Frank Peter Zimmerman solista nel Concerto in Re Maggiore di Stravinskij
Giovedì primo dicembre, alle 20:30, presso l’Auditorium RAI “Arturo Toscanini” di Torino, si terrà il debutto del grande direttore spagnolo Pablo Heras Casado con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI.
La serata sarà trasmessa in diretta da Radio 3 e sul circuito Euroradio, in replica venerdì 2 dicembre alle 20:00, con una trasmissione in live streaming sul portale di RAI Cultura.
Pablo Heras Casado è ospite regolare di celebri orchestre quali i Berliner e i Wiener Philarmoniker, Munchen Philarmoniker, Orchestre de Paris, Symphonieorchester des BayerischenRundfunks, Orchestra di San Francisco, Orchestra di Philadelphia e di realtà prestigiose quali la Staatsoper Unter den linden di Berlino, il Metropolitan Opera di New York, il Festival di Aix – en – Provence e il Festspiel Baden Baden. Direttore ospite principale del Teatro Real di Madrid, nel 2021 è stato nominato artista dell’anno all’International Classic Music Awards.
Per il primo concerto con l’Orchestra Nazionale della RAI, proporrà il “Prélude á l’après midi d’un faune” di Claude Debussy, capolavoro sinfonico ispirato al poemetto simbolista di Stephane Mallarmé. Terminato nel 1894, eseguito per la prima volta il 22 dicembre del medesimo anno alla Societé Nationale di Parigi, sotto la direzione di Gustave Doret, il “Prélude” ha contribuito non poco a diffondere la fama di Debussy.
Ne rimase impressionato lo stesso Mallarmé che, dopo averlo ascoltato al pianoforte, prima dell’esecuzione orchestrale,commentò: ”Questa musica prolunga l’emozione dei miei versi e ne fissa lo scenario con più passione e efficacia di quanto non riuscirebbe a fare la pittura”. Nel “Prélude á l’après midi d’un faune”, la novità e la libertà della concezione hanno suscitato analisi diverse, sfuggendo ad una schematizzazione convenzionale. La continuità fluida del Prélude maschera l’articolazione della successione delle sezioni in una costruzione di tipo elusivo.
Fa parte della suggestione del Prélude il coesistere, fondersi, intrecciarsi di ricordi per lo più allusivi, e non sempre afferrabili nitidamente, oltre al profilarsi di un pensiero musicale nuovo. Il cambiamento del colore, il succedersi delle intuizioni timbriche assumono un peso formale decisivo. La melodia del flauto risulta senza accompagnamento, sospesa, di incetta definizione tonale. Il respiro nuovo che Boulez sottolinea in questa frase è degno della linea sonora e monotona creata dal fauno di Mallarmé sul suo strumento: un arabesco che si libra nel vuoto in una totale assenza di certezze. Iniziando sempre con la stessa nota, il flauto ripete sempre la sua melodia in situazioni mutevoli, proponendone delle sottili varianti. Le idee che si presentano nel corso del pezzo si rivelano affini alla melodia iniziale, fino al momento in cui viene presentata una idea lirica in Re Bemolle Maggiore.
La sezione centrale è preceduta da un primo sviluppo e rappresenta nel Prélude il momento meno lontano da echi del passato anche wagneriano. È caratterizzata dalla tensione di grandi archi melodici e da procedimenti armonici che sono concatenati secondo una logica famigliare.
Il tutto sfocia in una coda che si spegne e dissolve in un’atmosfera sospesa, come se la musica tornasse misteriosamente al silenzio, come ne era uscita. Nel Prélude Debussy risulta idealmente più vicino a Mallarmé, trovando degli accenti più personali. La serata proseguirà col concerto in Re Maggiore per violino e orchestra di Igor Stravinskij, scritto nel 1931 e eseguito nello stesso anno a Berlino.
Il concerto fa parte del periodo neoclassico dell’autore ed è stato composto con grande libertà da Stravinskij, articolato in quattro movimenti, piuttosto che nei canonici tre, per Samuel Dushkin, giovane violinista americano in grande ascesa. A interpretarlo sarà il grande violinista tedesco Frank Peter Zimmerman, che torna a suonare con la compagine RAI, con la quale ha un rapporto molto consolidato, avendo inciso il Concerto per il violino di Ferruccio Busoni e eseguito, in prima italiana, concerti quali quelli di Matthias Pintsher e Magnus Lindberg.
