SPETTACOLI- Pagina 2

Prato Nevoso accende l’inverno con l’Open Season più lungo di sempre

Sabato 6 e domenica 7 dicembre grandi show musicali, sci e divertimento a sostegno della Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro e dell’Istituto di Candiolo IRCCS. Tra gli ospiti Fred De Palma.

Prato Nevoso si appresta a inaugurare ufficialmente la stagione invernale 2025/2026 con l’Open Season, il grande show che quest’anno si rinnova e si allunga, rendendo l’intero weekend del 6 e 7 dicembre una imperdibile “due giorni” sulla neve, che unisce musica, sci, spettacolo e solidarietà. Si comincerà alle 10 di sabato 6 dicembre con l’Open Season Village, una giornata di festa a Prato Nevoso Village, ricca di soprese anche per i più piccoli, che si concluderà sul palco centrale allestito in Conca. A seguire, dalle 18, a Stalle Lunghe, andrà in scena un imperdibile dj set, mentre alle 20 tornerà l’iniziativa benefica “Un notturno per Candiolo”. L’intero ricavato della vendita di Ski Pass per lo sci notturno sarà devoluto alla Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro. Il tutto, a l’ardire dalle 21, sarà accompagnato dallo show musicale “Prato Nevoso in Wonderland”, animato da Alo Vox.

Domenica 7 dicembre Prato Nevoso vivrà una notte unica, e mai vista prima, impreziosita dalla presenza di Sarah Castellana, giornalista di Sky Sport e TV8, aperta dalle note del dj set con Alo Vox. Successivamente sarà la volta di Fred De Palma, rapper che ha collezionato oltre trenta dischi di platino, e protagonista di una carriera costellata di successi e collaborazioni internazionali. Tra i suoi brani più celebri figurano “Una volta ancora”, “Extasy” e “D’estate non vale”. La festa proseguirà quindi con il dj set di Albert Marzinotto. L’ingresso all’evento del 7 dicembre, per ragioni di sicurezza e ordine pubblico, sarà a numero chiuso, fino a esaurimento posti. I biglietti sono in vendita sul sito di Ticketone, al costo di 10 euro. Una cifra simbolica, capace però di tramutarsi in concreta speranza. L’incasso sarà infatti devoluto alla Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro, confermando la solita “charity partnership”, che lega Prato Nevoso a un’iniziativa dall’importante valore sociale, che mira a sostenere l’attività di cura e ricerca dell’Istituto di Candiolo.

“L’Open Season è un’occasione per dimostrare che anche la passione per la montagna può trasformarsi in solidarietà – afferma Alberto Oliva, amministratore di Prato Nevoso Spa – con soli 10 euro si può assistere a una serata straordinaria e contribuire a una causa per chi lotta quotidianamente contro il cancro. È un gesto minimo, ma dal valore enorme. Bastano pochi euro per fare la differenza”.

Peraltro l’Open Season rappresenta da sempre il semaforo verde per la stagione sciistica a Prato Nevoso, tuttavia laddove nelle settimane antecedenti si manifestassero condizioni meteorologiche favorevoli, l’apertura sarà anticipata. Ogni informazione sarà diffusa mediante i canali social di Prato Nevoso Ski (Instagram, Facebook, Tik Tok) e il sito www.pratonevoso.com.

Mara Martellotta

Lingotto Musica: Pierre-Laurent Aimard sostituisce Maria Joào Pires

La pianista Maria Joào Pires annuncia il ritiro dalle scene. Il maestro Pierre-Laurent Aimard la sostituirà nel concerto di Lingotto Musica del 27 gennaio 2026 con la Camerata Salzburg diretta dal suo violino concertatore Giovanni Guzzo. Il programma prevede l’esecuzione dell’Ouverture da L’anima del filosofo di Haydn. A seguire il Concerto n. 27 per pianoforte e Orchestra e i Minuetti KV 599 n. 1,2,5 e 6 di Mozart. In chiusura al posto della sinfonia n. 5 di Schubert, verrà eseguito sempre di Mozart il concerto per pianoforte e orchestra n. 17. I biglietti e gli abbonamenti già acquistati mantengono la loro validità.

