SPETTACOLI- Pagina 160

Gli intrighi per salvare la collana di Lady Margaret alias Margherita Fumero

Sino a domenica 4 dicembre, sul palcoscenico del Gioiello

Chi l’ha detto che non si può, per un attimo, nell’esistenza dell’intramontabile Sherlock Holmes, tralasciare gli spazi chiusi e drammatici dello “Studio in rosso” o le distese oscure e nebbiose del “Mastino dei Baskerville”, per addentrarsi nelle strade più semplici, ma per questo non meno insidiose, del divertimento e della comicità, rigirando il famoso detective in un alter ego che stia a metà tra la dabbenaggine dell’ispettore Clouseau e le punte schizofreniche del Kranz del televisivo Paolo Villaggio?

È quel che hanno fatto Valerio Di Piramo e Cristian Messina (in triplice veste, aggiungendovi pure quella di veloce regista e interprete di uno spassosissimo Joseph Lastrada, più o meno capace di risolvere ogni intrigo, quanto presuntuoso, nelle sue vesti di Vice ispettore capo aggiunto di Scotland Yard) nel costruire i due atti di “Sherlock Holmes e il mistero di Lady Margaret”, sino a domani pomeriggio sul palcoscenico del Gioiello, con una raffica di tutti esauriti.

Negli ultimi mesi del 1899, il detective e il suo fidato assistente Watson sono stati chiamati a Old Artist, non lontano da Londra, un luogo di soggiorno per artisti a riposo, dalla proprietaria Miss Elizabeth, al fine di garantire la sicurezza di Miss Margaret Flower, carattere esuberante e imperioso, possessiva nei confronti della povera Scarlet, sua preziosa collaboratrice, invitata a trascorrere là alcuni giorni. Una sicurezza rivolta sì alla sua persona, quanto più alla preziosissima collana di smeraldi, di inestimabile valore, regalatale dalla regina Vittoria personalmente, che la grande attrice porta sempre con sé. Alloggiano a Old Artist pure sir Henry, vecchio attore, e Oliver Plum, vanaglorioso cantante lirico, ambedue in un passato ormai piuttosto lontano frequentatori delle scene e della vita e delle stanze della diva, con gli antagonismi necessariamente d’obbligo. A cui s’aggiungono quelli di Clarissa Glimmer, eterna rivale in più di una occasione. Lettere anonime, flaconi di medicine, perlustrazioni notturne, smemoratezze, piccoli indizi sparsi qua e là in bella costruzione, soluzioni a portata di mano e improvvise sorprese, morti annunciate e rinascite inspiegabili, travestimenti per mescolare meglio le acque. Chiaramente, nella divertente scrittura, pronta a tener d’occhio uno humour tutto britannico, battute glaciali immancabili ma ben piazzate, la soluzione finale è assicurata e il divertimento per il pubblico ricco di applausi non può non mancare.

Certo non è soltanto l’impianto a farti trascorrere quel paio d’ore allegre di cui il pubblico oggi sente il sacrosanto bisogno, lasciando a casa i problemi di vario tipo. Gli attori tutti, negli eleganti abiti di Linda Lingham e nella scena fissa d’antan di Monica Cafiero, macinano divertimento, dall’eccellente Holmes di Mauro Villata al Watson di Mario Bois, dal trio pettegolo e vendicativo Alfonso Rinaldi, Angelo Chionna (sue anche le spiritose musiche dello spettacolo) e Anna Cuculo, viperina antica collega che sa mettere un bel po’ d’esperienza nella sua Clarissa, Maria Occhiogrosso, direttrice dell’Old Artist in cattive acque finanziarie. Last but not least Margherita Fumero (un fan all’uscita continuava a ripeterle “grande grande grande”, quasi le cantasse Mina) che sa benissimo come si fa ad appropriarsi di un personaggio, a metterlo in primo piano, a far suo l’intero pubblico, a guardare negli angoli di lady Margaret per scoprirne appieno tutte le risorse di spessore e allegria.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Nicola Casale, alcuni momenti di “Sherlock Holmes e il misteri di lady Margaret: Margherita Fumero con Gina Perrucci e Maria Occhiogrosso; Mauro Villata e Mario Bois; Maria Occhiogrosso e Mauro Villata.