Heras Casado concluderà la serata con la Sinfonia N.1 in Re Maggiore di Gustav Mahler, nota con il soprannome di “Titano”, con la quale il compositore la denomina riferendosi al titolo di un omonimo romanzo di Jean Paul. La Sinfonia N.1 si accompagna all’infelice esperienza amorosa vissuta dal musicista con la cantante Johanna Richter a Lipsia, dove la composizione fu ultimata nel 1888.
Tenacemente radicata nello spirito del Romanticismo tedesco, è già proiettata oltre la realtà musicale del tempo. La partitura è tutto un riecheggiare di richiami alla natura, che mutano dalla innocente serenità Pastorale fino dell’inquietudine struggente e esasperata della modernità.
MARA MARTELLOTTA
Staticità nipponica, immobilità cinematografica del Sol Levante: un prendere o lasciare, non c’è via di mezzo, per il pubblico di casa nostra. Un cinema chiuso, a tratti indecifrabile, fatto di sovrapposizioni, di un tempo che sfugge e si mostra confuso, di personaggi immateriali, di un mondo onirico che si rivela reale e viceversa; di riprese soprattutto che s’affidano totalmente alla camera fissa, estenuanti, lunghi corridoi notturni e no per portarci a due passi da una tragedia, insistiti, privi di uno sviluppo ma chiusi nel loro scorrere, l’attore posto non sai se più per vezzo o per abitudine di spalle a mostrare la nuca per manciate e manciate di secondi, o l’inquadratura di questo o quell’oggetto mentre l’unica presenza sono certi suoni o un pianto indecifrato o un intervento anonimo, frasi a brandelli, sesso giovanile meccanico e affatto risolto. “Nagisa” (in concorso) è diretto da Takeshi Kogahara, è la storia di un ragazzo, Fuminao, e di sua sorella Nagisa che da poco tempo hanno perduto la madre. La ragazza ha un incidente alle porte di Tokio, sull’autobus su cui viaggia per andare a trovare Fuminao, universitario nella capitale. Nagisa non lo abbandonerà del tutto, dopo pochi anni rivisitando più e più volte il tunnel che è stato il luogo della tragedia, il ragazzo sarà certo di rivederne il fantasma. Materia “surreale”, trattata attraverso cenni fine a se stessi, decine di episodi minimi, brevissimi, flashes aperti e presto chiusi, dove i contenuti non hanno assolutamente il tempo e la possibilità di irrobustirsi, di amalgamarsi, di legarsi l’uno all’altro: la materia, già impalpabile, si perde anche negli ultimi attimi, nelle immagini conclusive, quando un clima di normale allegria e affettività sembrerebbe spazzar via quanto di infelicemente sospeso abbiamo visto sinora.
Di area spagnola (coprodotto con l’Argentina da Alex de la Iglesia) “La pietad” del trentenne Eduardo Casanova, ormai osannato in patria, una delle promesse del cinema europeo, autore nel 2017 di “Pelle”, passato su Netflix, chiacchierato affresco di persone che, a causa delle loro deformità fisiche, sono costrette a nascondersi e a isolarsi dal resto del mondo. Anche con “La pietà” non si scherza. Libertad, nomen omen, detta Lili, donna non ancora cinquantenne (Angela Molina) e Mateo (Manuel Llunell) sono madre e figlio, vivono insieme in un vasto ed elegante appartamento dove il color rosa predomina e l’ordine regna. Il loro affetto è forte, sconfina nella passione, senza limiti la dipendenza dell’uno nell’altra, il mondo tagliato fuori, un padre e un marito che s’è rifatto una vita con un’altra donna. Lili pensa per il figlio, parla per lui, agisce al posto suo, riempie ogni sua necessità. Qualche più o meno piccola ribellione è cancellata sul nascere: il cancro, il tentativo di un’operazione, gli ultimi istanti di un padre che ha voluto porre fine alla propria esistenza, li uniranno più di prima. L’eleganza, la malattia, la morte, la dedizione reciproca, l’amore incondizionato di una madre per chi ha generato e cresciuto, spingono il regista a spiccare un volo che nessuno spettatore s’aspetterebbe mai: sta più o meno a due passi la Corea del Nord, con il proprio dittatore Kim Jong-un, padre di un popolo osannante e prono, pronto a versare fiumi di lacrime quando sarà il tempo della sua dipartita… perché non creare un bel dualismo, un serioso (quanto eccentrico!) paragone con questa madre-dittatora amabilmente in rosa? Ossessione, dipendenza, maternità, controllo, terrore e potere in un’orgia di melodramma, in scenografie raffinate, in un profumo d’Almodovar datato e scimmiottato che ti dà alla testa. Non è l’estrema rifinitura a disturbare, è quella morbosità insistita e bisturizzata e gelida a guastare in fondo l’embrione di una intera vicenda.