Pier Luigi Fuggetta

“Ritorno a casa”, non sembra nemmeno Pinter, piuttosto una farsaccia

Sino al 16 novembre al Carignano, per la stagione dello Stabile torinese

È con fatica che si tenta di far propria quelle due parole, “recitazione trattenuta”, che sono citate nel foglio di sala, posto in bella vista a spiegare l’”Homecoming” pinteriano messo in scena e interpretato da Massimo Popolizio per il Teatro di Roma con la collaborazione e l’aiuto di altri lodevoli enti e compagnie teatrali. Difficile da mandar giù e digerire quel che – pur ancorato (con qualche digressione) al testo originale – vediamo svolgersi sulla scena, nell’ambientazione rosso fuoco di Maurizio Balò, un grande spazio – definito, nel suddetto mezzo, “claustrofobico” – che si vorrebbe d’accoglienza, una grande specchiera e il ritratto di Sua Maestà ai lati, sedie disseminate – di grande richiamo quella del padrone di casa in primo piano – e tavolo sul fondo, un frigo e una radio, una ampia scala che sale al piano alto. È l’apparizione notturna a Teddy e Ruth, professore di filosofia lui in qualche università d’America, affezionato e remissivo, lei bionda, abiti aderenti, un passato di modella – o qualcosa che gli somiglia -, sposati da sei anni, tre figli lasciati a casa, viaggio europeo e tappa a Venezia e poi un salto da papà Max, ex macellaio volgare e autoritario, e fratelli (Lenny incallito erotomane e magari ruffiano, e Joey, aspirante pugile), e zio Sam assai portato per le arti culinarie – la congrega tutta al maschile, tasso di libertà e linguaggio scurrile e ars amatoria e testosterone alle stelle, sistema patriarcale incluso e sbandierato, che abita lì – per far conoscere la sposina di cui nessuno è a conoscenza. Sorpresa sorpresa! e accoglienza che non ha proprio le radici nel bon ton, ai maschi non pare vero d’avere d’ora in poi una femmina a “pieno” servizio, lavaggio stiraggio e tutto il resto compreso: con il doppio panorama del finale, la dipartita di Teddy che accetta la situazione e la mutazione assoluta di Ruth, non più fragile e pronta a dire sì ma la donna manager che tutto dispone, di piena autorità, provocante, letteralmente spiazzante nel suo completo afferrare le redini, sino a farsi estremamente disponibile, oltre le mura domestiche (potrà mantenersi da sola e porterà a casa anche qualche sterlina), ed eccellente ballerina di lap dance.

Deve aver scombussolato mica male gli animi e gli stomaci degli impettiti inglese il trentacinquenne Harold Pinter quando nel giugno del ’65 all’Aldwych Theatre presentò “Il ritorno a casa”, l’ultima delle sue “commedie della minaccia”, riversandovi battute secche e silenzi che dicono più delle parole, la crudeltà che serpeggia tra i personaggi e la voglia di primeggiare, anche con la violenza, l’uno sull’altro, non ultimo il padre, le rivalità che deflagrano, il vivere quotidiano che si fa lotta, inquietudini, rozzezza, voglia di emergere all’unico scopo di annientare gli altri. Ma quei silenzi non paiono interessare granché a Popolizio (altresì diversamente giovane in quel giubbino giallo occhiali e cappellino, gigione di prim’ordine, confezionatore di definizioni spicce per chi gli sta accanto – “frocio” per il fratello – o gli è stato – “puttana” per la moglie), lui ci gioca per riempirli di grandi movimenti, di quelli che alleggeriscono quando dovrebbero scendere più in profondità, cadendo nel grottesco e nel volgare, nel gratuito soprattutto, nell’assolutamente fuoviante (il fine è l’acchiappapubblico?): lavorando soprattutto sul Lenny di Christian La Rosa, bravissimo per carità, che si dimena, che sale e scende da quella dormeuse rossa e sbrindellata, che usa la voce alterandola e alternandola a falsetti e smorfie e sberleffi, quasi un Jim Carrey piombato dalla old London sul palcoscenico del Carignano, che sbatte in faccia allo spettatore la sua zazzera giallognola, ma Pinter non ci risulta questo, portato sulla strada della farsa (sospiri e gridolini a gogò disseminati per la scena), dove l’umorismo nero prende la faccia della risata grassa. Deborda Popolizio, anche la sopraffazione che circola tra gli umani e attraverso le stanze della casa non si fa commedia nera ma risata inconcludente. Ha lavorato anche sulla Ruth di Giorgia Solari, senza obbligarla a uscire da certe linee d’obbligo, il personaggio cresce con senno a poco a poco lungo l’intero arco dei 100 minuti, dalla semplice ragazza della porta (americana) accanto per farsi oggetto sessuale che sa come far girare il mondo.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Claudia Pajewski alcuni momenti dello spettacolo.

