ti muovere, il Premio Campiello per Venuto al mondo e il Premio Flaiano per Nessuno si salva da solo. Al suo fianco ci sono: il regista macedone Milcho Manchevski, Leone d’oro a Venezia per il suo film Prima della pioggia, candidato anche agli Oscar per il miglior film in lingua straniera; l’attrice francese Anne Parillaud, conosciuta a livello internazionale per le sue iconiche interpretazioni in film come Nikita di Luc Besson e Una per tutte di Claude Lelouch; Giovanni Spagnoletti, critico cinematografico, ha ricoperto il ruolo di professore di “Storia e critica del Cinema” all’Università “Tor Vergata” di Roma, è autore e/o curatore di quasi cento pubblicazioni di ambito cinematografico e direttore della rivista di studi cinematografici e web-magazine Close upKrzysztof Zanussi, uno degli autori più significativi del cinema polacco, regista e sceneggiatore di opere come La struttura di cristallo (1969), Illuminazione (1973), La costante (1980), L’anno del sole quieto (1984) e Perfect Number (2022).

Il Concorso Documentari è presieduto da Roberta Torre, regista di documentari, film di finzione e musical, oltre che regista teatrale, vincitrice di svariati David di Donatello e Nastri d’Argento con i titoli Tano da morire (1997), Angela (2002), Mare nero (2006) I baci mai dati (2010), Riccardo va all’Inferno (2017), Mi fanno male i capelli (2023). Insieme a lei: la cineasta americana KD Davison, che con il suo Fragments of Paradise ha vinto il Premio al miglior documentario sul cinema nella sezione Venezia Classici della 79ª Mostra del Cinema di Venezia e il Grand Jury Prize al Doc NYC; Federico Gironi, giornalista, autore, critico cinematografico e co-curatore della sezione Venezia Classici della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

A presiedere il Concorso Cortometraggi è l’attrice Michela Cescon, vincitrice del David di Donatello e il Nastro d’Argento per Romanzo di una strage e candidata per i film Primo amoreL’aria salata Piuma, che ha esordito alla regia nel 2021 con Occhi blu. In giuria: l’attore serbo Darko Perić, che dopo il successo internazionale con La casa di carta, ha preso parte a pellicole come La versione di Giuda e La morte ci divide; e l’attore Nicola Nocella, vincitore del Nastro d’Argento come migliore attore esordiente per Il figlio più piccolo di Pupi Avati e come migliore attore protagonista per il cortometraggio Omero bello-di-nonna.

Il Torino Film Festival è realizzato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino e si svolge con il contributo del Ministero della Cultura Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, Regione Piemonte, Città di Torino, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT.

“Megalopolis”, una scommessa (persa) lunga quarant’anni

Sugli schermi il controverso ultimo film di Francis Ford Coppola

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Era la metà degli anni Settanta e lui era alle prese con il napalm e i grandi incendi e le musiche wagneriane di “Apocalipse now”: è già schizzava disegni, prendeva appunti, annotava abbozzi, inventava grumi d’episodi, prendeva a organizzare questa grande ossessione e questa “favola”, come oggi suona sullo schermo, che affonda le proprie radici non soltanto nelle pagine di Svetonio con il suo “De coniuratione” ma altresì nella “Vita futura” di Wells (1930), una fantascienza lunga un secolo a venire. Uno script in bozzolo ci fu a coinvolgere, nelle prime letture – ed eravamo nell’estate del 2001, De Niro e Paul Newman e DiCaprio tra gli altri: ma poi furono le Torri Gemelle, la distruzione e la visione di un altro mondo, l’affacciarsi di una nuova Storia, nazioni che non sarebbero più state le stesse, non era più concepibile immergere New York in un’epoca di rovina al di là dell’immane tragedia.


Ma l’ossessione continuava a essere un’ossessione, le idee restavano, quello che la tragedia aveva interrotto l’avrebbe fatto rinascere (!) la pandemia, al suo indomani e il progetto avrebbe finalmente preso il largo nel mare immenso e folle del cinema di Francis Ford Coppola, capace anche di metterci 120 milioni di un personale patrimonio, pur di avere una libertà assoluta in ogni momento dell’operazione, magari privandosi di gran parte della fiorente industria vinicola di Napa Valley pur di veder realizzato questo “sogno” lungo non certo un solo giorno ma più di quarant’anni.

