SPETTACOLI- Pagina 2

Duetti senza età, Retesette e Gypsy Academy di Torino di nuovo insieme

 

Nel nuovo family talent ricco di emozioni da martedì 9 dicembre

“Duetti senza età”; al via su Retesette la musica che unisce le generazioni. Prende il via da martedì 9 dicembre alle ore 21.30 sul canale 13 del telecomando il nuovo talent show ideato da Retesette in coproduzione con la prestigiosa Gipsy Academy, dal titolo “Nonni e nipoti – Duetti senza età”. Si tratta di un format originale e completamente made in Turin che vuole essere molto di più di una semplice gara, ma un viaggio musicale nel cuore dei sentimenti familiari, un’esperienza di condivisione e riscoperta del legame speciale  che unisce nonni e nipoti.
Attraverso la magia della musica e del talento, il programma celebra l’unione indissolubile tra le generazioni, trasformando il palcoscenico in un luogo di emozioni autentiche e ricordi da custodire.
Si tratta di un talent completamente innovativo, pronto a far parlare di sé per la sua formula originale, costituita di divertimento, buona musica,  spettacolo e soprattutto sentimenti veri.

I valori chiave dello show sono chiari e universali, famiglia, ascolto reciproco, condivisione, rispetto, gioia della musica e crescita attraverso l’insegnamento reciproco tra nonni e nipoti. A fare da cornice inclusione, semplicità e autenticità, elementi che si riflettono in un linguaggio accessibile e in un’atmosfera calorosa e accogliente.
Le coppie formate da nonni e nipoti si esibiranno in duetti musicali ricchi di emozione, davanti a una giuria di eccezione, presieduta da Margherita Fumero , nota attrice torinese di teatro e televisione, indimenticabile protagonista di Drive in.
Per partecipare non è  richiesta esperienza professionale,  ma soltanto la voglia e il desiderio dimettersi in gioco.
Nonni e nipoti andrà in onda martedì 9 dicembre e mercoledì 10 dicembre in prima serata.

(Casting@rete7.it Whatsapp 3488040252)

Mara Martellotta

Questa sera al Gobetti, Carrozzeria Orfeo: “Misurare il salto delle rane”

Martedì 9 dicembre, alle 19.30, debutterà al teatro Gobetti la pièce teatrale “Misurare il salto delle rane”, una creazione di Carrozzeria Orfeo, che ha recentemente ricevuto il premio della Critica ANCT 2025 come Miglior Spettacolo. La drammaturgia è di Gabriele Di Luca, che cura anche la regia insieme a Massimiliano Setti. Protagoniste Elsa Bossi, Marina Occhionero, Chiara Stoppa. Le musiche originali sono di Massimiliano Setti, le scene di Enzo Moloni, i costumi di Elisabetta Zinelli, e le luci di Carrozzeria Orfeo. La pièce rimarrà in scena, per la stagione del Teatro Stabile di Torino, fino a domenica 14 dicembre.

“Misurare il salto delle rane” è una dark comedy ambientata in un piccolo paese di pescatori negli anni Novanta. Protagoniste sono tre donne di diverse generazioni: Lori, Betti e Iris, unite da un tragico lutto avvenuto vent’anni prima e ancora avvolto da un’aura di mistero. Questa nuova produzione di Carrozzeria Orfeo, senza rinunciare all’ironia che la contraddistingue, vuole essere un’indagine tragicomica e poetica sulla condizione umana contemporanea, un viaggio nell’intimità di tre realtà femminili che si specchiano l’una nell’altra, rifiutando etichette che provengono dall’esterno. Tre età, tre mondi, tre stagioni della vita che intrecciano le loro esistenze segnate da lutti e assenze, ma anche da rinascite e complicità profonde. Le manifestazioni della violenza e dell’oppressione verso le donne, endemiche nei contesti rurali dell’epoca, affiorano nel tessuto sociale della comunità con modalità sottili ma pervasive. I personaggi maschili incarnano quasi invariabilmente figure di minaccia o fallimento. “Misurare il salto delle rane” rappresenta un invito a confrontarsi con i propri limiti, a cercare bellezza nei gesti semplici, in piccoli atti di trasformazione, dove pare non accadere alcunché. È un’ode alla complessità dell’essere umano, con la sua infinita capacità di perdersi e ritrovarsi, tra ciò che ci definisce e ciò che ci supera.