L’Orchestra Filarmonica di Torino accende i riflettori su Officina

Il 14 novembre prossimo la rassegna di musica da camera “Officina”, nel corso della quale giovani musicisti di talento animano il palco di Cascina Roccafranca, prevede un nuovo concerto. L’Orchestra Filarmonica di Torino accende i riflettori su “Officina”, che rappresenta uno degli orizzonti più dinamici e sperimentali del suo percorso artistico. Nata come naturale del progetto OFT Lab, “Officina” si propone oggi non più come semplice laboratorio, ma come una sorta di crocevia creativo, in cui la musica diventa terreno di scambio tra generazioni, stili, repertori e linguaggi. In questo spazio, in continua trasformazione, giovani interpreti e compositori si incontrano per dar vita a otto appuntamenti che, da ottobre a dicembre, il venerdì, alternando concerti pomeridiani e serali, animeranno il palcoscenico di Cascina Roccafranca, in via Rubino 45, la casa del quartiere di Mirafiori Nord che ospita l’iniziativa. Il programma di “Officina” intreccia classico, contemporaneo e jazz, con un’attenzione particolare alla nuova musica. Ogni concerto include una prima assoluta, commissionata a otto compositori emergenti provenienti dal Conservatorio Giovan Battista Martini di Bologna. Il 14 novembre sarà protagonista, in collaborazione con il Conservatorio Verdi di Torino, il quartetto Ipazia, composto da Mei Harabe e Samuele Leo ai violini, Fiamma Kamenchtchik alla viola e Elena Cavecchi al violoncello. I giovani musicisti proporranno il Quartetto op.18 n.1 in fa maggiore di Beethoven, il Quartetto in mi minore per archi di Giuseppe Verdi e il brano “Washi no yaiba”, di William Succi, classe 1995, in prima esecuzione assoluta.

“’Washi no yaiba’, che si traduce come ‘lame di carta’, è un brano per quartetto d’archi ispirato alla leggerezza del Washi, la tradizionale carta giapponese – ha dichiarato William Succi – qui immaginata come una lama sottile e affilata. La scrittura agile è tagliente degli archi richiama il gesto rapido e controllato del taglio, intrecciandosi con sonorità e armonie della musica giapponese contemporanea”.

L’appuntamento successivo sarà il 21 novembre alle ore 21, con il violino di Giulia Dainese e il pianoforte di Giorgia De Lorenzi, che proporranno brani di Beethoven, Amy Beach e la nuova pagina di Filippo Paris.

Biglietti: ingresso unico 5 euro – acquistabili presso la biglietteria dell’OFT, in via XX Settembre 58, Torino – oppure via mail a biglietteria@oft.it – 011 533387

Mara Martellotta

OFF Topic, “La più grande tragedia dell’umanità”