Sam Mendes e la sua dichiarazione d’amore al cinema

“Empire of Light”, fuori concorso al 40° TFF

È un film letterario, con le citazioni di Tennyson e di Auden, è un film musicale, con i tocchi al pianoforte estenuanti e precisi e con le note e le voci dei gruppi di quegli anni. È soprattutto un omaggio al cinema, quello di sapore ormai antico, quello con il luminoso pulviscolo che volteggia nel fascio di luce che fuoriesce dal proiettore, che gioca dentro quella cabina di proiezione con le immagini disordinate della Masina e di Brando e di tutto un universo in bianco e nero (un allontanarsi dal mondo, una sorta di “Nuovo cinema Paradiso” inglese, un mestiere trasmesso ad altri), che getta un ponte verso la felicità nella nostra personale esistenza. “La pellicola sono solo fotogrammi statici con in mezzo il buio. Il nostro nervo ottico ha un piccolo difetto e se riproduco la pellicola 24 fotogrammi al secondo si crea l’illusione del movimento, l’illusione della vita, non percepiamo il buio. Il mondo vede solo un raggio di luce e nulla avviene senza luce”, dice il vecchio proiezionista Norman (Toby Jones), che dopo anni sogna ancora a occhi aperti la propria maestria a collegare bobine e il suo mestiere fatto di movimenti perfetti.

“Empire of Light”, visto al 40° TFF fuori concorso, uno dei titoli più attesi della rassegna, è scritto e diretto da Sam Mendes (il regista che esordì con “American Beauty”, che ci ha dato due capitoli di 007 e che ha affrontato le trincee del primo conflitto mondiale con “1917”). Lo ha scritto in tempo di lockdown, uno di quei periodi oscuri che sembra al contrario essere stato fatto apposta per certi autori cinematografici (leggi anche Spielberg, Natale si porta appresso il suo autobiografico “The Fabelmans”) a raccogliere i ricordi della giovinezza, a costruire storie in cui la loro passione per l’immagine in movimento la potesse fare da padrone e reinventare. Reinventare il tempo, i colori, le atmosfere, i gusti, le macchie oscure. È il suo documento d’amore al cinema, come medicina, come supporto salvifico, la sua affermazione di “grande magia”. È il finire del 1980, i fuochi artificiali visti dalla terrazza dell’Empire – curvilinea sala art déco posata sul litorale di una piccola città della costa del sud britannico, con i suoi tappeti colorati e un po’ démodé, la grande vasca dei popcorn e le confezioni colorate di caramelle, le scale che salgono sinuose e gli ottoni ben lucidati, velluti rossi, i clienti che pretendono di portarsi dell’unto cibo in sala – annunceranno il nuovo anno. Si proietta “All that jazz” e “Gregory’s girl” e l’annuncio di una grande première con “Momenti di gloria”, con tanto di sindaco e autorità varie, sottratta alla catena di cinema Odeon, sul suo grande schermo mostra tutto l’orgoglio del proprietario Mr. Ellis, che ha l’occhio sinistro e arraffatore di Colin Firth. È la storia di Hilary (un ruolo di responsabile di sala ideato per Olivia Colman, premio Oscar e un paio di altre candidature: forse anche quest’anno tra le candidate?), bravissima, perfetta nel rendere appieno la solitudine, la voglia di rivolta, le frustrazioni, i sentimenti anche rabbiosi e sfatti, una donna di mezz’età che ha trovato tra i colleghi quella famiglia che non ha mai costruito, che tenta di buttarsi alle spalle un passato ferito da una condizione di malattia mentale, che sottostà ad una squallida relazione con Mr. Ellis, con tanto di masturbazioni in ufficio. Troverà in Stephen (l’emergente Michael Ward), origini caraibiche, giovanissimo ragazzo nero, ultimo arrivato nel gruppo, con sogni universitari e una carriera di architetto buttata verso il futuro, quegli affetti che sinora le sono stati negati, quella grande sala polverosa all’ultimo piano, chiusa da tempo (“una volta erano quattro sale”), è il loro rifugio e quel colombo che ha un’ala spezzata e che il ragazzo prende a curare è il simbolo, forse un po’ scontato ma altrettanto delicato, dell’amore che si fa dedizione completa.

Toby Jones and Micheal Ward in the film EMPIRE OF LIGHT. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2022 20th Century Studios All Rights Reserved.

 

È anche l’Inghilterra con la politica di quel periodo, i riferimenti al razzismo di Enoch Powell, sono le intimidazioni e le immagini degli skinheads che scorrazzano in moto davanti all’ingresso del cinema e, una volta entrati, s’avventano su Stephen.

Forse è cosa facile il versante razzista, forse è cosa più che facile l’unione tra lo sconquassato animo femminile e la gioia verso la vita del giovane ragazzo di colore: ma quegli attimi in cui Hilary, sempre vissuta al di fuori della sala, vi entra per la prima volta, tutta sola, a godersi “Oltre il giardino” di Ashby con il superbo Peter Sellers (“La vita è uno stato mentale” dice il giardiniere Chance, mentre immerge i piedi nell’acqua del laghetto), ecco che allora s’azzerano quelle piccole pecche che stanno nel tessuto cinematografico di Mendes. Altro capolavoro di interni (certi luci tiepide, certi chiaroscuri) e di esterni (il lungomare, la spiaggia, la luce della costa) per Roger Deakins (Oscar 2017 per “Blade Runner 2049” e nel 2019 per “1917”), un maestro geniale. Il film sarà sui nostri schermi il 23 febbraio 2023: e ne riparleremo, perché lo merita. Per intanto attendiamo i premi del 40° TFF.