“’Misurare il salto delle rane’ – dalla drammaturgia di Gabriele Di Luca – è un titolo enigmatico ed evocativo: la rana, creatura anfibia, vive tra due mondi, è simbolo di metamorfosi e adattamento, ma anche di resilienza e forza primordiale. Il suo salto rappresenta un movimento di trasformazione, l’abbandono di uno stato precedente per approdare a uno nuovo. Questo titolo assume molteplici significati per le protagoniste: Lori è intrappolata in una stasi emotiva, incapace di compiere quel salto nell’elaborazione del lutto, per Betti, con la sua ossessione per le gare di salto, ogni centimetro guadagnato da Froggy è una piccola vittoria su un destino che l’ha marchiata come pazza, Iris ha compiuto un salto significativo abbandonando la sua vita agiata per seguire l’impulso di consegnare quel messaggio, ma si trova ora a dover decidere se continuare verso una verità potenzialmente distruttiva o retrocedere nella sicurezza delle convenzioni. Misurare questi salti è impresa impossibile, come quantificare il coraggio, la disperazione o la speranza. Come calcolare la distanza emotiva tra un prima e un dopo segnato dal trauma ? In un contesto sociale che ha normalizzato la violenza di genere, il salto diventa anche atto politico, scegliere di non restare immobili, di non accettare passivamente il ruolo imposto. Le tre protagoniste saltano oltre le convenzioni, rifiutando di rimanere intrappolate nei ruoli prescritti”.

Info: teatro Gobetti – via Rossini 8, Torino

Orari: martedì, giovedì, sabato ore 19.30 /mercoledì e venerdì ore 20.45/ domenica ore 16

Biglietteria: Teatro Carignano, piazza Carignano 6, Torino – 011 5169555 – biglietteria@teatrostabiletorino.it

Mara Martellotta

Rock Jazz e dintorni a Torino: Giorgia e il Memorial Sergio Ramella

GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA

Mercoledì. All’Inalpi Arena si esibisce Giorgia. Al Vinile è di scena il cantautore Fabio De Vincente. All’Hiroshima Mon Amour suonano i Delta V. Al Blah Blah suonano i Kairoskiller + Latente. All’Osteria Rabezzana si esibisce il quartetto di Federico Ponzano.

Giovedì. Alla Divina Commedia sono di scena i Trz+ Portalminds. Al Blah Blah suonano i Blou Daville.

All’Osteria Rabezzana si esibisce il trio di Gianluca Palazzo.

Venerdì. All’Inalpi Arena arriva Antonello Venditti. Al Circolino suona il Tessarollo- Borotti Quartet. Al Vinile per 2 sere consecutive è di scena Velvet Night Rick Hutton & The Soul Women. Al Circolo Sud si esibisce Maria Messina. All’Hiroshima doppio concerto con HardKoro e Fatur. Alla Divina Commedia è di scena Tosello. Allo Ziggy suonano Sunken+ Blaze Of Sorrow.

Sabato. All’Inalpi Arena si esibisce Annalisa. Al teatro Concordia di Venaria è di scena  la Nina. Al Blah Blah si esibiscono: Winter Dust + Emathoma. Al Folk Club suona Erene Mastrangeli +Sabrina Oggero Viale.

Domenica. Al Conservatorio G. Verdi a partire dalle 20.30, concerto “Una Vita Per Il Jazz” Memorial Sergio Ramella. Sul palco si alterneranno i migliori giovani talenti di Too Young To Jazz, affiancati da grandi musicisti del Jazz italiano come Luigi Tessarollo , Gianpaolo Petrini, Marco Tardito, Alfredo Ponissi , Nico Morelli, Emanuele Sartoris. L’ingresso è su donazione (a partire da 10 euro). Presenta Edoardo Fassio. Al teatro Concordia di Venaria, “Concerto Di Natale” con Andrea e Gaia  Del Principe. Al Blah Blah suonano Surfer Joe +Surfoniani.

Pier Luigi Fuggetta

Sandokan, mi hai deluso!

 

La prima puntata di Sandokan mi ha profondamente deluso. Quello che ho visto sullo schermo sembra aver completamente disintegrato lo spirito del romanzo di Salgari: l’atmosfera epica, il fascino dell’esotico, la tensione avventurosa… tutto sembra svanito, come se l’opera originale fosse stata solo un pretesto lontano.
Sandokan stesso appare più come un cosplayer ben truccato che come la Tigre della Malesia. Manca della sua aura minacciosa, del suo carisma selvaggio, della presenza scenica che dovrebbe dominare ogni scena. Non trasmette né il tormento né la forza che rendono il personaggio così iconico nei libri.
Yanez, invece, è ridotto a una macchietta ironica. La sua eleganza cinica, la sua astuzia sottile e la sua saggezza da vecchio lupo di mare cedono il posto a un personaggio caricaturale, che sembra inserito solo per strappare qualche sorriso facile.
Se questo era l’intento di rinnovare la storia, il risultato è un prodotto che si allontana troppo dall’anima salgariana, perdendo per strada proprio ciò che rendeva Sandokan e i suoi compagni immortali. Una delusione, almeno per ora.