Per Iperspazi, la stagione 2025-2026 di Fertili Terreni Teatro , presso Off Topic, mercoledì 19 e giovedi 20 novembre alle ore 21 andrà in scena “La più grande tragedia dell’umanità”, uno spettacolo produzione Malmadur e Evoè! Teatro con i performer David Angeli e Theresa Maria Schlichtherle. Si tratta di un gioco di ruolo teatrale, adatto ad un pubblico di età superiore ai 14 anni, o, se si preferisce chiamato a decidere ed indirizzare il corso del racconto, “La più grande tragedia dell’umanità”,  presenta un meccanismo tanto spiazzante quanto in apparenza articolato , un impianto performativo in cui il pubblico è chiamato a dover scegliere tra due tragedie. Quella che viene votata come più grande rimane in gioco, per poi confrontarsi subito dopo con una nuova tragedia, mentre l’altra viene scartata.
Si tratta di una struttura ad eliminazione diretta, come si direbbe nel gergo sportivo , dove per alcune votazioni possono avere diritto di voto solo gli spettatori che hanno  vissuto la tragedia esaminata, per altre possono averlo solo gli spettatori  che non l’hanno vissuta, per altre ancora solo un numero  limitato di presenti.
Le tragedie oggetto di analisi e votazione verteranno su vari casi, dalla perdita di un cellulare a un amore tradito, da un parente malato a un’epidemia, passando per un genocidio come per l’esplosione del sole, ovvero la morte di un uomo solo in un paese di provincia, e molto altro ancora.
Il progetto originario ruota intorno a due temi principali, la spettacolarizzazione del dolore che viviamo quotidianamente su media e social network e la rappresentabilità del tragico.
Le tragedie da votare sono di volta in volta  portate in scena attraverso linguaggi espressivi, dalla recitazione alla musica, dalle immagini video ai documenti storici. Il numero complessivo delle stesse, sia che interessino  eventi storici o piccoli fatti privati, grandi personaggi o gente sconosciuta, sarà sconosciuto agli spettatori. A seconda del momento saranno presentate in un ordine stabilito o estratte a sorte. Il comune denominatore è sempre il diretto coinvolgimento con il pubblico, il mostrare il legame più stretto tra media e dolore, tra il fatto e i filtri attraverso cui siamo abituati a guardarlo. ”La più grande tragedia dell’umanità” rappresenta un impianto in continua evoluzione, work in  progress teatrale pronto a mutare a seconda del luogo in cui viene messo in scena e del tempo che vivono gli spettatori. Essa ri-crea e ri-scrive la realtà attraverso concetti universali  come la tragedia e il dolore, ammettendo di uscire sconfitto  da un eventuale confronto con la società che spettacolarizza il dolore. All’interno di un meccanismo-gioco l’obiettivo finale è  quello di turbare le coscienze, elencando le tragedie del quotidiano, mettendolo l’una con l’altra in competizione fra loro, tra serio e faceto, azzardando l’impossibile paragone tra dolori.
Il biglietto unico intero ha il costo di 13 euro se acquistato online, di 15 euro in cassa la sera dell’evento.
Resta la possibilità di lasciare il biglietto sospeso , tramite donazione online o con satispay, e di entrare gratuitamente per alcuni under 35 grazie ai biglietti messi a disposizione attraverso la collaborazione di Torino Giovani.
I biglietti si possono acquistare online sul sito www.fertiliterreniteatro.com

Mara Martellotta

Musical a Corte a Stupinigi: Wicked Musical

La storia delle streghe di Oz rappresenta un trionfo di Broadway, con musiche e liriche di valore straordinario del veterano Stephen Schwartz, capaci di mescolare il pop contemporaneo alla teatralità classica.

Domenica 16 novembre alle ore 19 si terrà un musical a corte alla Palazzina di Caccia di Stupinigi, dal titolo Wicked Musical , basato sul romanzo di Gregory Maguire  che racconta gli eventi precedenti al classico “Il Mago di Oz”.
Brani iconici come Defying Gravity, con le sue potenti note acute che sfidano la gravità, proprio come il personaggio di Elphaba, e Popular, sciocca e ironica, riflettono perfettamente le personalità contrastanti delle protagoniste. Altri brani memorabili includono l’intenso duetto “For Good” e la complessa No Good Deed, che mostrano la profondità emotiva e la versatilità  vocale richieste dalle interpreti. La musica di Wiched non è solo un  accompagnamento della storia, ma un elemento narrativo essenziale capace di guidare lo spettatore attraverso la trasformazione dei personaggi, creando momenti di intensa drammaticità combinati a sequenze più  leggere e dando vita a un’esperienza teatrale e cinematografica indimenticabile.

