Lo spettacolo, nel cartellone dello Stabile torinese, alle Fonderie Limone sino al 3 aprile
Non conoscevo Alessandro Serra, non conoscevo il suo teatro, mea culpa, non conoscevo la sua compagnia, Teatropersona, con cui dal 1999 mette in scena le proprie opere e porta avanti una visione di teatro del tutto personale. Non ho conosciuto, mea culpa, quel suo “Macbettu” shakespeariano che aveva radici sarde, che ha portato in mezzo mondo e per cui ha vinto nel 2017 il Premio Ubu quale miglior spettacolo. L’ho conosciuto, poche sere fa, alle Fonderie Limone di Moncalieri, con “La tempesta”, ultima opera del grande Bardo (1611), spettacolo prodotto dagli Stabili di Torino e di Roma, da ERT e dal Sardegna Teatro, in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia e Compagnia Teatropersona, in scena sino al 3 aprile. Bellissima, entusiasmante sorpresa. Andando a memoria, mi ritrovavo ancora ancorato all’edizione di Binasco o, molto più in là, alle vele azzurre che ondeggiavano furiose sul palcoscenico del Lirico milanese per l’edizione di Strehler con Carraro e Giulia Lazzarini che volteggiava piena di timori a parecchi metri d’altezza: ho conosciuto, finalmente, la sua fame di impadronirsi totalmente della grande macchina teatrale che ha avviato giorno dopo giorno al debutto, non soltanto ha curato la regia, ma anche le luci, i suoni, i costumi. Ho conosciuto la sua genialità nel costruire la “sua” scena – un quadrato di legno chiaro e spoglio al centro del palcoscenico, l’isola del naufragio, a delineare e contenere lo svolgimento della vicenda, una superficie piana lievemente intervallata da impercettibili buchi o da più visibili fessure, benedette imperfezioni da sfruttare nello e per lo spettacolo; e nell’”inserire” (ma forse il termine è poca cosa e non rende la totale quanto entusiasmante bellezza visiva che ne deriva) i suoi attori, posizionarli, fermarli e renderli vivi ad ogni momento, arricchirli di animi e di gesti, di centralità e di destre e di sinistre, nel farli soffrire, amare, divertire, urlare, tradire, perdonare dentro lo spazio. Poi, oltre quella, come un taglio di Fontana, uno squarcio sul fondo che è il resto del mondo, un “altro” luogo che è l’origine delle varie entrate in scena, e certe sciabolate di luce, fiammeggianti, dai lati, grandiose come un grandioso bianco e nero cinematografico.
“La tempesta” di Serra ha un inizio che è un piccolo poema dentro lo spettacolo. Le urla dei naufraghi, la rabbia delle onde nei suoi colori grigiastri, il caos dei tanti suoni, il grande telo che avvolge ogni cosa e da cui Ariel – una eccellente Chiara Michelini, dolce, umana e persuasiva, leggera come i passi di danza con cui procede, l’interpretazione più convincente tra tutti e dodici gli attori che attraversano la scena – si sradicherà. Poi “La tempesta” s’avventura in un viaggio doloroso all’interno dei sentimenti umani, aggirandosi tra il sopruso e il tradimento, il potere violato e l’inganno e i pentimenti, tra l’amore di due anime giovani e sensibili, d’opposti genitori, quasi nuovi Romeo e Giulietta (Fabio Barone e Maria Irene Minelli, che convincono appieno), sino alla compassione e al perdono che lo spirito dell’aria farà conoscere e accettare al mago Prospero, vecchio sovrano spodestato. Mago di piccola taglia, quasi senza importanza, una magia “rozza”, capace tuttavia di far nascere tempeste e di imprigionare gli spiriti della natura, chiuso nel suo desiderio di vendetta e per troppo tempo privo di quella spiritualità e di quella trascendenza che dovrebbero indurlo ad uscirne fuori.
“Omaggiare il teatro con i mezzi del teatro”, dice Alessandro Serra. E dice ancora: “La magia del teatro risiede proprio in questa possibilità unica e irripetibile di accedere alle dimensioni metafisiche attraverso la cialtroneria di quattro assi di legno, una compagnia, pochi oggetti e un mucchietto di costumi rattoppati”. E “La tempesta” diventa un variopinto gioco di teatro nel teatro, un viaggio dicevamo doloroso e comico al tempo stesso per quegli intermezzi che hanno i lazzi di Stefano (con la napolitaneità di Vincenzo Del Prete che si ritaglia un buon successo) e Trinculo (un godibilissimo Massimiliano Poli), che paiono usciti da un’altra commedia, con la complicità di altre fonti, un omaggio fatto da un capocomico e dai suoi attori al teatro stesso, con gli stessi mezzi di cui il teatro vive. Prospero è il mago pronto a divenire il metteur en scène, colui che dispone e dirige e guida, nella propria magia e nella propria successiva umanità. Marco Sgrosso ne fa un personaggio solido e dignitoso, eccellente nel delineare la forza della paternità come gli aspetti anche negativi, il suo potere su Caliban (Jared McNeill), anche con quelle amare frange di colonialismo d’altro tempo esposte nella schiavitù e nella distruzione di una lingua.
Serra, prima che si spenga il guizzo finale di Ariel, ci apre la parete di fondo e ci lascia intravedere gli attori (o sono ancora i personaggi?) alle prese con i loro costumi, quegli stessi costumi che prima, scendendo dall’alto, hanno unito il cielo e il palcoscenico: la certezza della vita del teatro, del suo universo, del suo essere chiamato a risollevare i tempi bui. Tra le piccole e le grandi magie.
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Alessandro Serra; nell’ordine Maria Irene Minelli (Miranda) e Marco Sgrosso (Prospero); Chiara Michelini (Ariel); Jared McNeill (Caliban), Vincenzo del Prete (Stefano) e Massimiliano Poli (Trinculo); Jared Mc Neill (Caliban)