Enzo Grassano

OGR Charity Night Amici di Piero

Torna alle OGR Torino OGR Charity Night | Amici di Piero, la 26a edizione della maratona musicale che unisce artisti e pubblico in un grande abbraccio collettivo. Una notte di musica e solidarietà in memoria di Piero Maccarino e Caterina Farassino, figure indimenticabili della scena torinese. Il ricavato sarà devoluto alla Fondazione Caterina Farassino, a sostegno di progetti rivolti ai bambini più fragili. Quest’anno gli amici di Piero la Fondazione Caterina si uniscono per raccogliere fondi per il Ristorante dei Bambini di Strada di Phnom Penh in Cambogia. Un pasto per i bambini costa 0,50 centesimi e queste donazioni rappresentano pertanto un enorme possibilità di salvezza di vita e di crescita per migliaia di bambini. La Fondazione Caterina Farassino, gli Amici di Piero e l’associazione Walzing Around Cambodia comunicano di aver acquistato nel corso del 2025 il corrispettivo per 125.000 pasti. Durante la serata del 7 dicembre verrà dato l’annuncio di un ulteriore progetto che è stato realizzato: la prima Aula Multimediale da quando la scuola ha aperto nel 1972. L’aula è stata intitolata alla memoria di Caterina Farassino. Nel 2026 continueremo a sostenere l’associazione Walzing Around Cambodia con l’acquisto di pasti e nel corso dell’anno verrà realizzata un’aula per le Arti che verrà intitolata alla memoria di Piero Maccarino.

Si esibiranno

Les Votives, Gli Statut , Luca Morino, D!ps, Mahout ,Fratelli di Soledad ,Persiana Jones ,Mazaratee, Andrea Scarpa, The Cotton Dukes ,The Seekers ,70s & more, TBA LINE UP, Willie Peyote ,Casino Royale & Alda Meg Samuel The Originals (Africa Unite & The Bluebeaters)

AMICI DI PIERO 2025 Domenica 7 dicembre 2025 h 20.30 | Apertura porte h 20.00 Sala Fucine | OGR Torino Corso Castelfidardo 22, 10138 Torino Biglietti in vendita su ogrtorino.it | 20€ + dp Un evento delle OGR Torino in collaborazione con la Fondazione Caterina Farassino.

Quattro “streghe” salgono dai bassi napoletani

Ultima replica domani al Gioiello

Francesco Silvestri, scomparso nel dicembre di tre anni fa, legato a Torino per aver tenuto un paio d’anni la cattedra di Scrittura drammaturgica presso la Scuola Holden di Baricco, ha fatto parte di quella Nuova Drammaturgia Napoletana che ha visto con successo al proprio interno i nomi e le opere di Annibale Ruccello – il commediografo gli fu interprete per “Le cinque rose di Jennifer” -, Enzo Moscato e Manlio Santanelli, tra il mondo di ieri e la contemporaneità, il bianco e il nero di Parthenope e del Sud, la comicità e gli affanni, l’arte d’arrangiarsi e la fatica, l’onestà e il colpo di mano. Quel mondo compatto e sfrangiato che, tra tutti, anche la letteratura del giallo e no di De Giovanni e De Cataldo, le storie di Sorrentino e Capuano, di Martone e De Lillo e Corsicato hanno da tempo portato in primo piano. Una visione che non poco ha pure contribuito a far conoscere, da trent’anni in qua, sera dopo sera, facce e vicende che ormai un gran pubblico considera come familiari, facce che hanno terminato un percorso e altre nuove che si sono aggiunte, “Un posto al sole”, intramontabile soap opera di successo: al suo interno, s’è formato un gruppo composto da alcuni dei tanti elementi femminili – Gina Amarante, Luisa Amatucci, Miriam Candurro e Antonella Prisco – con la felice “intrusione” di Peppe Romano, là pieno di problemi affettivi e d’attività lavorativa. Di Silvestri stanno riproponendo sui palcoscenici italiani (da noi al Gioiello, solo per tre repliche, l’ultima domani 7 dicembre in pomeridiana) “Streghe da marciapiede”, un testo dei primi anni Novanta.