Musical a Corte

Salone d’Onore della Palazzina di Caccia di Stupinigi

Nichelino (Torino)

Wicked Musical

Info 0116279789

biglietteria@teatrosuperga.it

Mara Martellotta

“Arpagone” in scena al teatro Baretti

La stagione 2025-2026 del teatro Baretti, intitolata “Aurea Familia”, porterà in scena giovedì 20 alle ore 21, e venerdì 21 novembre alle ore 20, “Arpagone”, il nuovo e provocatorio spettacolo di Michele Santeramo, pluripremiato drammaturgo e regista che interpreta e reinventa la celebre figura di Moliére in una satira feroce sull’avidità e il valore della vita umana. I sette attori e attrici del territorio piemontese selezionati tramite call pubblica, Elena Aimone, Andrea Gaia Bosio, Christian Di Filippo, Elisa Galvagno, Francesco Gargiulo, Noemi Grasso e Jacopo Massara saranno protagonisti e testimoni in scena di una residenza-laboratorio intensiva, sotto la regia dello stesso Michele Santeramo. In questa riscrittura audace, Arpagone non si limita ad accumulare denaro, traffica in esseri umani e vende bambini nati in zone di guerra a coppie occidentali facoltose, con la promessa di un futuro migliore per tutti. È una commedia che tratta i temi delle adozioni illegali, del traffico di bambini, del desiderio di maternità e paternità, oltre alla crisi morale della società contemporanea. Il pubblico è invitato a immergersi nel soggiorno di Arpagone, coinvolto emotivamente e posto di fronte a scelte etiche sconvolgenti, tra responsabilità, amori, affari e tragedia. La storia si sviluppa in una trama avvincente che mette a nudo sogni, laure e contraddizioni umane tra trattative d’adozione, la richiesta estrema di un trapianto e il valore della vita umana. Arpagone interrogherà il pubblico chiedendogli: “Se fosse tuo figlio ad avere bisogno di un cuore, non lo strapperesti a mani nude dal corpo di un altro?”. Lo spettacolo mescola ironia tagliente e riflessione sociale, invitando gli spettatori a prendere parte attiva e consapevole al dibattito sul valore della vita. Lo spettacolo “Arpagone” è un viaggio nel cuore delle contraddizioni moderne, capace di unire il pubblico e gli artisti intorno alle domande fondamentali su giustizia, denaro, amore e responsabilità. Lo spettacolo fa parte degli appuntamenti “Come ali sulle radici”, progetto artistico e umano che unisce teatro e comunità, mettendo al centro la persona e le relazioni, realizzato nell’ambito di “Torino che spettacolo!”

Info e biglietti sul sito www.cineteatrobaretti.it
Cineteatro Baretti: via Baretti 4, Torino – 011 655187