Elio Rabbione

I sogni della ragazza muoiono nelle tenerezze dell’uomo maturo

Ultimi film in gara al 40° TFF

Con una certa convinzione, credo che con “Palm trees and power lines”, opera prima della statunitense Jamie Dack, siamo entrati in zona premi anzi nella precisa zona “del” premio massimo che la giuria del concorso dovrà assegnare. I presupposti ci sono tutti, appieno. È la storia di Lea, diciassettenne, carina ed esile, a trascorrere vuote giornate di fine estate prima che gli studi riprendano, studi di cui non sa bene quale sarà lo svolgimento. Gli svaghi preferiti sono le chiacchierate con l’amica del cuore Amber, il sole a prendere il sole a bordo piscina, il gossip sul cellulare, carino questo, adesso stai con quello, e le serate a bere con i ragazzi della compagnia, con il boy friend di turno avventurarsi in qualche incursione erotica di nessuna soddisfazione. A casa, il padre se n’è andato altrove a formare un’altra famiglia e con le madre, tutta presa dal lavoro e dai diversi spasimanti che la prendono e la scaricano in continuazione, il dialogo non esiste, soltanto cene mute, rimproveri e insoddisfazione.

Le pare di toccare il cielo con un dito quando casualmente incontra Tom, ragazzo dal viso indecifrabile, muscoli al punto giusto, che di anni ne ha trentaquattro: il doppio, esatto esatto. Lea non vede la differenza d’età, vede a poco a poco la fiducia che quel ragazzo le offre, i tramonti che le mostra, il suo atteggiamento protettivo, le tenerezze e i piccoli gesti con cui la conquista giorno dopo giorno, i semplici cibi con cui si prende cura di lei: e Lea – come noi spettatori -, con l’avanzare del tempo, guarda con affetto e poi con passione a questa inaspettata risorsa della propria vita, fino a quel punto in fondo banale. Qualche parola con una cameriera all’interno di una caffetteria, qualche telefonata di Tom tenuta appartata, piccoli segnali di cauta attenzione che Lea non teme mentre al contrario dovrebbero aprirle gli occhi – anche noi spettatori lo abbiamo fatto, ma da non troppo tempo -, farle scorgere l’autentica realtà del ragazzo premuroso. Che un giorno le dice di un suo amico che vorrebbe conoscerla, lei dovrebbe accettare ed essere carina con lui. La dolcezza di Lea si fa cupa, ma a suggerirci quanto la mente e i sentimenti umani possano essere quanto di più inspiegabili esista, la ragazza non può fare a meno del suo Tom.

Perché “Palm trees” (premiato al Sundance di quest’anno) ci pare così convincente? Per la scrittura del racconto e per la regia sempre “sofferta”, estremamente partecipe della Dack, il suo camuffare il comportamento maschile (un convincente Jonathan Tucker) con grande attenzione, il suo cadenzato accompagnare i due protagonisti attraverso l’affettività iniziale sino al momento di svelare le carte e far piombare ogni attimo in una tragedia che chissà quale futuro avrà. Sono i tempi giusti, i gesti di ognuno, le forzature sempre tenute lontane, le parole scelte per formare i due personaggi, a convincerci; come assai sensibile è l’interpretazione della giovanissima Lily McInerny, sicura promessa da tener d’occhio.

Crudo, violento, schermo di una cultura che non penseresti dietro le violenze di oggi, “Pamfir”, opera prima del regista ucraino Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk esce dal gruppo di pellicole selezionate per la Quinzaine quest’anno a Cannes, pensato sei anni fa e portato a compimento tra mille difficoltà, non ultima la guerra, con il contributo del TorinoFilmLab. Tratteggia un convincente ritratto del protagonista, Leonid soprannominato appunto Pamfir, lo segue con asprezza, illumina le sue azioni di colori rossastri che rimandano con immediatezza alla violenza, sostiene un eccellente ritmo nello svolgersi della storia. La storia di un uomo e del suo ritorno a casa, in un piccolo paese ai confini con la Romania, dopo un lungo tempo d’assenza. Ritrova la moglie e il figlio, la vecchia madre e il padre con cui non ha rapporti da anni, e una comunità che continua a vivere tra riti antichi, pressoché pagani, e l’occupazione che meglio e da più tempo viene svolta tra quei luoghi: il contrabbando. Quando Pamfir sarà costretto a risarcire i danni dell’incendio che ha coinvolto la piccola chiesa del paese e di cui il figlio Nazar è responsabile, la necessità di denaro lo vedrà costretto a riprendere le vecchie strade del trasporto delle merci attraverso i boschi: non certo in autonomia, dal momento che il boss del luogo, un rappresentante governativo, vuole tenere ogni cosa sotto il proprio controllo. In una rischiosa operazione in cui dovrebbe essere ingaggiato il figlio, Pamfir si sacrifica per l’ultima volta.