Vera black comedy, che trova ambientazione negli anni del fascismo, i bei costumi di Teresa Acone sono a riprova, in perfetto equilibrio tra la narrazione del reale e le sospensioni del surreale, tesa e a tratti divertente, coinvolgente per un pubblico anche spinto a sinceri applausi a scena aperta. La storia di quattro prostitute, tre nate nei bassi napoletani mentre l’ultima ha forse respirato un tempo le nebbie lombarde, condividono lo stesso appartamento in cui vige una regola di ferro, secondo cui mai nessun uomo dovrà mettere piede. Tuttavia una sera la Gina incrocia un ragazzo, reduce da un pestaggio, e lo fa accomodare. Alto e attraente, enigmatico, forse come staccato dal mondo che circonda quelle donne, il loro modo di vivere e le esistenze contorte, “una sorta di angelo oscuro della notte”, l’ospite prende a poco a poco per le padrone di casa il peso di un incubo, un essere non adatto a vivere con loro e capace altresì di mettere in discussione quei rapporti che sinora si sono creati, semmai a far insorgere vecchi peccati e incubi, affondati nel passato, un infanticidio, una violenza sessuale, una famiglia da cui si è fuggite, una natura di lesbica da cui per un attimo si avrebbe voglia di scappare. In una avvolgente sequenza d’incastri, delle azioni che hanno visto in quella casa un omicidio e degli interrogatori che dovrebbero essere chiarificatori ma che al contrario vivono tra misteri e ambiguità e interessi personali e quelle di oggi portate a un processo dentro cui rimarrà invischiato e vittima un ispettore sempre più convinto della loro natura stregonesca e malefica e a poco a poco ridotto a un essere che ha perso il cervello. La regia che Stefano Antonucci, nella scenografia essenziale fatta di cubi e pedane firmata da Ciro Lima Inglese e ancora con le canzoni di Michele Fierro, ha costruito intorno guarda ai particolari, ai diversi rapporti, al non detto che spinge sempre più da vicino, in maniera validissima, forte, del tutto convincente, facendosi carico anche di un paio di ragionate modifiche, la cancellazione del personaggio del ragazzo ma la cui presenza non può che rimanere viva e il far entrare in scena quello dell’ispettore, immediatamente coinvolto e succube dei raggiri femminili.

Molto del successo va alle interpreti, che siamo abituali a seguire in tivù ma che per la prima volta possiamo saggiare su un palcoscenico vero e proprio. Non più la scenetta, l’intermezzo mordi e fuggi, la prova si fa completa: che altro non è che una conferma. La breve scenetta prende spazio, diventa i 90’ di spettacolo, si è animata a tutto tondo, si è irrobustita, i caratteri se ancora ce ne fosse necessità si sono delineati maggiormente, certo, in una scrittura di più ampi profondità e spessore, ma nello spettatore si fissa la certezza di essere davanti a quattro eccellenti attrici. Antonella Prisco gioca appieno, in bell’equilibrio, tra le leggi del quotidiano e una sembianza intimamente staccata dal reale, dentro quell’aria di sogno e stralunata che già le conosciamo, Luisa Amatucci esprime in maniera viscerale la disperazione del proprio racconto, con l’umanissima tragicità della tragedia greca, Gina Amarante assai credibile tra esuberanza e desideri e gioie di un attimo, Miriam Candurro disegna con gusto l’appartata del gruppo, la più “signora”, quella che non vorrebbe confondersi. Non certo in disparte Pippo Romano, a fare da perfetto legame tra quei racconti di streghe che finiscono col distruggere. Vivissimo successo.

Elio Rabbione

Nelle immagini, alcuni momenti dello spettacolo.

Amanda Sandrelli è “La bisbetica domata”

 

Amanda Sandrelli ritorna al Teatro Concordia per interpretare Caterina de La bisbetica domata di William Shakespeare, un personaggio affascinante per la sua ambiguità che mostra però la distruzione della sua personalità ribelle.

Caterina è un personaggio che incarna un’ambiguità affascinante, un paradosso che la rende molto più complessa di una semplice “dama addomesticata”. La sua figura si presenta come un groviglio di contraddizioni: antipatica e intransigente, a tratti sboccata e con posizioni integraliste, qualcuno la definirebbe persino pazza. Eppure, sotto questa corazza, si cela una profonda libertà, un’adolescenziale e romantica aspirazione a un mondo in cui il matrimonio sia un atto d’amore, non una transazione sociale. Nella Padova shakespeariana de La Bisbetica domata, l’ambiguità non è prerogativa esclusiva di Caterina. Tutti i protagonisti sono segnati da colpe, intrappolati in una rete di ipocrisie e convenzioni sociali. In una società profondamente maschilista come quella inglese di fine Cinquecento, l’immagine di una Caterina “addomesticata” poteva apparire, all’epoca, come un personaggio comico, e la commedia come un edificante lieto fine, una sorta di “selvaggia addomesticata” che trova la sua redenzione nell’obbedienza. Tuttavia, la prospettiva è radicalmente mutata.

Oggi, la rappresentazione de La Bisbetica domata non suscita più un senso di edificazione o di lieto fine. La visione che Caterina vorrebbe riscrivere le regole, opporsi alla madre e allo sposo, si scontra con una realtà fatta di umiliazioni e violenza. La sua sofferenza non è più fonte di riso, ma un’esperienza dolorosa e angosciante, pianificata fin dalle prime battute di Petruccio. Lui non è un uomo che cerca di conquistare una donna, ma un dominatore che mira a piegare una ricca e desiderabile preda, sapendo esattamente come farlo, con la forza o con l’inganno. Durante la rappresentazione, tra risate, travestimenti e dichiarazioni d’amore, si cela una violenza che raggiunge livelli da incubo. Ma il vero orrore si consuma dietro le quinte, in un luogo inaccessibile agli spettatori.

