SPETTACOLI- Pagina 126

Torna sul podio dell’orchestra Nazionale della RAI James Conlon, direttore principale

mercoledì 7 dicembre con un programma di eccezione tra cui la Sinfonia n. 31 in Re Maggiore detta “Parigi”

 

 

Torna sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI James Conlon, suo direttore principale per quattro anni, dal 2016al 2020. Il concerto è in programma mercoledì 7 dicembre alle 20.30, all’Auditorium RAI Arturo Toscanini di Torino. La trasmissione avverrà in live streaming sul portale di RAI Cultura eil concerto sarà replicato venerdì 9 dicembre alle 20.

Conlon, direttore musicale dell’Opera di Los Angeles e consulente artistico della Baltimore Symphony Orchestra, per il suo ritorno con OSN RAI propone la Sinfonia N. 31 in Re maggiore K 297 detta “Parigi” di Wolfgang Amadeus Mozart, scritta nel 1778 alla fine di un viaggio durato più di un anno, che aveva portato il compositore, allora ventiduenne, da Mannheim alla capitale francese. Commissionata dalla società dei Concert Spirituel è stata concepita per piacere ad un pubblico che ne apprezzava lo stile brioso, pieno di colori e contrasti, tipici del sinfonismo parigino.

La Sinfonia K 297 viene chiamata “Paris” dalla città in cui fu scritta e alla cui prassi musicale è indubbiamente legata. L’insofferenza verso il provincialismo della sua città natale e la ricerca di una affermazione internazionale e di un impiego prestigioso, spinsero Mozart ad abbandonare Salisburgo per compiere un lungo viaggio ad Augsburg, Mannheim e Parigi. Mozart ha voluto comporre una sinfonia per la società del Concert Spirituel, eseguita nel giorno del Corpus Domini, che riscosse un successo straordinario. Abituato al ridotto organico strumentale della Corte di Salisburgo e a uno stile segnato dall’esperienza di Haydn, Mozart si trovò a scrivere per un grande complesso orchestrale, rispettando i canoni riconosciuti dal sincronismo parigino, cercando di emozionare il pubblico con particolari effetti eclatanti. Di questo concerto rimane testimonianza la lettera che fu inviata da Mozart, residente a Parigi, al padre, rimasto a Salisburgo, il 3 luglio 1778. Da questa si evince l’antipatia del compositore nei confronti della prassi musicale parigina.

Il concerto si conclude con la Sinfonia n. 4 in do minore op. 43 di Dmitrij Sostakovic, una delle composizioni più sperimentali del musicista russo. L’autore, fortemente sotto pressione per il clima di censura del regime staliniano, che aveva colpito la sua opera intitolata “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk”, la dovette ritirare per timore di pesanti ritorsioni destinate agli artisti che si opponevano al realismo socialista. La sinfonia vide la luce nel 1961, alcuni anni dopo la morte di Stalin.

I biglietti sono in vendita online sul sito dell’OSN RAI e presso l’Auditorium RAI di Torino.

Informazioni: 0118104653

MARA MARTELLOTTA

biglietteria.osn@rai.it

Station 2 Station al Civico di Chivasso

STATION 2 STATION – Le Vie delle Arti è un viaggio fatto di eventi sia popolari che di avanguardia che si snoderanno fino a venerdì 23 dicembre 2022.

Promosso da Il Mutamento, Station 2 Station è realizzato da un ampio partenariato di professionisti delle arti e del sociale attivi nell’educativa territoriale, nell’animazione interculturale, nell’empowerment, e nel community building.

La rassegna prosegue giovedì 8 dicembre alle ore 21:00 presso il  Teatrino Civico di Chivasso con lo  spettacolo teatrale con Eliana Cantone, musiche dal vivo di Elisa Fighera.

 

“La favola di un’altra giovinezza” propone un intreccio tra letteratura, cinema e teatro a partire dal romanzo di Mircea Eliade e dall’omonimo film di Francis Ford Coppola.

La storia segue le esperienze della protagonista italo-rumena Maria Piarulli, figlia di immigrati italiani in Romania alla fine dell’Ottocento.
All’età di 65 anni Maria vien colpita da un fulmine che, anziché ucciderla, le dona una nuova possibilità, una seconda giovinezza.

Una favola insolita e paradossale, un viaggio in chiave ironica e onirica verso la ricerca di una seconda possibilità di vita, di un’altra giovinezza.
Spettacolo vincitore del bando Kilowatt Festival Visionari 2013.