Elio Rabbione

Nelle immagini, scene tratte da “Palm trees and power lines” di Jamie Dack (USA) e da “Pamfir” del regista ucraino Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk, entrambi in concorso.

Note di Classica: Mikhail Pletnev e Frank Peter Zimmermann le “stelle” di dicembre

GLI APPUNTAMENTI MUSICALI 

Giovedì primo dicembre alle 20.30 e venerdì 2 alle 20 all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta  da Pablo Heras-Casado e con Frank Peter Zimmermann al violino, eseguirà musiche di Debussy, Stravinskij e Mahler. Sabato 3 alle 18 al teatro Vittoria, il quartetto vocale Ensemble Polifonic, presenta il terzo episodio di “Uno, Due, Tre e Oltre” con Antonio Valentino. Lunedì 5 alle 18 nell’aula magna del politecnico per Polincontri Musica, Carlo Guaitoli al pianoforte eseguirà un programma dal titolo “Battiato tra arte e impegno”.

Martedì 6 alle 20 al teatro Vittoria per l’Unione Musicale, Paolo Serazzi voce, Tommaso Santini  e Rossella Tucci violino, Giorgia Lenzo viola e Lucia Sacerdoni violoncello, eseguiranno “The Juliet Letters” , suite per voce e quartetto d’archi di Elvis Costello. Mercoledì 7 alle 20.30 e venerdì 9 alle 20, all’auditorium Toscanini, l’ Orchestra Rai diretta da James Conlon, eseguirà musiche di Mozart e Sostakovic. Lunedì 12 alle 20 al conservatorio, per l’Unione Musicale, Le Consort eseguirà musiche di Vivaldi, Reali, Uccellini, Bach. Sempre lunedì 12 alle 18, nell’aula Magna del politecnico per Polincontri Musica, Massimo Macrì violoncello e Roberto Prosseda pianoforte, eseguiranno un programma tutto dedicato a Mendelssohn. Mercoledì 14 alle 20.30, al Conservatorio per l’Unione Musicale, Mikhail Pletnev al pianoforte eseguirà musiche di Brahms e Dvorak. Giovedì 15 alle 20.30 e venerdì 16 alle 20, all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da James Conlon, eseguirà musiche di Britten e Sostakovic. Lunedì 19 alle 18, nell’aula magna del politecnico per Polincontri Musica, danzatori e danzatrici del Balletto Teatro di Torino, con le coreografie di Viola Scaglione e con Bastian Loewe violino e Stefano Musso pianoforte, eseguiranno musiche di Debussy, Faurè e Prokofev. Venerdì 23 alle 20.30, all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Fabio Luisi, eseguirà il “Concerto di Natale” con l’esecuzione della Sinfonia n.9 di Beethoven.

Pier Luigi Fuggetta

SCHEGGE di musica, diritti umani e altre storie

Il 3 dicembre 2022 a partire dalle 15:00, presso El Barrio, Str. Provinciale di Cuorgné 81 (TO), si terrà la prima edizione del festival SCHEGGE di musica, diritti umani e altre storie, curato da RETE ONG, MAIS E Scatti Vorticosi Records.

In occasione della Giornata Internazionale dei diritti delle persone con disabilità, il festival promuove la
convivenza tra musica, arte e gioco in uno spazio comune, dove cittadinanza attiva e partecipazione
diventano comuni denominatori. Una giornata per sensibilizzare, promuovere, diffondere, attraverso
linguaggi diversi, la “cultura della diversità”, in tutte le sue sfaccettature, celebrando i principi generali della
Convenzione ONU dei diritti delle persone con disabilità e all’interno di un più generale paradigma identitario
e di inclusione e integrazione sociale, in un ambiente totalmente child friendly.

Il festival si inserisce nell’ambito del progetto Crea(c)tive Youth -Giovani che cambiano il mondo, proposto
dal gruppo informale Quokkattivi, cofinanziato dalla Compagnia di San Paolo e realizzato con una rete di
partner istituzionali e del terzo settore, tra cui le ONG RETE E MAIS, che ha l’obiettivo generale di favorire
l’empowerment e la partecipazione giovanile insistendo sui valori indicati dagli Obiettivi di Sviluppo
Sostenibile dell’Agenda 2030, attraverso azioni che vanno dal rafforzamento delle reti territoriali ai corsi di
formazione, all’elaborazione di campagne di sensibilizzazione alla realizzazione di eventi culturali.