Quando la porta si chiude, non arriva nessun principe azzurro a salvare Caterina. Lei piega la testa, ridotta a una creatura sottomessa, un “cagnolino” privato della sua forza e della sua identità. Di Caterina, quella ragazza ribelle e passionale che sognava l’amore, non rimane che un’ombra. Costretta all’umiliazione totale, tutti le voltano le spalle. Cosa l’attende tra le mura domestiche è un mistero, un problema che la riguarda esclusivamente. Noi, spettatori, possiamo solo fingere di essere felici, di celebrare un lieto fine che è in realtà una tragedia silenziosa. La commedia, in fondo, è solo una maschera dietro cui si cela una realtà ben più oscura e disturbante. Il suo “addomesticamento” non è una vittoria, ma una sconfitta, una perdita irreparabile di sé. E la risata, in questo contesto, suona come un’amara beffa. La vera domanda non è se Caterina sia stata addomesticata, ma a quale prezzo.

Un TFF di successo, con i dati in crescita: mentre la Regione auspica maggiori risorse

Ancora non si sono del tutto spente le suggestioni – con qualche stella un po’ pallida in concorso – del recente Torino Film Festival che già arriva la verità dei dati a testimoniare il successo della manifestazione. Risultato positivo ci è fatto sapere per questa seconda edizione targata Giulio Base (riconfermato proprio su quella scia et ça va sans dire per l’appuntamento 2026), calato il sipario anche sulla spesa di 2,8 milioni di euro, attendendo altresì le cifre che in maniera definitiva arriveranno a consuntivo, mettendoci dentro organizzazione premi e ospitalità che hanno creato un red carpet invidiabile, da Vanessa Redgrave alla Bisset ad Antonio Banderas richiestissimo, da Stefania Sandrelli ad Hanna Schygulla, da madame Binoche al nostro Castellito al Claude Lelouch di “Un uomo una donna”, Palmarès a Cannes nell’ormai lontanissimo 1966, dal granitico “ti spiezzo in due” Ivan Drago alias Dolph Lundgren all’oltralpe Vincent Lindon e via elencando, regalo delle Stelle della Mole o no, tutti sotto l’ala protettrice di Tiziana Rocca, donna capace di stanarli dalle loro case, in giro per il mondo, per farli giungere dentro l’eleganza sabauda, ormai libera da quell’aria di diffidenza e di nicchia voluta dalle precedenti direzioni. Rispettando altresì un ben radicato equilibrio, che si destreggia tra una pomposa inaugurazione tra i velluti e sotto la cascata di luci del Regio e la conoscenza con le opere prime e seconde della cinematografia scovata nei cinque continenti come da sempiterno copione, senza tralasciare chicche egualmente rintracciabili in altri festival di ben maggiore richiamo.

“Cresce il numero degli spettatori a parità del numero di titoli in programma – 120 suddivisi nelle tre sezioni di concorso e nelle tre sezioni non competitive -: la percentuale di riempimento delle sale arriva all’83%”, si recita dagli uffici di via Montebello, più che forti della quota salita a 38.000 per le presenze, 65 titoli sold out, calcolando ancora una crescita per abbonati e accreditati, per un incasso complessivo di oltre 152.000 euro, incasso che aveva quasi toccato i 130mila nell’edizione del 2024. Si gongola per i mezzi del momento, per una edizione “dal forte impatto social e risultati record di visibilità”, in cui si raggiungono i 7,3 milioni di visualizzazioni (+211%) e 3,3 milioni di persone (232%). Crescono nel 2025 le condivisioni del 116%, “segno di un passaparola di qualità”, del 149% su Instagram e del 23% di salvataggi, a conferma di un interesse sempre più attivo. Finalmente si è constatato come anche la tivù di stato sappia collegarsi per servizi e interviste e resoconti fin sotto le montagne, abbracciando pure la cerimonia d’apertura  trasmessa in diretta su Raiplay: per cui sarà soltanto questione d’aver fede e tempo e pure le reti maggiori sapranno organizzarsi. L’impianto organizzativo e i tanti main sponsor – Ministero della Cultura/Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, Regione Piemonte, Città di Torino, Fondazione Compagnia San Paolo e Fondazione CRT – avranno diritto a qualcosa che vada un po’ più oltre. Legittima attesa da presidenza e direzione. Già ad apertura di programmazione, la Regione metteva in campo “una visione ancora più ambiziosa” attraverso le parole dell’assessore regionale alla Cultura, Marina Chiarelli: “Il Torino Film Festival è l’evento cinematografico clou della nostra stagione culturale, un appuntamento che porta a Torino il respiro internazionale del grande cinema. Ma oggi voglio dirlo con chiarezza: Il Piemonte non deve porsi limiti. Possiamo e dobbiamo ambire a diventare uno dei poli cinematografici più importanti d’Europa.” Attraverso “investimenti mirati, un sistema produttivo in crescita e una programmazione capace di attrarre talenti e produzioni internazionali”: non resta che alzare l’asticella, ampliando le presenze di quanti fanno cinema per il mondo e costruendo opportunità nuove e concrete per chi crea.