vecchia professione di illustratore a “El mundo” o di ri-creatore della serie nipponica “Dragon Ball” se anche al suo protagonista Julian (un intenso Nacho Sànchez), ragazzo chiuso e senza legami affettivi, affida le immagini e le costruzioni al computer abituali della medesima professione. Quei video game di successo che porta avanti con l’editore partoriscono mostri, animali stranissimi, paesaggi e vicende inimmaginabili. All’inizio del film un incendio lo mette di fronte ad un bambino e al suo salvataggio, nel corso della storia con l’apparizione della giovane Diana (Zoe Stein, il viso bellissimo, una sorta di Demi Moore in “Ghost”) inizierà a vedere una finestra aperta sulla felicità. Ma i mostri non sono soltanto delle immagini, abitano dentro di noi, costantemente, quando pensi di averli cacciati, mostri che vivono nei nostri rapporti e nei nostri sentimenti, che puoi incontrare in ogni angolo: ma “Mantìcore” è anche la lotta per liberarci di essi, è la manifestazione delle nostre richieste d’amore, del bisogno che ne abbiamo, di amare e di essere amati, la lotta contro il buio e i silenzi che stiamo attraversando. Un film sincero, intimo, capace di rendere una felice scrittura dei personaggi, ben calibrato, che trova posto nel fuori concorso e che qualche distributore italiano dovrebbe con un minimo di coraggio proporre nei mesi prossimi.
promettente, che va dentro alle vicende e ai personaggi, ai luoghi degradati, che è un esempio di conduzione d’attori, che mette in campo appieno la naturalezza di adulti e ragazzini, che non nasconde i lati oscuri e duri di quanti portano avanti un’esistenza nella riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota; è la prima volta dietro la macchina da presa dell’attrice e modella Riley Keough (è anche nipote di Elvis Presley) che lo ha codiretto con Gina Gammell (anche produttrice). Una storia ottimamente trattata, che a tratti ha l’ambizione di accostarsi alla materia con sguardo documentaristico, l’affresco di una quotidianità fatta di problemi e di modalità di risoluzione non sempre legittimi, di funerea sopravvivenza, di abitazioni squallide e di disoccupazione, dell’arrancare di ogni giorno, del consumo di droga e di alcol, dell’infanzia già troppo adulta, della separazione dal resto della nazione e del rintanamento imposto, come di una componente antica e religiosamente ricordata, con le preghiere e i riti e l’immagine dell’immenso bisonte che è un po’ il dio protettore dell’intera comunità. Basterebbe pensare a Matho, di dodici anni, qualche volta frequenta la scuola, più spesso scorribanda con altri ragazzini, cresce in fretta con un padre che è tossico e spacciatore: a cui ruba la droga, per essere cacciato di casa e trovare rifugio da una nonna che tiene tra le sue quattro pareti una centrale di spaccio. O al Bill ventitreenne (le due storie sono obbligate a incrociarsi), padre di due pargoli da due donne diverse, che cerca di tirar su un po’ di soldi con l’allevamento di cuccioli. S’accontenta di lavoretti al limite del legale e se il padrone bianco accampa scuse per non dargli il promesso, ecco che violenza ancora una volta si aggiunge a violenza. E la rabbia è destinata a continuare.

In un momento in cui le nuove generazioni hanno subito un grave impoverimento formativo e culturale a causa della pandemia, nel 2021