La giornata prevede un’alternanza armonica di più attività: laboratori ludico didattici per bambini e bambine
dai 3 ai 10 anni, mostra delle campagne di sensibilizzazione create dal gruppo informale Quokkattivi e
esibizioni musicali di una rosa di band attinente all’etichetta Scatti Vorticosi.

Il debutto di Pablo Heras Casado sul podio dell’Orchestra RAI di Torino

Frank Peter Zimmerman solista nel Concerto in Re Maggiore di Stravinskij

 

Giovedì primo dicembre, alle 20:30, presso l’Auditorium RAI “Arturo Toscanini” di Torino, si terrà il debutto del grande direttore spagnolo Pablo Heras Casado con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI.

La serata sarà trasmessa in diretta da Radio 3 e sul circuito Euroradio, in replica venerdì 2 dicembre alle 20:00, con una trasmissione in live streaming sul portale di RAI Cultura.

Pablo Heras Casado è ospite regolare di celebri orchestre quali i Berliner e i Wiener Philarmoniker, Munchen Philarmoniker, Orchestre de Paris, Symphonieorchester des BayerischenRundfunks, Orchestra di San Francisco, Orchestra di Philadelphia e di realtà prestigiose quali la Staatsoper Unter den linden di Berlino, il Metropolitan Opera di New York, il Festival di Aix – en – Provence e il Festspiel Baden Baden. Direttore ospite principale del Teatro Real di Madrid, nel 2021 è stato nominato artista dell’anno all’International Classic Music Awards.

Per il primo concerto con l’Orchestra Nazionale della RAI, proporrà il “Prélude á l’après midi d’un faune” di Claude Debussy, capolavoro sinfonico ispirato al poemetto simbolista di Stephane Mallarmé. Terminato nel 1894, eseguito per la prima volta il 22 dicembre del medesimo anno alla Societé Nationale di Parigi, sotto la direzione di Gustave Doret, il “Prélude” ha contribuito non poco a diffondere la fama di Debussy.

Ne rimase impressionato lo stesso Mallarmé che, dopo averlo ascoltato al pianoforte, prima dell’esecuzione orchestrale,commentò: ”Questa musica prolunga l’emozione dei miei versi e ne fissa lo scenario con più passione e efficacia di quanto non riuscirebbe a fare la pittura”. Nel “Prélude á l’après midi d’un faune”, la novità e la libertà della concezione hanno suscitato analisi diverse, sfuggendo ad una schematizzazione convenzionale. La continuità fluida del Prélude maschera l’articolazione della successione delle sezioni in una costruzione di tipo elusivo.

Fa parte della suggestione del Prélude il coesistere, fondersi, intrecciarsi di ricordi per lo più allusivi, e non sempre afferrabili nitidamente, oltre al profilarsi di un pensiero musicale nuovo. Il cambiamento del colore, il succedersi delle intuizioni timbriche assumono un peso formale decisivo. La melodia del flauto risulta senza accompagnamento, sospesa, di incetta definizione tonale. Il respiro nuovo che Boulez sottolinea in questa frase è degno della linea sonora e monotona creata dal fauno di Mallarmé sul suo strumento: un arabesco che si libra nel vuoto in una totale assenza di certezze. Iniziando sempre con la stessa nota, il flauto ripete sempre la sua melodia in situazioni mutevoli, proponendone delle sottili varianti. Le idee che si presentano nel corso del pezzo si rivelano affini alla melodia iniziale, fino al momento in cui viene presentata una idea lirica in Re Bemolle Maggiore.

La sezione centrale è preceduta da un primo sviluppo e rappresenta nel Prélude il momento meno lontano da echi del passato anche wagneriano. È caratterizzata dalla tensione di grandi archi melodici e da procedimenti armonici che sono concatenati secondo una logica famigliare.

Il tutto sfocia in una coda che si spegne e dissolve in un’atmosfera sospesa, come se la musica tornasse misteriosamente al silenzio, come ne era uscita. Nel Prélude Debussy risulta idealmente più vicino a Mallarmé, trovando degli accenti più personali. La serata proseguirà col concerto in Re Maggiore per violino e orchestra di Igor Stravinskij, scritto nel 1931 e eseguito nello stesso anno a Berlino.

Il concerto fa parte del periodo neoclassico dell’autore ed è stato composto con grande libertà da Stravinskij, articolato in quattro movimenti, piuttosto che nei canonici tre, per Samuel Dushkin, giovane violinista americano in grande ascesa. A interpretarlo sarà il grande violinista tedesco Frank Peter Zimmerman, che torna a suonare con la compagine RAI, con la quale ha un rapporto molto consolidato, avendo inciso il Concerto per il violino di Ferruccio Busoni e eseguito, in prima italiana, concerti quali quelli di Matthias Pintsher e Magnus Lindberg.