 

Biglietto: 5 euro

Ufficio Stampa: 333 430 97 09

Al Colosseo Noemi, Zalone, Ranieri

Stagione 2022-2023

Mercoledì 7 dicembre ore 21
NOEMI
Live 2022 – In concerto
poltronissima € 55,00 | poltrona € 45,00 | galleria A € 35,00 | galleria B € 25,00
Emersa grazie a X Factor come una delle voci più belle ed emozionanti della musica italiana degli ultimi anni, Noemi è riuscita a cavalcare l’onda del successo grazie a una voce inconfondibile in grado di misurarsi con il pop, il soul, l’R&B e il blues. Sorridente, allegra, travolgente e a volte anche irriverente, la cantante si è imposta in pochi anni come una delle artiste più talentuose del nostro Paese. È di casa al Festival di Sanremo e ha fatto breccia nel cuore degli italiani anche come coach di The Voice Of Italy.
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Giovedì 8 e venerdì 9 dicembre ore 21
Lunedì 12 e martedì 13 dicembre ore 21
Giovedì 15 e venerdì 16 dicembre ore 21
CHECCO ZALONE
Amore + Iva
sold out
Checco Zalone, forte di una comicità pungente e fuori dagli schemi, arriva finalmente in teatro e arriva al Colosseo con il suo nuovo spettacolo dal titolo Amore + Iva, scritto con Sergio Maria Rubino e Antonio Iammarino. L’artista pugliese tornerà sul palco undici anni dopo il Resto Umile World Tour e dopo aver battuto tutti i record della storia del cinema italiano con uno spettacolo totalmente inedito in cui musica, racconti, imitazioni e parodie saranno accompagnati dall’inconfondibile ironia di uno degli artisti più caleidoscopici e amati dal pubblico italiano.
A questo link il comunicato stampa completo.
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Sabato 10 dicembre ore 21
MASSIMO RANIERI
Tour 2022
sold out
Archiviata l’infinita sequela di standing ovation con i suoi show da “Sogno”, Ranieri torna a stregare dal vivo migliaia di spettatori con un nuovo spettacolo, un altro straordinario viaggio tra canto, recitazione e danza, brani cult, sketch divertenti e racconti inediti, per catturare e stupire ancora il pubblico con le grandi melodie senza tempo, i suoi brani più celebri e l’incanto affabulatorio della sua magistrale interpretazione.
(E attenzione! per soddisfare tutte le richieste il concerto tornerà al Teatro Colosseo il 15 marzo 2023!)

Massimo Ranieri ph Angelo Tortorella
Tutte le informazioni sul sito www.teatrocolosseo.it e sui profili social del Teatro.

“Nessuno può dirti che c’è solo una canzone degna di essere cantata“

Music Tales, la rubrica musicale 

Nessuno può dirti

che c’è solo una canzone degna di essere cantata

potrebbero cercare di dartela a bere

perché vedere una persona come te

li mette in difficoltà”

Ma devi creare la tua musica

cantare la tua canzone speciale

creare la tua musica anche se nessun altro

canta con te.”

Mama Cass è il simbolo della summer of love: vivi liberamente, suona liberamente, ama liberamente.un’etica positiva, solare che la presenza di ideali degli anni sessanta e lo stile di vita della California degli hippy.

Lei è la voce dei Mamas & Papas (Cass Elliot) nata a Baltimora (con il nome di Ellen Naomi n.d.r.) attraversa la storia del rock americano, segnando con la sua voce la sua imponente presenza scenica il decennio d’oro della musica, e finisce la sua vita nel 1974, proprio quando aveva deciso di non essere più se stessa.

La sua carriera inizia quindi nei primi anni 60 nella scena folk del Greenwich Village di New York.

Mama lavora al guardaroba del club the showplace ed intanto recita nel Musical “the Music Man”.

Canta anche contemporaneamente in un gruppo folk chiamato the Triumvirate.

Nel 1963 questo gruppo cambia nome (ne fanno parte anche Tim Rose e James Hendrix) esordiscono con una reinterpretazione di una famosa poesia per bambini intitolata “wynken, blynken, and Nod”.

Per un anno intero restano sulla cresta dell’onda registrano due album e anche alcuni spot commerciali sperimentando un suono definito pop folk.

Nel 1964 però Tim lascia la

band e da questa scissione nascono i Mamas & Papas ed i Lovin’ Spoonful.

Ellen comincia quindi a cantare in locali jazz.

Un giorno uno dei componenti convince John Philips, nome importante della discografia di quegli anni, ad andarla a sentire.

La sua voce lo incanta e partono tutti insieme per un viaggio ai Caraibi nelle isole Vergini e dopo alcune settimane di sperimentazione con acidi e melodie vocali, settimane in cui si finiscono tutti i soldi, decidono di intraprendere il viaggio verso la terra promessa del rock: la California.