Mara Martellotta

Il ratto del serraglio: rapiti dall’orchestra, non dalla regia

Di Renato Verga

Mozart, il più inafferrabile tra i genî, torna al Regio di Torino con Il ratto dal serraglio, opera che incarna perfettamente la sua doppia natura: musica che ride mentre riflette, scherza mentre sonda gli abissi dell’animo, si pavoneggia con le percussioni “turche” mentre cesella affetti d’alta scuola. La definizione di “inafferrabile” è quanto mai appropriata per un Singspiel che vive di contrasti,
praticando un funambolismo stilistico che mescola virtuosismo vocale, comicità tagliente e introspezione psicologica. La vicenda, tratta dal libretto di Gottlieb Stephanie il Giovane, fiorisce nel pieno della moda delle turcherie. Nel 1782 Mozart, appena liberatosi dal giogo dell’arcivescovo Colloredo, approda a Vienna e si concede tutti i piaceri dell’esotismo musicale: fanfare di giannizzeri, tamburi, triangoli, campanelli e un imperatore che borbotta «Troppe note», ricevendo la più lapidaria delle risposte: «Giusto quanto basta». Dopo un periodo di fortuna, l’opera quasi scompare dai radar italiani: troppa leggerezza per il nuovo gusto romantico, troppo audace quel gioco di sentimenti a doppia faccia. Bisogna attendere il Novecento perché Il ratto torni a mostrarsi in scena, e lentamente anche Torino accumula i suoi ricordi: Luigi Alva Belmont negli anni ’70, William Matteuzzi Pedrillo negli ’80, Livermore regista nel 2006. E ora, l’allestimento che arriva da Versailles, dove Michel Fau aveva creato uno spettacolo filologicamente barocco nel contesto dell’Opéra Royal. Il castello francese, però, tollera meglio certe voluttà scenografiche rispetto alla “molliniana” sala torinese. A Versailles la scenografia di Antoine Fontaine – moresca, coloratissima, tutta false prospettive – respirava in simbiosi con il luogo; a Torino diventa un po’ museale: graziosa ma staccata dal contesto. Anche la regia, ripresa da Tristan Gouaillier, appare più che sobria, incapace di imporsi su un’opera che invece richiede vivacità, gioco, ma anche introspezione. Gli esempi virtuosi non sono mancati: Christof Loy a Barcellona, McVicar a Glyndebourne. Qui, purtroppo, dopo un primo tempo piatto e un secondo un po’ più vivace, si arriva al tappeto volante di Selim senza un’idea di fondo. E gli interpreti non sono sempre a loro agio nelle lunghe parti recitate in tedesco; persino l’unico vero attore non riesce a dare spessore al personaggio del pascià. Sul fronte vocale la situazione è altalenante. Alasdair Kent, raffinato haute-contre e Paolino di classe nel Matrimonio segreto torinese, inciampa su Belmonte, ruolo che richiede smalto e sicurezza: l’aria d’ingresso traballa, la proiezione è modesta, le agilità faticano. Olga Pudova, gloriosa Regina della Notte ma meno convincente altrove, affronta Konstanze con disciplina, ma senza vera penetrazione emotiva e con prudenza eccessiva nelle arie virtuosistiche. Osmin di Wilhelm Schwinghammer possiede le note gravi, ma non il corpo sonoro per farle vibrare. Splendono invece i servitori: Leonor Bonilla è una Blonde irresistibile, luminosa e frizzante; Manuel Günther un Pedrillo vivace, spiritoso, tecnicamente solido. E poi c’è la vera stella della serata: Gianluca Capuano, che dal podio reinventa Mozart come un orologiaio del colore. L’ouverture brilla fin dalle prime note, con quella scrittura marziale che dà il tono esotico e il tema lirico che ammalia. Le “turcherie” diventano nella sua lettura un motore ritmico, non un soprammobile. Le dinamiche sono scolpite, i dettagli rifiniti, la teatralità palpabile: Capuano dà vita a un Mozart vibrante, duttile, mobile, coerente. Inafferrabile, sì – ma magnificamente vivo.

Una lotta privata e quella di un intero paese, per una eccellente opera prima

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Sugli schermi “Anemone” di Ronan Day-Lewis

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un attore immenso come Daniel Day-Lewis, di dura scuola britannica, che ha navigato tra teatro e cinema soprattutto, tre Oscar all’attivo più altrettante candidature, Golden Globe e Bafta a mitraglia, deciso otto anni fa a ritirarsi dallo schermo dopo la prova del “Filo nascosto” – lo aveva già fatto dopo l’insuccesso di “The Boxer”, quando si rifugiò a Firenze e si fece assumere come apprendista calzolaio, lasciando che poi fosse Scorsese a resuscitarlo come il “macellaio” Cutting in “Gangs of New York” -, torna ora tenacemente e meravigliosamente in pista per scrivere con il figlio Ronan la sceneggiatura e farsi protagonista di “Anemone”. Ronan, che ha radici ben salde nella scrittura e nel cinema, la mamma essendo Rebecca Miller regista e il nonno Arthur commediografo e la nonna quella Inge Morath, fotografa, che gli ha trasmesso la passione per la pittura e per l’immagine: e sarebbe sufficiente la bellezza della fotografia, tra interni rischiarati dal fuoco e dalle poche lampade e i paesaggi sconfinati, dipinti tra il rosso di un tramonto e il raggrupparsi grigiastro che precede una grandinata salvifica e un temporale, di Ben Fordesman, doverosamente presente nel cast e artefice di un lavoro a cui il regista non può non aver partecipato (certe macchie di boscaglia riprese dall’alto).