Magari iniziando dal basso, perché no?, oserei dire per alcuni casi dalla strada. Badando anche alle piccole cose, comuni e quotidiane. A mo’ di aggiustamenti, tutti fattibili: un numero maggiore di sale, di modo che in molti non si stia esclusi dai tutto esaurito, di modo che sempre non sia un’affannosa rincorsa? quelle fasce d’età magari penalizzate nella ricerca di un biglietto, casomai agevolarle? quella bianca tettoia che per anni ha ricoperto le cocuzze imbiancate e no di molti spettatori in entrata su via Verdi, intemperie o no, magari ripristinarla? un miglior trattamento ai tanti giovani volontari e collaboratori che stazionano nelle e fuori le sale di proiezioni, in maniera del tutto gratuita, a cui – mi è stato innocentemente confessato – sono stati sottratti non solo da quest’anno i buoni pasto? Iniziamo con il rimettere a posto queste cose, per chi lavora e per il pubblico, le stelle, con gli ingranaggi che si sono così bene avviati, continueranno ad arrivare egualmente.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Giulio Base, direttore del TFF, tra Carlo Chatrian ed Enzo Ghigo, direttore e presidente del Museo del Cinema; un momento del film vincitore “The Gardens of Earthly Delights” dell’olandese Morgan Knibbe.

Doppio appuntamento a teatro… aspettando il Natale allo “Spazio Kairos”

In scena l’immortale “Canto di Natale” di Charles Dickens e le “Favole interattive” per tutta la famiglia

Venerdì 12 e domenica 14 dicembre

Un classico che va oltre i tempi, fra le meraviglie letterarie dell’epoca vittoriana, prima edizione pubblicata a Londra il 19 dicembre del 1843 e già esaurita il giorno di Natale, con la bellezza di tredici edizioni andate in stampa nel giro di un anno, alla fine del 1844. Se vi dico “Charles Dickens!”, il gioco è subito chiaro. Parliamo dell’immortale “Canto di Natale” (titolo originale: “A Christmas Carol. In Prose. Being a Ghost-Story of Christmas”), novella o “racconto di fantasmi”, scritta per l’appunto da Dickens (1812 – 1870) e pubblicata a Londra per “Champman & Hall”, con illustrazioni di John Leech. Fra le opere più famose di “Boz” (come  Dickens era soprannominato agli inizi della sua carriera giornalistica) e interpretata in super-abbondanza nel corso del tempo, anche in varie trasposizioni teatrali e cinematografiche, sarà proprio il “Canto di Natale”, in una versione pensata per adulti ma adatta anche a un pubblico di bambini e ragazzi, ad aprire venerdì 12 dicembre (ore 21) il periodo natalizio sul palcoscenico dello “Spazio Karios”, il Circolo Arci “con un teatro dentro”, gestito dalla Compagnia Teatrale “Onda Larsen”, in via Mottalciata 7 (fra “Aurora” e “Barriera di Milano”) a Torino.

Adattamento e interpretazione di Fabrizio Martorelli, napoletano di origini e milanese di adozione, per la regia di Antonio Mingarelli, lo spettacolo, della durata di 60 minuti, dà modo al pubblico di affiancare e vivere in un “viaggio vorticoso e introspettivo” gli errori e il riscatto di Ebenezer Scrooge, il banchiere anziano, avarissimo e non poco cattivo, che odia il Natale e l’umanità intera. Cosa che continuerebbe tranquillamente a fare se non ricevesse, proprio in tempo natalizio, la visita di una serie di fantasmi che cercano in qualche modo di “convertirlo”: il primo ad ammonirlo è Jacob Marley, il suo defunto amico e socio in affari, seguito dagli spiriti del “Natale passato”, del “Natale presente” e del “Natale futuro”. In scena, il solo Martorelli, che dà voce a tutti i personaggi, dagli spettri alle figure del passato di Scrooge, a sottolineare la solitudine iniziale del protagonista e la necessaria relazione con l’altro che lo porterà via via alla “redenzione” e al cambiamento. La scenografia, concepita come una “soffitta immaginaria”, diventa il luogo della memoria dove il narratore rievoca freneticamente l’intera storia. Una storia che imbriglia Scrooge da una vita, dove a regnare sono solo crudeltà e amarezze. L’unica via d’uscita per lui è “quella di scendere fino in fondo al suo coraggio, incontrare sè bambino,  rivedere l’unica donna che abbia amato, capire tutti gli annullamenti che ha fatto, sta facendo e farà in vita”. E alla fine superare la prova di un cambiamento “con l’unica dote che i suoi visitatori ultraterreni non hanno: l’umana vitalità”. Assistere al dickensiano “Canto di Natale” è sempre come regalarsi momenti esistenziali di alto contenuto emotivo, come leggere e rileggere, per fare nostra, una mirabile pagina didattica sul significato di sentimenti perduti nel tempo, che d’improvviso – proprio come “fantasmi” – ti riappaiono davanti quali strumenti insostituibili e preziosi e necessari alla ripresa di sentieri vitali dimenticati, che se riesci a recuperare tornano però a regalarti i veri, unici, profumi della vita.