E’ il 1965 e quando arrivano a Los Angeles in cerca di un’audizione, hanno composto una canzone a voi tutti nota che si intitola: “California Dreamin’ ”.

Quello è il pezzo che definisce un’epoca; esce nel novembre del 1965 e all’inizio non ha molto successo, finché una radio di Boston comincia a passarlo senza sosta.

La struttura melodica del pezzo è la descrizione di questa passeggiata in una giornata d’inverno sognando il sole della California, entrano nell’immaginario collettivo di un’intera generazione fino a far arrivare il brano al numero quattro della classifica americana ;

nel 1966 la grande scalata per questo gruppo che si insinua nelle orecchie di mezzo mondo. Ma la guerra in Vietnam sta spegnendo i sogni degli hippy, la Summer of Love è finita e anche i Mamas sono divisi da litigi e tradimenti e dalla troppa libertà nel sesso e nelle droghe.

La musica diventa solo ed esclusivamente più un impegno contrattuale fino a dissolvere il gruppo.


Lei esordisce come solista nel 1968 con il disco “dream a Little Dream” (che amo) seguito da altri singoli portati a termine molto faticosamente per mantenere fede al contratto stipulato con la Dunhill Records.

Faticoso il lavoro senza riscuotere successo quindi Cass vuole liberarsi del suo nome non vuole più essere la voce simbolo degli hippy.

Ellen nata il 16 aprile del 1967 firma un nuovo contratto con la RCA e pubblica altri due album ma ancora una volta il successo non arriva.

La sua carriera svolterà soltanto dopo aver conosciuto il manager di Peter Sellers, Allan Carr.

Quest’ultimo la riporta in un teatro, spingendola nel mondo del cabaret con uno show dedicato interamente a lei che debutta il 9 febbraio del 1973 e trionfa a Las Vegas.

Qui la sua voce torna brillare la trasformazione sembra completa. Nel luglio del 1974 vola a Londra per alcuni concerti Sold Out.

Alloggia nell’appartamento di un amico al numero 9 di Curzon Place
nella zona di Mayfair.

Il 28 luglio telefona alla sua amica Michelle Philips in lacrime, per raccontarle dell’accoglienza trionfale ricevuta, degli applausi del pubblico dell’emozione di sentirsi ancora una grande artista… Il giorno dopo viene ritrovata morta all’età di 32 anni.

La causa ufficiale è un infarto causato dall’obesità e da problemi cardiaci. Nel suo sangue non ci sono tracce di alcol o di stupefacenti era assolutamente pulita e pronta a ripartire ma il grande cuore della madre natura degli hippy non regge più.

Si spegne così, nel sonno, una voce simbolo degli anni 60.

Di fronte ad un insuccesso non ci si deve disperare, perché accade spesso che dai peggiori fallimenti nascono le più belle vittorie.”

Oggi vi propongo una rivisitazione di “Make your own kind of music”

reinterpretato da Paloma Faith. Fatemi sapere la vostra!


CHIARA DE CARLO

https://www.youtube.com/watch?v=PLaMYeMD9V4&ab_channel=MarkSummersCasting

scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

Ecco a voi gli eventi da non perdere!
 
Immagine incorporata

 

Altro e Oltre – visioni e incontri di cinema necessario. Tornare all’anormalità – più complesso di un virus

In occasione della Giornata Mondiale dei Diritti Umani

AICS Torino Aps presenta:

Cinema Fratelli Marx, corso Belgio 53, Torino
ANTEPRIMA ITALIANA
6 dicembre ore 21.00
Presenta il film il regista Stefano Virgilio Cipressi, 
intervengono Mauro Carazzato e Tiziana Raimondo di Emergency Torino.
Ingresso gratuito, sottoscrizione volontaria a favore di Emergency.
Il 6 dicembre ritorna, per il terzo appuntamento, Altro e Oltre – visioni e incontri di cinema necessario, la rassegna di cinema sociale promossa da AICS Torino Aps, ideata da Streeen-Lab Aps, in sinergia con la piattaforma Streeen.orgrealizzata anche grazie al sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo.
In occasione della Giornata Mondiale dei Diritti Umani, Altro e Oltre propone, in anteprima italiana, la visione di Tornare all’anormalità – più complesso di un virus – (2020, 82′), documentario realizzato da 9 registi in 8 paesi del mondo durante il picco pandemico. Diverso da qualunque altro film intimista abbiate visto sul periodo del covid -19, Tornare All’anormalità indaga con ruvida lucidità, l’impatto che l’emergenza sanitaria ha avuto in quei luoghi dove le disuguaglianze sociali preesistenti la pandemia hanno creato un’esplosione di diritti negati e crisi umanitarie.
Il film si apre nell’apparente calma, che presto si trasforma in inferno di Guayaquil, per poi portarci negli slum di Medellín, dove la morte pervade il quotidiano di tutti da sempre, restando intrappolati in Cina durante il lockdown, o ancora a fianco degli operai vittime sacrificali nell’Italia del “andrà tutto bene”, sbirciando la solitudine di un uomo anziano in Spagna, la corsa alle armi nell’America Trumpiana, i roghi in Amazonia, fino al macabro elenco delle vittime di violenza domestica chiuse in casa coi loro aguzzini ed assassini in Messico.
Un documentario complesso, nato dall’idea del regista romano Stefano Virgilio Cipressi, che firma l’episodio italiano, prodotto da Fujakkà – sostegno al cinema indipendente & Immagini da Finis Terrae.
Tornare all’anormalità – più complesso di un virus è stato presentato in anteprima mondiale sulla piattaforma Streeen.org, durante il lockdown, quando i cinema in tutto il mondo erano chiusi, e tutti i registi hanno voluto delvolvere i proventi dello streaming ad Emergency, per sostenere il lavoro che la ONG da sempre fa proprio in quelle comunità svantaggiate protagoniste delle loro storie.
Il film, presentato poi nei festival ad ogni latitudine, arriva in sala, dove le immagini meravigliosamente drammatiche, e prive di retorica, degli episodi che lo compongono, conquistano finalmente il grande schermo.
In contemporanea alla proiezione in sala, il film sarà disponibile gratuitamente su https://streeen.org/film/tornare-all-anormalita-altro-e-oltre-3/, in tutta Italia, esclusa Torino, dove invitiamo il pubblico a raggiungerci al cinema.
Tornare all’anormalità – più complesso di un virus 
UN FILM DOCUMENTARIO DI
Priscilla Aguirre Martínez,
Raíssa Dourado,
Diana Maria González,
Paulina Gutiérrez,
Lukas Jaramillo,
Juan Pablo Patiño,
Xabier Ortiz De Urbina,
Andrés Rico,
Stefano Virgilio Cipressi

Rock Jazz e dintorni: Umberto Tozzi e il Sunshine Gospel Choir

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. Al teatro Colosseo Umberto Tozzi presenta “Gloria Forever”, il tour che porta in giro per l’Italia.

Martedì. Allo Ziggy si esibisce Gianluca De Robertis. Ad Asti recital di Claudio Baglioni al teatro Alfieri mentre sempre ad Asti, il maestro del fingerpicking Luca Stricagnoli suona al Diavolo Rosso.

Mercoledì. Al Circolo della Musica di Rivoli suonano i Gazebo Penguins. Alle OGR raduno annuale degli “Amici di Piero” per 2 giorni con Casino Royale, Subsonica, Fratelli di Soledad, Statuto e Bianco. Il Sunshine Gospel Choir si esibisce per 2 sere consecutive al Concordia di Venaria. Allo Ziggy sono di scena i Rome. Al Teatro Colosseo canta Noemi.

Giovedì. Al Dash suona il quartetto di Max Gallo e Andrea Scagliarini. Al Blah Blah si esibiscono i The Monsters. Alle OGR secondo data per “Gli amici di Piero”con, Punkrears, Willie Peyote, Bandakadabra, Marlene Kuntz, Loschi Dezi, Ensi e Bluebeaters.

Venerdì. Al Jazz Club si esibiscono i 3Chic. Al Bunker rap con i Zyrtck e Spender. Al Magazzino sul Po sono di scena gli Underbar. Al Blah Blah sono di scena 3+Dead.

Sabato.  Al Peocio di Trofarello suonano i Reb Beach. Al Teatro Colosseo recital di Massimo Ranieri. Allo Ziggy  si esibisce il duo Spacca il Silenzio. Al cinema Massimo sonorizzazione di Stefano Pilia, Adrian Utley e Paolo Spaccamonti del film “ L’uomo con la macchina da presa” di Dziga Vertov. Al Folk Club concerto del chitarrista Pierre Bensusan.

Domenica. Al Garybaldi di Settimo suona l’arpista Cecilia con Jefferson Hamer e Alex Gariazzo. All’Hiroshima Mon Amour reggae con Alboriose.