Tutto accade a Sheffield e nei luoghi poco lontani, il taciturno Jem vive con Nessa e con il figlio di lei, Brian, un giovanissimo irrequieto e solitario, che al momento buono sa menar le mani, che porta in sé chissà quali segreti (ha appena reso malconcio un ragazzo, quelle nocche sbucciate gliele vedremo per tutti i 120 minuti). Perché Ronan Day-Lewis inizia a raccontare la sua storia e la dilata oltre misura (certe opere prime che hanno la smania di voler dire tutto e subito), dando in gran bella veste cenni e brandelli di fatti e di ricordi allo spettatore, in un montaggio altrettanto frastagliato e scomposto, un attimo incastrato nell’altro a distante e tempi lontanissimi, offrendo indizi e frasi smozzicate, riempiendola di scene di cui a un primo sguardo ti chiedi la necessità, silenzi continui e sguardi calibrati intrecciati che valgono più di mille parole: ma palpabilmente la affascina, quella storia. Jem, che ha soltanto con sé una moto e una antica parola d’ordine con due coordinate, è andato alla ricerca di Ray, suo fratello e padre del ragazzo, un recluso dal mondo, una casa in mezzo alla foreste, con i primi piani degli alberi e dei rami che s’intersecano, in un mare di verde e di ombre che è una bellezza. Faticoso il film, cupo, raggomitolato in se stesso, angoscioso, costruito a tratti su dialoghi che sanno troppo di tavolino e di scrittura, che a poco a poco si scopre nella descrizione di una amara vicenda, i rapporti cancellati tra padri e figli in cui una madre (Samanta Morton) vorrebbe porsi ad ago della bilancia, che da ristretta, familiare, particolare angoscia si prende spazio per espandersi a una intera nazione, una guerra, il dramma delle sommosse e gli attentati che leggemmo nei pub, le bandiere in fiamme, l’Ira e la lotta, i rastrellamenti e le prigioni: si procede nella curiosità, nella sicurezza sempre più forte delle capacità di un ragazzo che con “Anemone” entra nel mondo del cinema.

Ripetiamolo, non è di facile presa “Anemone”, è un percorso accidentato, un muoversi con lentezza e con circospezione, dall’una e dall’altra parte della barricata, ci si può anche inciampare, cadere in quelle tante simbologie – soprattutto nella seconda parte – di cui il film s’arricchisce ma lasciando ancora lo spettatore nel bisogno di decifrare (la tempesta di ghiaccio che s’abbatte sulla fragilità del fiore del titolo, il grande pesce che scende la corrente del fiume). Al comando di quasi ogni inquadratura c’è la prova potente di Daniel Day-Lewis (un altrettanto ottimo Sean Bean gli fa da spalla, principalmente muta e il giovane Samuel Bottomley è sicuramente una promessa), massiccio, sguardi e movimenti in pieno calibro, primi piani pronti a confessare tutto il passato e l’incertezza del presente, ancora silenzi e le zuffe e i balli, due monologhi che dovrebbero far scuola, che danno sempre maggior spessore al personaggio, che ne delineano le sofferenze e la lotta combattuta per poterle superare, la rivincita sul prete che parecchi anni prima ha abusato di lui e l’uccisione di un ragazzo nel pieno della lotta armata, in una qualche strada di una città. La guerra di un paese e i rapporti dentro una famiglia, quegli stessi temi che più di trent’anni fa Day-Lewis aveva già affrontato come Gerry Conlon in “Nel nome del padre” di Jim Sheridan, divenendo una degli attori più prestigiosi del cinema mondiale.