A tredici anni dall’ultimo “Twixt”, oggi nel (poco) bene e nel (tanto) male “Megalopolis” è sullo schermo, controverso e ignorato sin dalla giuria di Cannes e “recuperato” in festosissima anteprima e omaggi al Maestro alla Festa del Cinema di Roma. Laddove la Roma imperiale, corrotta, dissoluta, priva di qualsiasi freno morale e di costumi, quella che sta a grandi passi scivolando verso il proprio tramonto, invasioni e no a decifrarne il tracollo, è paragonata alla New York di un presente e di un prossimo futuro, in uno sguardo architettonico grandioso e non poche volte kitsch che ben le accomuna. Al centro, l’allampanato architetto Adam Driver – che altri non è se non l’alter ego dell’autore, la mano e l’intelletto demiurgici che tutto governano -, che di nome fa Cesare Catilina, l’ordine e la rivoluzione allo stesso tempo, che progetta in piena enfasi nuove costruzioni e al ralenti assiste alla distruzione dinamitata di quelle vecchie (ricostruiamo l’America tutta dalle proprie macerie, e forgiamo una nuova umanità che avrà sempre i suoi peccatucci ma profumerà almeno di nuovo e di fresco? o possiamo ampliare quell’utopia allo stesso Cinema, in un ultimo scatto di prepotente megalomania?) e che è capace con uno schiocco di dita di fermare il tempo e di guardare con esso allo spazio come a una componente dello spirito, padroni entrambi di se stessi: dopo essersi aggiudicato il Nobel per l’invenzione del “megalon” che del cemento armato se la ride e che è altrettanto capace di ricostruire volti umani devastati. Al suo opposto, il sindaco Giancarlo Esposito, che di nome fa Frankie Cicerone, rappresentante estremo dell’ordine costituito e del Grande Capitalismo, intrallazzato con chiunque e per qualunque cosa sino all’orlo dei capelli, per il quale la città che vede davanti ai suoi occhi non ha nessuna necessità di cambiar d’abito. In mezzo, tra i due contendenti, Nathalie Emmanuel, la Giulia che è prole della massima autorità, che cade d’amore per l’artefice ed è rimescolata tutta per i dubbi e il rispetto che deve al padre. Trama semplice semplicissima, che più non si potrebbe, perché poi il nocciolo sta tutto lì. Trattata male malissimo.

In un bailamme decostruito, che pare sia andato al cinema un paio d’anni fa a vedere l’orribile o ormai del tutto dimenticato “Babylon” di Damien Chazelle, in un’arroganza cinematografica rara, in un racconto che non poche volte scivola a occhi ormai chiusi nella noia, in un tripudio di tinte fosche che “Dracula” al suo confronto era il tripudio della luce (ma è innegabilmente interessante la fotografia di Mihai Mâlaimare jr, come non si può restare indifferenti all’immenso lavoro scenografico della coppia Beth Mickle/Bradley Rubin), Coppola gioca alla realtà e guarda mentre stancamente scommette sulla fantasia.

Mette, il Coppola arrivato agli ottantacinque anni, nel gran calderone il bagaglio dell’autostima (consolandosi che in passato anche altre sue opere sono state schiacciate e oggi rivivono di piena rivalutazione) e le citazioni che coinvolgono anche la famiglia (quelle tre damigelle che spuntano dal nulla, a chiacchierare di tutto e di niente, agghindate in costumi settecenteschi, non sono forse l’omaggio di un padre alla “Marie Antoinette” della figlia Sofia?), i rimandi letterari, alti e altissimi, che abbracciano non soltanto il pallido principe di Elsinore ma pure Marco Aurelio e Saffo, le innovazioni tecnologiche e l’artificio visivo che ci mostrano Driver svolazzante o con un piede poggiante nel vuoto, messo lui sulla cima del Chrysler che sembra essere il punto onnipresente della Grande Mela, le frasi a effetto che una volta le prendi sul serio e l’altra ti sembrano sfiorare il ridicolo, tutto annacquato in un clima falsamente teatrale, vecchiamente roboante, declamatorio. In più occasioni si rasenta il delirio da parte di colui che nonostante tutto rimane un Maestro, offensivo quasi nella spudoratezza del suo Cinema: nella costruzione intera, nei colori “sballati” che amano virare al giallo imperituro, all’andamento traballante e forse consapevole dell’operazione (perché credo che la dica lunga la scena in cui un gruppetto degli attori coinvolti visita l’embrione della nuova città che ancora poggia su assi di passaggio, tenute in piedi da funi chissà quanto resistenti), negli eccessi che circolano ad ogni fotogramma, alla cavalcata (con la stanchezza che si porta appresso) senza un attimo di sosta. Il trovare, continuo, mezzi d’espressione, il gioco che non è al servizio della storia ma della persona, l’”épater le bourgeois” instancabile che va comunque al di là di ogni scrittura per lo/dello schermo ma che fa comunque ripensare a quel che doveva apparire allo spettatore di fine Ottocento la sfida di un Méliès, con quel grande bastone ficcato lì, nell’occhio della luna.