Pier Luigi Fuggetta

Torino Film Festival, ecco tutti i premiati

Un cinema al femminile per la diciassettenne irrequieta e i nativi d’America

Quando pochi giorni fa scrivevo che “con “Palm trees and power lines”, opera prima della statunitense Jamie Dack, siamo entrati in zona premi anzi nella precisa zona ‘del’ premio massimo che la giuria del concorso dovrà assegnare”, lo scrivevo “con una certa convinzione”. La vicenda di Lea, diciassettenne, con una famiglia assente o disattenta con cui convivere, i cui svaghi di fine estate, prima che la scuola inizi, sono le chiacchierate tra gossip e uso smodato del cellulare nonché le bevute con gli amici e le incursioni del boyfriend di turno in territorio erotico, mi aveva convinto appieno. Mi aveva convinto la scrittura, precisa nello svolgimento, preziosamente cadenzata, grazie alla quale era analizzata la relazione con un ragazzo che ha il doppio della sua età, che si prende cura di lei, che è un concentrato di tenerezze, che le mostra tramonti rosati ma che un giorno si mostra ai suoi occhi per quel che realmente è. Mi aveva convinto il cammino della Dack nel costruire scena dopo scena il camuffamento di Tom, quel lento accompagnare i protagonisti dall’affettività iniziale sino al volgersi in giovanile tragedia, con un possibilissimo colpo di teatro finale, tra lacrime e l’attesa di un domani che non sai bene quale potrà essere, il tutto con tempi giusti, i gesti di ognuno, le forzature sempre tenute lontane, la scelta esatta delle parole e dei piccoli particolari. La giuria del concorso internazionale lungometraggi del 40° TFF, composta da Nella Banfi, Fabio Ferzetti, Mike Kaplan, Fernando E. Juan Lima e Martina Parenti, credo abbia riconosciuto queste, e certo molte altre, componenti a “Palm trees” premiandolo come miglior film (che quantificato in quattrini sono 18.000 Euro) e per la migliore sceneggiatura.

Il premio speciale della giuria è andato al francese “Rodeo” di Lola Quivoron, che s’è portato via anche quello per la miglior attrice, a Julie Ledrou, reginetta di un gruppo di motociclisti acrobatici; mentre i migliori attori, forse un po’ sopravvalutati, sono stati giudicati Jojo Bapteise Whiting e Ladainian Crazy Thunder per “War Pony” diretto dalla coppia Riley Keough e Gina Gammell. Le quali, con grandi meriti, concludono questa lista tutta al femminile, di autrici cinematografiche che hanno predominato nel panorama dei dodici film in concorso, riaffermano l’impegno e la passione, la sensibilità e magari la rabbia della donna dietro la macchina da presa. Ha vinto il cinema targato USA, forse più forte e agguerrito nell’intimità delle storie come nell’esprimere il disagio e la povertà di una parte della nazione ancora adesso tenuta ai margini, la durezza della quotidianità, lo squallore dei luoghi e i metodi non sempre legittimi per sopravvivere.

Un panorama che allinea punte di diamante (il Premio Scuola Holden ha assegnato il premio per la miglior sceneggiatura ancora a “War Pony”, “per la naturalezza e l’originalità con cui racconta il contesto dei nativi americani nelle riserve contemporanee. Per l’equilibrio nella gestione delle due linee narrative. Per la coerenza del linguaggio e dello sviluppo dei personaggi. Per l’uso efficace e mai eccessivo del simbolismo”; il premio Valdata della giuria dei lettori di TorinoSette è stato vinto da “Pamfir” dell’ucraino Dmytro Sukholitkyy-Sobchuk, “per la qualità della regia, la bellezza dei piani sequenza e attori perfettamente aderenti a un microcosmo familiare, allegoria di una storia universale”), ma che si rivela quanto poco rassicurante sulla società di oggi e sui tempi, sulla solitudine e sull’incertezza, sulla freddezza dei sentimenti, sul vuoto che avanza e sul pericolo, da qualunque parte venga.

Questi i premi del festival che Steve Della Casa, per la seconda volta chiamato a dirigere, e già destinato a rinverdire anche l’edizione 2023, ha costruito con piglio più che personale, scegliendo prima di tutto un carnet di titoli di tutto rispetto, prendendo a prestito occasioni dall’ambiente musicale, eliminando certo superfluo degli anni scorsi, cancellando ancora una volta e come meglio si conviene i red carpet che a Torino ci starebbero davvero come i cavoli a merenda, raddrizzando certe frange troppo cinefile e scegliendo di mostrare anche quelle immagini di ieri che in tutto il bene e in tutto il male non si sono facilmente dimenticate. Ha festeggiato i quaranta nell’omaggio e nel ricordo del suo maestro Gianni Rondolino e con un riconoscimento a Giampiero Leo, da sempre vicino al mondo del festival, sia in veste di assessore che di consigliere. Ha raccolto un eccellente numero di ospiti, a cominciare da Malcom McDowell: poi, per la serie non siamo mai contenti, ha infilato anche i nomi di Vialli e Mancini, della Simona Ventura alla sua prima esperienza da regista, della canterina Noemi, del mago Otelma dulcis in fundo, che nella settima arte non sai proprio come collocarli. Ma tutto fa notizia e titoloni. Evviva per le masterclass, se dopo aver fatto la coda ti aspettano i nomi di Toni Servillo, Mario Martone, Paolo Sorrentino, maestri a tutto tondo. Evviva per la Casa Festival, luogo protetto per il pubblico in cerca d’emozioni autentiche e per i giornalisti, fatta di gentilezza, di sveltezza e di consigli saggiamente distribuiti. Occhio per il prossimo anno al punto metallico che fa da calendario per le proiezioni e che ci accompagna per l’intera settimana: non toglieteci, nelle pagine al fondo, l’elenco dei vari titoli e dei loro passaggi completi e raggruppati. Una vera comodità di distribuzione di cui da più parti si è sentita la mancanza.