Heras Casado concluderà la serata con la Sinfonia N.1 in Re Maggiore di Gustav Mahler, nota con il soprannome di “Titano”, con la quale il compositore la denomina riferendosi al titolo di un omonimo romanzo di Jean Paul. La Sinfonia N.1 si accompagna all’infelice esperienza amorosa vissuta dal musicista con la cantante Johanna Richter a Lipsia, dove la composizione fu ultimata nel 1888.

Tenacemente radicata nello spirito del Romanticismo tedesco, è già proiettata oltre la realtà musicale del tempo. La partitura è tutto un riecheggiare di richiami alla natura, che mutano dalla innocente serenità Pastorale fino dell’inquietudine struggente e esasperata della modernità.

MARA MARTELLOTTA

Il coro Cai Uget celebra 75 anni di vita

Tre quarti di secolo significano longevità, successo, capacità di rinnovarsi ma soprattutto divertimento, senza il quale ogni attività del tempo libero perde interesse.

Significano capacità aggregative che solo la musica e il canto riescono a generare, come se fossero un collante naturale che mette insieme persone con storie e presente diversi, sovente distanti fra loro.

In settantacinque anni la compagine si è ovviamente rinnovata, il repertorio si è allungato e si è aperto alle novità. Il canto popolare e anche quello di montagna si sono evoluti: nuovi armonizzatori si sono presentati alla platea dei cori; alcuni di questi hanno convinto il nostro Coro.

Quello che è restato intatto nel tempo è lo spirito, lo stesso che ha animato Gilberto Zamara ed i suoi amici nell’ormai lontano 1947 e che oggi ci fa fare le ore piccole parlando liberamente di musica, provando accordi improbabili davanti ad una birra donata dai nostri amici tedeschi del DAV di Buchen o ad un Teroldego arrivato da Borgo Valsugana.

Forte è lo spirito di aiuto reciproco che ci contraddistingue, perché tante sono le professioni che i coristi rappresentano. Ma nel momento in cui il direttore aspira nel tonimetro – lo strumento che dà il primo accordo del brano – tutto si dimentica, tutto si cancella per concentrarsi su quei puntini neri e bianchi sul pentagramma e sulla magia delle armonie che quei puntini riescono a rappresentare su un foglio di carta.
I festeggiamenti per questo traguardo del Coro CAI Uget di Torino sono già iniziati, prima ospiti del Coro Valsella a Levico Terme a settembre, poi a Domodossola e a Cuneo, in ottobre e infine ospiti del Comune di Caprie, in una stracolma Chiesa di S. Rocco a Novaretto, a inizio novembre.

IL CORO CAI UGET

Premio Speciale 40 TFF a Giampiero Leo

Il Museo Nazionale del Cinema e il Torino Film Festival con la Fondazione CRT consegnano a Giampiero Leo un riconoscimento per l’importante opera di sostegno che negli anni ha riservato al TFF, il Premio Speciale 40° TFF per benemerenza. 

“La benemerenza, recitano i dizionari, definisce un merito definito e riconosciuto. Giampiero Leo, prima come consigliere comunale e poi come assessore regionale e sempre come persona intellettualmente libera e sensibile, è stato il baluardo che ha consentito a iniziative culturali come il TFF di esistere e di crescere. La sua intelligenza e la sua tenacia sono da tutti riconosciute, e il TFF con questo premio vuole solo unirsi ai tanti che negli anni hanno detto: grazie, amico Giampiero”.

Il Premio Speciale a Giampiero Leo sarà consegnato  giovedì 1 dicembre, alle ore 21.30 al Cinema Romano (sala 2), prima della proiezione ufficiale del film Perfetta Illusione di Pappi Corsicato.

Premio Stella della Mole a Malcom McDowell

 

Nell’edizione del quarantennale del Torino Film Festival, il Premio Stella della Mole va a Malcom McDowell, grande star del cinema internazionale.

“Per noi è un grande onore poter conferire il Premio Stella della Mole a Malcom McDowell – sottolineano Enzo Ghigo e Domenico De Gaetano, rispettivamente presidente e direttore del Museo Nazionale del CinemaLa prima premiata è stata Isabella Rossellini nel 2020 durante il TFF, in piena pandemia. Dopo di lei sono stati premiati grandi artisti come  Monica Bellucci, Xavier Dolan e Dario Argento. Ora è il turno di Malcom McDowell, un grande personaggio, vera icona del cinema internazionale, che con le sue interpretazioni ha segnato non solo la storia della settima arte ma anche e soprattutto l’immaginario collettivo di diverse generazioni”.

 

“Durante questo Torino Film Festival è stato per me un grande piacere trascorrere questo periodo qui in vostra compagnia – afferma Malcom McDowell dopo aver ricevuto il Premio Stella della Mole -, grazie per l’invito e grazie per lo straordinario Torino Film Festival. Torino ha anche questo meraviglioso Museo del Cinema, ne visitati molti nel mondo ma niente è paragonabile alla bellezza di questo museo. Grazie ancora, la vostra città è davvero meravigliosa, mi dispiace lasciare Torino. Pensavo di vedere una città molto simile a Manchester, pensavo che a Torino si fabbricassero le automobili della Fiat. In realtà è una città bellissima ed elegante, la più bella d’Italia”.