Alla fine, mai così politicamente corretto, il grande costruttore si pone alla guida e al servizio delle folle che reclamano e trova altresì il tempo di stringere la mano al sindaco, tutto è ricomposto, un bebé che vedrà chissà quali futuri è già nelle braccia di maman mentre la nonna si spertica in truccatissimi sorrisi… Con un’ultima frase Coppola dedica “Megalopolis” alla moglie Eleonor, scomparsa l’aprile scorso, ancora un omaggio familiare e un ricordo a chi gli è stato sempre accanto. “Megalopolis” è di certo un prendere o lasciare, amare in tutto il suo avanzare tronfio o odiare, caricare di ogni difetto (innegabile qualcuno, al di là di qualsiasi “giudizio”, leggi in primis la sceneggiatura che nella propria vuotaggine fa acqua da ogni parte) o assolvere nel pensiero della grandezza assennata (?) che fu o nella convinzione che quella “grandeur” Coppola non l’abbandonerà mai. Gli auguriamo lunga lunghissima vita (ancora), ma ci spiacerebbe davvero se “Megalopolis” fosse il suo canto del cigno. Un po’ afono, incerto, traballante, ansimante nel vuoto pressoché completo.

Con Agis Piemonte Cinema al Cinema, terza edizione

 

 

Agis Piemonte Valle d’Aosta, grazie al sostegno della Regione Piemonte, prosegue il percorso di valorizzazione delle sale cinematografiche con attività rivolte al pubblico, alle scuole, agli studenti universitari e agli esercenti.

Giunge alla sua terza edizione il progetto di Agis Piemonte Valle d’Aosta “ Cinema al cinema, le sale del futuro per gli spettatori di domani” che mette al centro delle azioni progettuali le sale cinematografiche.

Nella sede di Fiom Commission Torino Piemonte sono state premiate le sei sale piemontesi che nella seconda edizione di Cinema al Cinema per famiglie hanno raggiunto i migliori risultati di presenza in sala.

Tra le sale Anec (Associazione nazionale esercenti di cinema) il primo premio è andato al Vittoria di Bra, il secondo al Margherita di Cuorgnè, il terzo all’Italia Movie Planet di Vercelli e tra quelle Acec (Associazione cattolica esercenti cinema) il Monterosa di Torino al primo posto, il Lumiere di Asti al secondo e al terzo l’Aurora di Sivigliano.

Per la terza edizione di Cinema al Cinema per famiglie saranno 140 le proiezioni di titoli per tutti, sempre con un biglietto a costo promozionale di 3.50 euro, che si svolgeranno nei weekend a partire da sabato 26 ottobre fino ad aprile 2025 nel circuito di 35 sale cinematografiche piemontesi. Gli esercenti potranno selezionare i titoli da proporre al loro pubblico da un catalogo di oltre 100 titoli che spaziano dai grandi classici dell’animazione a importanti film di recente uscita. Come nelle passate edizioni Cinema al cinema si articola in azioni che coinvolgono differenti destinatari, esercenti cinematografici, istituti scolastici di ogni ordine e appuntamenti per il pubblico torinese e piemontese.

‘Per Agis il bilancio di queste prime due edizioni è sicuramente positivo, la dimostrazione è che il pubblico della seconda edizione è quasi raddoppiato – afferma Luigi Boggio, presidente di Agis Piemonte e Valle d’Aosta. Poter contare su una prospettiva di più largo respiro, in questo caso triennale, consente di ideare modelli che si implementano anno dopo anno grazie ai risultati concreti raggiunti. È motivo di orgoglio per Agis far parte, grazie alla Regione Piemonte, che ha emanato il bando di valorizzazione delle sale cinematografiche, di un’azione di sistema che, di fatto, coinvolge la filiera nel suo insieme a livello nazionale”.

Mara Martellotta