Elio Rabbione

Nella foto “Palm trees and power lines” diretto da Jamie Dack, miglior film e migliore sceneggiatura;

 

Gli intrighi per salvare la collana di Lady Margaret alias Margherita Fumero

Sino a domenica 4 dicembre, sul palcoscenico del Gioiello

Chi l’ha detto che non si può, per un attimo, nell’esistenza dell’intramontabile Sherlock Holmes, tralasciare gli spazi chiusi e drammatici dello “Studio in rosso” o le distese oscure e nebbiose del “Mastino dei Baskerville”, per addentrarsi nelle strade più semplici, ma per questo non meno insidiose, del divertimento e della comicità, rigirando il famoso detective in un alter ego che stia a metà tra la dabbenaggine dell’ispettore Clouseau e le punte schizofreniche del Kranz del televisivo Paolo Villaggio?

È quel che hanno fatto Valerio Di Piramo e Cristian Messina (in triplice veste, aggiungendovi pure quella di veloce regista e interprete di uno spassosissimo Joseph Lastrada, più o meno capace di risolvere ogni intrigo, quanto presuntuoso, nelle sue vesti di Vice ispettore capo aggiunto di Scotland Yard) nel costruire i due atti di “Sherlock Holmes e il mistero di Lady Margaret”, sino a domani pomeriggio sul palcoscenico del Gioiello, con una raffica di tutti esauriti.

Negli ultimi mesi del 1899, il detective e il suo fidato assistente Watson sono stati chiamati a Old Artist, non lontano da Londra, un luogo di soggiorno per artisti a riposo, dalla proprietaria Miss Elizabeth, al fine di garantire la sicurezza di Miss Margaret Flower, carattere esuberante e imperioso, possessiva nei confronti della povera Scarlet, sua preziosa collaboratrice, invitata a trascorrere là alcuni giorni. Una sicurezza rivolta sì alla sua persona, quanto più alla preziosissima collana di smeraldi, di inestimabile valore, regalatale dalla regina Vittoria personalmente, che la grande attrice porta sempre con sé. Alloggiano a Old Artist pure sir Henry, vecchio attore, e Oliver Plum, vanaglorioso cantante lirico, ambedue in un passato ormai piuttosto lontano frequentatori delle scene e della vita e delle stanze della diva, con gli antagonismi necessariamente d’obbligo. A cui s’aggiungono quelli di Clarissa Glimmer, eterna rivale in più di una occasione. Lettere anonime, flaconi di medicine, perlustrazioni notturne, smemoratezze, piccoli indizi sparsi qua e là in bella costruzione, soluzioni a portata di mano e improvvise sorprese, morti annunciate e rinascite inspiegabili, travestimenti per mescolare meglio le acque. Chiaramente, nella divertente scrittura, pronta a tener d’occhio uno humour tutto britannico, battute glaciali immancabili ma ben piazzate, la soluzione finale è assicurata e il divertimento per il pubblico ricco di applausi non può non mancare.

Certo non è soltanto l’impianto a farti trascorrere quel paio d’ore allegre di cui il pubblico oggi sente il sacrosanto bisogno, lasciando a casa i problemi di vario tipo. Gli attori tutti, negli eleganti abiti di Linda Lingham e nella scena fissa d’antan di Monica Cafiero, macinano divertimento, dall’eccellente Holmes di Mauro Villata al Watson di Mario Bois, dal trio pettegolo e vendicativo Alfonso Rinaldi, Angelo Chionna (sue anche le spiritose musiche dello spettacolo) e Anna Cuculo, viperina antica collega che sa mettere un bel po’ d’esperienza nella sua Clarissa, Maria Occhiogrosso, direttrice dell’Old Artist in cattive acque finanziarie. Last but not least Margherita Fumero (un fan all’uscita continuava a ripeterle “grande grande grande”, quasi le cantasse Mina) che sa benissimo come si fa ad appropriarsi di un personaggio, a metterlo in primo piano, a far suo l’intero pubblico, a guardare negli angoli di lady Margaret per scoprirne appieno tutte le risorse di spessore e allegria.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Nicola Casale, alcuni momenti di “Sherlock Holmes e il misteri di lady Margaret: Margherita Fumero con Gina Perrucci e Maria Occhiogrosso; Mauro Villata e Mario Bois; Maria Occhiogrosso e Mauro Villata.