Domenica 14 dicembreore 16,30

Sempre allo “Spazio Kairos”, il pomeriggio sarà interamente dedicato ai più piccoli (dai 5 anni in avanti) con “La Magica Soffitta di Stella”, un coinvolgente spettacolo teatrale di “narrazione e interazione”, a cura dei torinesi Tita Giunta e Fabio Rossini, perfetto nel percorso di avvicinamento al Natale.

La storia vede infatti protagonisti Stella e il suo papà, che si ritrovano a raccontare una storia nella loro vecchia soffitta. Utilizzando un “armadio magico” come varco, i due esploreranno un regno fantastico dominato dalla temibile “Strega Bianca”, la “Regina delle Nevi”. Lo spettacolo esalta la complicità, il gioco e la magia del rapporto padre-figlia.

L’appuntamento sarà preceduto da una merenda, offerta da “Onda Larsen”, alle 16.

I biglietti si possono comprare anche online su www.ticket.it

Per ulteriori info: “Spazio Kairos”, via Mottalciata 7, Torino; tel. 351/4607575 o www.ondalarsen.org

g.m.

Nelle foto: immagini da “Canto di Natale” (in scena Fabrizio Martorelli) e da “La magica soffitta di Stella” (in scena Tita Giunta)

La commedia del “Gabbiano”, quasi un musical

Per la stagione dello Stabile, al Carignano sino al 14 dicembre

Leggendolo, mi convinco una volta di più che non sono un drammaturgo.” Definitivo, brutale e pessimista, sino in fondo. E dire che, nell’autunno del 1895, scrivendo all’amico Aleksej Suvorin – magnanimo editore delle sue opere, un rapporto che durò una quindicina d’anni e che s’affievolì all’epoca dell’affare Dreyfuss per le differenti posizioni prese -, era partito fiero, col piede giusto, forgiato di ogni sicurezza: “Figuratevi, sto scrivendo un testo teatrale, sarà pronto non prima di novembre. Scrivo con gusto, anche se mando all’aria tutte le buone regole. È una commedia, ci sono tre parti femminili, sei maschili, quattro atti, un bel paesaggio (vista sul lago), molti discorsi sulla letteratura, poca azione, un quintale d’amore.” Una quintalata, e anche qualche grammo in più, che continua inevitabilmente ad abitare questa edizione del “Gabbiano” sulla cui protezione è calato un buon numero di Teatri Stabili e Teatri Nazionali, del Veneto – del quale il regista Filippo Dini da due anni è direttore -, Torino, Roma, Bolzano e Napoli, quintalate d’amore che avvolgono quel gruppo d’amici e parenti che vengono a occupare le stanze della villa dell’attrice Irina Arkadina, sulle rive di un grande lago, dove suo figlio Kostja, senza troppa convinzione del suo pubblico tenterà d’inscenare una sua breve composizione teatrale che piacerà quasi a nessuno: chiaro che il ventenne pieno di ribellione dentro il cuore e il cervello s’inferocisca mica poco, reclamando “nuove forme” di teatro, scalpitando contro una società abbarbicata su canoni antichi e che non vede più in là del proprio naso. Dini è come Kostja, anzi Dini “è” tout court Kostja. Ormai obbediente a quella fregola registica di porre azioni e attori dentro il contemporaneo, comincia con l’affidare, all’interno del primo atto, il testo di Kostja e la recitazione della giovane Nina, quasi fidanzatina che sfrigola a ogni istante, allo sguardo ribelle di Leonardo Manzan, controcorrentissimo, astruso e assurdo, strampalato e all’insegna del “famolo strano” a tutti i costi, sul sentiero di una moda che sta prendendo il posto di altre mode (forse): dopo che il triste e angry man aveva steso il proprio “manifesto” (per diretta definizione della madre) con un giro panoramico sul teatro del Novecento che senza batter ciglio citava e commentava Brecht ed Eduardo, con accenno musicale di “che gelida manina”.