 

La motivazione.

Nella sua lunga carriera, Malcolm McDowell ha interpretato 270 film e in tutti ha lasciato un segno indelebile. Esordisce nel 1968 interpretando Mick Travis in If di Lindsay Anderson e già si fa portatore di una ribellione che caratterizzerà molte delle sue interpretazioni successive. Per il grande pubblico sarà sempre identificato con Alex DeLarge nel film di Stanley Kubrick Arancia meccanica, ma la sua fama di attore versatile è legata ai film più diversi, da Il bacio della pantera di Paul Schrader a Intrigo a Hollywood di Blake Edwards, da Mortacci di Sergio Citti, a I protagonisti di Robert Altman e Halloween di Rob Zombie. Tra i molti premi di cui è stato insignito il Nastro d’argento europeo nel 2005 per Evilenko di David Grieco.

I nativi d’America, i fantasmi del tunnel e le madri di sapori dittatoriali

Spagna, Giappone e Stati Uniti in concorso al 40° TFF

 

Staticità nipponica, immobilità cinematografica del Sol Levante: un prendere o lasciare, non c’è via di mezzo, per il pubblico di casa nostra. Un cinema chiuso, a tratti indecifrabile, fatto di sovrapposizioni, di un tempo che sfugge e si mostra confuso, di personaggi immateriali, di un mondo onirico che si rivela reale e viceversa; di riprese soprattutto che s’affidano totalmente alla camera fissa, estenuanti, lunghi corridoi notturni e no per portarci a due passi da una tragedia, insistiti, privi di uno sviluppo ma chiusi nel loro scorrere, l’attore posto non sai se più per vezzo o per abitudine di spalle a mostrare la nuca per manciate e manciate di secondi, o l’inquadratura di questo o quell’oggetto mentre l’unica presenza sono certi suoni o un pianto indecifrato o un intervento anonimo, frasi a brandelli, sesso giovanile meccanico e affatto risolto. “Nagisa” (in concorso) è diretto da Takeshi Kogahara, è la storia di un ragazzo, Fuminao, e di sua sorella Nagisa che da poco tempo hanno perduto la madre. La ragazza ha un incidente alle porte di Tokio, sull’autobus su cui viaggia per andare a trovare Fuminao, universitario nella capitale. Nagisa non lo abbandonerà del tutto, dopo pochi anni rivisitando più e più volte il tunnel che è stato il luogo della tragedia, il ragazzo sarà certo di rivederne il fantasma. Materia “surreale”, trattata attraverso cenni fine a se stessi, decine di episodi minimi, brevissimi, flashes aperti e presto chiusi, dove i contenuti non hanno assolutamente il tempo e la possibilità di irrobustirsi, di amalgamarsi, di legarsi l’uno all’altro: la materia, già impalpabile, si perde anche negli ultimi attimi, nelle immagini conclusive, quando un clima di normale allegria e affettività sembrerebbe spazzar via quanto di infelicemente sospeso abbiamo visto sinora.

Di area spagnola (coprodotto con l’Argentina da Alex de la Iglesia) “La pietad” del trentenne Eduardo Casanova, ormai osannato in patria, una delle promesse del cinema europeo, autore nel 2017 di “Pelle”, passato su Netflix, chiacchierato affresco di persone che, a causa delle loro deformità fisiche, sono costrette a nascondersi e a isolarsi dal resto del mondo. Anche con “La pietà” non si scherza. Libertad, nomen omen, detta Lili, donna non ancora cinquantenne (Angela Molina) e Mateo (Manuel Llunell) sono madre e figlio, vivono insieme in un vasto ed elegante appartamento dove il color rosa predomina e l’ordine regna. Il loro affetto è forte, sconfina nella passione, senza limiti la dipendenza dell’uno nell’altra, il mondo tagliato fuori, un padre e un marito che s’è rifatto una vita con un’altra donna. Lili pensa per il figlio, parla per lui, agisce al posto suo, riempie ogni sua necessità. Qualche più o meno piccola ribellione è cancellata sul nascere: il cancro, il tentativo di un’operazione, gli ultimi istanti di un padre che ha voluto porre fine alla propria esistenza, li uniranno più di prima. L’eleganza, la malattia, la morte, la dedizione reciproca, l’amore incondizionato di una madre per chi ha generato e cresciuto, spingono il regista a spiccare un volo che nessuno spettatore s’aspetterebbe mai: sta più o meno a due passi la Corea del Nord, con il proprio dittatore Kim Jong-un, padre di un popolo osannante e prono, pronto a versare fiumi di lacrime quando sarà il tempo della sua dipartita… perché non creare un bel dualismo, un serioso (quanto eccentrico!) paragone con questa madre-dittatora amabilmente in rosa? Ossessione, dipendenza, maternità, controllo, terrore e potere in un’orgia di melodramma, in scenografie raffinate, in un profumo d’Almodovar datato e scimmiottato che ti dà alla testa. Non è l’estrema rifinitura a disturbare, è quella morbosità insistita e bisturizzata e gelida a guastare in fondo l’embrione di una intera vicenda.