Sam Mendes e la sua dichiarazione d’amore al cinema

“Empire of Light”, fuori concorso al 40° TFF

È un film letterario, con le citazioni di Tennyson e di Auden, è un film musicale, con i tocchi al pianoforte estenuanti e precisi e con le note e le voci dei gruppi di quegli anni. È soprattutto un omaggio al cinema, quello di sapore ormai antico, quello con il luminoso pulviscolo che volteggia nel fascio di luce che fuoriesce dal proiettore, che gioca dentro quella cabina di proiezione con le immagini disordinate della Masina e di Brando e di tutto un universo in bianco e nero (un allontanarsi dal mondo, una sorta di “Nuovo cinema Paradiso” inglese, un mestiere trasmesso ad altri), che getta un ponte verso la felicità nella nostra personale esistenza. “La pellicola sono solo fotogrammi statici con in mezzo il buio. Il nostro nervo ottico ha un piccolo difetto e se riproduco la pellicola 24 fotogrammi al secondo si crea l’illusione del movimento, l’illusione della vita, non percepiamo il buio. Il mondo vede solo un raggio di luce e nulla avviene senza luce”, dice il vecchio proiezionista Norman (Toby Jones), che dopo anni sogna ancora a occhi aperti la propria maestria a collegare bobine e il suo mestiere fatto di movimenti perfetti.

“Empire of Light”, visto al 40° TFF fuori concorso, uno dei titoli più attesi della rassegna, è scritto e diretto da Sam Mendes (il regista che esordì con “American Beauty”, che ci ha dato due capitoli di 007 e che ha affrontato le trincee del primo conflitto mondiale con “1917”). Lo ha scritto in tempo di lockdown, uno di quei periodi oscuri che sembra al contrario essere stato fatto apposta per certi autori cinematografici (leggi anche Spielberg, Natale si porta appresso il suo autobiografico “The Fabelmans”) a raccogliere i ricordi della giovinezza, a costruire storie in cui la loro passione per l’immagine in movimento la potesse fare da padrone e reinventare. Reinventare il tempo, i colori, le atmosfere, i gusti, le macchie oscure. È il suo documento d’amore al cinema, come medicina, come supporto salvifico, la sua affermazione di “grande magia”. È il finire del 1980, i fuochi artificiali visti dalla terrazza dell’Empire – curvilinea sala art déco posata sul litorale di una piccola città della costa del sud britannico, con i suoi tappeti colorati e un po’ démodé, la grande vasca dei popcorn e le confezioni colorate di caramelle, le scale che salgono sinuose e gli ottoni ben lucidati, velluti rossi, i clienti che pretendono di portarsi dell’unto cibo in sala – annunceranno il nuovo anno. Si proietta “All that jazz” e “Gregory’s girl” e l’annuncio di una grande première con “Momenti di gloria”, con tanto di sindaco e autorità varie, sottratta alla catena di cinema Odeon, sul suo grande schermo mostra tutto l’orgoglio del proprietario Mr. Ellis, che ha l’occhio sinistro e arraffatore di Colin Firth. È la storia di Hilary (un ruolo di responsabile di sala ideato per Olivia Colman, premio Oscar e un paio di altre candidature: forse anche quest’anno tra le candidate?), bravissima, perfetta nel rendere appieno la solitudine, la voglia di rivolta, le frustrazioni, i sentimenti anche rabbiosi e sfatti, una donna di mezz’età che ha trovato tra i colleghi quella famiglia che non ha mai costruito, che tenta di buttarsi alle spalle un passato ferito da una condizione di malattia mentale, che sottostà ad una squallida relazione con Mr. Ellis, con tanto di masturbazioni in ufficio. Troverà in Stephen (l’emergente Michael Ward), origini caraibiche, giovanissimo ragazzo nero, ultimo arrivato nel gruppo, con sogni universitari e una carriera di architetto buttata verso il futuro, quegli affetti che sinora le sono stati negati, quella grande sala polverosa all’ultimo piano, chiusa da tempo (“una volta erano quattro sale”), è il loro rifugio e quel colombo che ha un’ala spezzata e che il ragazzo prende a curare è il simbolo, forse un po’ scontato ma altrettanto delicato, dell’amore che si fa dedizione completa.