Malinconia ma neppur tanta, arrivi e partenze, l’esistenza stracca, una sorta di forzata allegria e falsa spensieratezza a serpeggiare, il riconoscibile andare alla deriva di uno scampolo d’umanità che stava per buttarsi in braccio a rivoluzioni e guerre, sulle direttive del signor Cechov che reclamava sulle locandine il termine “commedia”, e poi noia tanta noia, e inseguimenti amorosi a perdifiato giù lungo i 150’ dello spettacolo, con lo squattrinato Medvedenko, spuntato dal nulla ad inizio spettacolo per cantare come un Rino Gaetano de noantri una canzone d’amore alla sua bella che più a squaciagola non si potrebbe, che ama Maša che insegue Kostja, il quale sogna disperatamente Nina – “d’amore si muore”, avrebbe detto Patroni Griffi qualche decennio dopo -, che sì all’inizio un pensierino ce lo farebbe ma che poi è catturata dal vortice che raccoglie il suo desiderio d’attrice e il successo dello scrittore Trigorin, che di professione fa l’uomo usa e getta, a secondo dei tempi e della bisogna, che da Irina è inseguito, senza dimenticare mamma Polina che ha un debole per il dottor Dorn. Un girotondo infinito, che si stacca e si ricompone, discorsi di letteratura e di spicciola filosofia quotidiana, due colpi di rivoltella, uno che fa il danno di un graffio e l’altro che porta alla morte. Su ogni azione, sui dialoghi caparbiamente urlati, sui tratti e il susseguirsi delle azioni a volte inverosimili costruiti a spintoni, c’è la mano di Dini, di gran lunga più accettabile nel suo primo Cechov che fu pochi anni fa “Ivanov”. Una regia sfrontata, dedita alla più forte esasperazione, urlata, votata allo stravolgimento – volontà del tutto registica – di tutto quel cecovismo che abbiamo visto in questi decenni: ferma restando in chi scrive la convinzione che non è certo onesto “trafugare” un testo al proprio legittimo proprietario e che, quando in un paio di ispirati momenti la stessa regia ritorna nell’alveo, è in quei momenti che ci si rifugia nella giusta ispirazione.

Forse Dini s’è voluto bellamente dimenticare che, pur nella ricerca della novità, entro cui spunta oggi quella necessaria quanto insondabile figura teatrale che è il dramaturg, pronto a essere cacciato a viva forza in ogni “rivisitazione” o “rilettura” alla moda (qui ha il nome di Carlo Orlando), sarebbe necessario il vecchio, oraziano, “est modus in rebus”, la misura, l’equilibrio, la negazione degli eccessi, il ponderare con acume fin dove spingersi. Magari non far diventare “il gabbiano” quasi un musical, con quelle canzoni, disinvolte e struggenti con tanto di microfono, spingendosi sino a quel capolavoro che è l’Oscar “Skyfall”, targato 007, per la voce di un’Adèle che non è neppure avvicinabile – ma, per carità, non era certo quello il fine, non siamo ancora arrivati ai “tali e quali” del signor Conti; magari, nella rabbia e nel disfacimento esistenziale del momento di Maša, non obbligare la povera Enrica Cortese, con i suoi tratti di borgatara pur essa arrabbita, a farsi una sputacchiera di pezzi più o meno sminuzzati di mela, sulla faccia del grande scrittore; magari non regalare alla Nina (che è una Virginia Campolucci a suo modo credibile) la patente di instabile permanente, magari soprattutto non regalare a Trigorin l’errore più vistoso della serata. Agghindato, come molti altri, nei costumi di Alessio Rosati – la scena fatta di sdraio computer albero spoglio e fondale lacustre e tetro, di Laura Benzi, essenziale prigione a specchio – più adatti a uno spettacolo da circo che a una commedia russa, Dini, al limite della caricatura, fa del suo antipaticissimo scrittore un rintontonito e balbuziente essere, eccessivo, bambinesco nei gesti, di cui difficilmente riusciamo a immaginare la scalata al successo, l’ingresso nei salotti, gli assatanati innamoramenti di due donne: semplicemente difficile. I più compos sui paiono la Irina di Giuliana De Sio (sebbene paia messa un po’ a lato, ben altra per forza nelle immagini di madre di “Agosto a Orage County” di Tracy Letts e “Cose che so di essere vere” di Bovell, passate nelle scorse stagioni sullo stesso palcoscenico del Carignano, in altri tempi cavallo di battaglie per le grandi attrici), gretta, autoritaria e vuota, tutta impegnata a raccontare di veri o presunti successi, fatta di tanti “amore della mamma”, e il Kostja di Giovanni Drago, che gira in lungo e in largo come una farfalla impazzita e si sbraccia in sparate sacrosante, animoso, eroe di breve durata chiuso nel suo lungo pastrano, passionale e intimamente più che sfrontatamente chiuso nella propria rivoluzione, purtroppo uno dei pochissimi fattori che ci abbiano convinto la sera della prima. Repliche sino 14 dicembre.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Serena Pea, alcuni momenti dello spettacolo.