Ancora bandiera spagnola per il convincente “Mantìcore”, scritto e diretto da Carlos Vermut, a cui il festival sta dedicando una sezione speciale composta di quattro lungometraggi. Ha da poco superato i quaranta ma il suo nome non è tra i più frequentati dal nostro pubblico. Deve aver preso a prestito ben più di un’idea dalla sua vecchia professione di illustratore a “El mundo” o di ri-creatore della serie nipponica “Dragon Ball” se anche al suo protagonista Julian (un intenso Nacho Sànchez), ragazzo chiuso e senza legami affettivi, affida le immagini e le costruzioni al computer abituali della medesima professione. Quei video game di successo che porta avanti con l’editore partoriscono mostri, animali stranissimi, paesaggi e vicende inimmaginabili. All’inizio del film un incendio lo mette di fronte ad un bambino e al suo salvataggio, nel corso della storia con l’apparizione della giovane Diana (Zoe Stein, il viso bellissimo, una sorta di Demi Moore in “Ghost”) inizierà a vedere una finestra aperta sulla felicità. Ma i mostri non sono soltanto delle immagini, abitano dentro di noi, costantemente, quando pensi di averli cacciati, mostri che vivono nei nostri rapporti e nei nostri sentimenti, che puoi incontrare in ogni angolo: ma “Mantìcore” è anche la lotta per liberarci di essi, è la manifestazione delle nostre richieste d’amore, del bisogno che ne abbiamo, di amare e di essere amati, la lotta contro il buio e i silenzi che stiamo attraversando. Un film sincero, intimo, capace di rendere una felice scrittura dei personaggi, ben calibrato, che trova posto nel fuori concorso e che qualche distributore italiano dovrebbe con un minimo di coraggio proporre nei mesi prossimi.

In finale di carrellata, “War Pony” che nel maggio scorso, presentato a Cannes nella selezione ufficiale di “Un certain regard”, ha vinto la Caméra d’Or, il premio per la miglior opera prima, trasversale a tutta la selezione del 75° Festival. Potrebbe aver tutta l’aria di essere uno dei premiati anche al festival torinese. È un esordio promettente, che va dentro alle vicende e ai personaggi, ai luoghi degradati, che è un esempio di conduzione d’attori, che mette in campo appieno la naturalezza di adulti e ragazzini, che non nasconde i lati oscuri e duri di quanti portano avanti un’esistenza nella riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota; è la prima volta dietro la macchina da presa dell’attrice e modella Riley Keough (è anche nipote di Elvis Presley) che lo ha codiretto con Gina Gammell (anche produttrice). Una storia ottimamente trattata, che a tratti ha l’ambizione di accostarsi alla materia con sguardo documentaristico, l’affresco di una quotidianità fatta di problemi e di modalità di risoluzione non sempre legittimi, di funerea sopravvivenza, di abitazioni squallide e di disoccupazione, dell’arrancare di ogni giorno, del consumo di droga e di alcol, dell’infanzia già troppo adulta, della separazione dal resto della nazione e del rintanamento imposto, come di una componente antica e religiosamente ricordata, con le preghiere e i riti e l’immagine dell’immenso bisonte che è un po’ il dio protettore dell’intera comunità. Basterebbe pensare a Matho, di dodici anni, qualche volta frequenta la scuola, più spesso scorribanda con altri ragazzini, cresce in fretta con un padre che è tossico e spacciatore: a cui ruba la droga, per essere cacciato di casa e trovare rifugio da una nonna che tiene tra le sue quattro pareti una centrale di spaccio. O al Bill ventitreenne (le due storie sono obbligate a incrociarsi), padre di due pargoli da due donne diverse, che cerca di tirar su un po’ di soldi con l’allevamento di cuccioli. S’accontenta di lavoretti al limite del legale e se il padrone bianco accampa scuse per non dargli il promesso, ecco che violenza ancora una volta si aggiunge a violenza. E la rabbia è destinata a continuare.

 

Elio Rabbione

 

 

Nelle immagini, scene tratte da “Nagisa” del giapponese Takeshi Kogahara, da “La Pietad” con Angela Molina, dallo spagnolo “Manìcore” e dallo statunitense “War Pony” diretto dalla coppia femminile Riley Keough/Gina Gammell.