Toby Jones and Micheal Ward in the film EMPIRE OF LIGHT. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2022 20th Century Studios All Rights Reserved.

 

È anche l’Inghilterra con la politica di quel periodo, i riferimenti al razzismo di Enoch Powell, sono le intimidazioni e le immagini degli skinheads che scorrazzano in moto davanti all’ingresso del cinema e, una volta entrati, s’avventano su Stephen.

Forse è cosa facile il versante razzista, forse è cosa più che facile l’unione tra lo sconquassato animo femminile e la gioia verso la vita del giovane ragazzo di colore: ma quegli attimi in cui Hilary, sempre vissuta al di fuori della sala, vi entra per la prima volta, tutta sola, a godersi “Oltre il giardino” di Ashby con il superbo Peter Sellers (“La vita è uno stato mentale” dice il giardiniere Chance, mentre immerge i piedi nell’acqua del laghetto), ecco che allora s’azzerano quelle piccole pecche che stanno nel tessuto cinematografico di Mendes. Altro capolavoro di interni (certi luci tiepide, certi chiaroscuri) e di esterni (il lungomare, la spiaggia, la luce della costa) per Roger Deakins (Oscar 2017 per “Blade Runner 2049” e nel 2019 per “1917”), un maestro geniale. Il film sarà sui nostri schermi il 23 febbraio 2023: e ne riparleremo, perché lo merita. Per intanto attendiamo i premi del 40° TFF.

Elio Rabbione

I sogni della ragazza muoiono nelle tenerezze dell’uomo maturo

Ultimi film in gara al 40° TFF

Con una certa convinzione, credo che con “Palm trees and power lines”, opera prima della statunitense Jamie Dack, siamo entrati in zona premi anzi nella precisa zona “del” premio massimo che la giuria del concorso dovrà assegnare. I presupposti ci sono tutti, appieno. È la storia di Lea, diciassettenne, carina ed esile, a trascorrere vuote giornate di fine estate prima che gli studi riprendano, studi di cui non sa bene quale sarà lo svolgimento. Gli svaghi preferiti sono le chiacchierate con l’amica del cuore Amber, il sole a prendere il sole a bordo piscina, il gossip sul cellulare, carino questo, adesso stai con quello, e le serate a bere con i ragazzi della compagnia, con il boy friend di turno avventurarsi in qualche incursione erotica di nessuna soddisfazione. A casa, il padre se n’è andato altrove a formare un’altra famiglia e con le madre, tutta presa dal lavoro e dai diversi spasimanti che la prendono e la scaricano in continuazione, il dialogo non esiste, soltanto cene mute, rimproveri e insoddisfazione.

Le pare di toccare il cielo con un dito quando casualmente incontra Tom, ragazzo dal viso indecifrabile, muscoli al punto giusto, che di anni ne ha trentaquattro: il doppio, esatto esatto. Lea non vede la differenza d’età, vede a poco a poco la fiducia che quel ragazzo le offre, i tramonti che le mostra, il suo atteggiamento protettivo, le tenerezze e i piccoli gesti con cui la conquista giorno dopo giorno, i semplici cibi con cui si prende cura di lei: e Lea – come noi spettatori -, con l’avanzare del tempo, guarda con affetto e poi con passione a questa inaspettata risorsa della propria vita, fino a quel punto in fondo banale. Qualche parola con una cameriera all’interno di una caffetteria, qualche telefonata di Tom tenuta appartata, piccoli segnali di cauta attenzione che Lea non teme mentre al contrario dovrebbero aprirle gli occhi – anche noi spettatori lo abbiamo fatto, ma da non troppo tempo -, farle scorgere l’autentica realtà del ragazzo premuroso. Che un giorno le dice di un suo amico che vorrebbe conoscerla, lei dovrebbe accettare ed essere carina con lui. La dolcezza di Lea si fa cupa, ma a suggerirci quanto la mente e i sentimenti umani possano essere quanto di più inspiegabili esista, la ragazza non può fare a meno del suo Tom.

Perché “Palm trees” (premiato al Sundance di quest’anno) ci pare così convincente? Per la scrittura del racconto e per la regia sempre “sofferta”, estremamente partecipe della Dack, il suo camuffare il comportamento maschile (un convincente Jonathan Tucker) con grande attenzione, il suo cadenzato accompagnare i due protagonisti attraverso l’affettività iniziale sino al momento di svelare le carte e far piombare ogni attimo in una tragedia che chissà quale futuro avrà. Sono i tempi giusti, i gesti di ognuno, le forzature sempre tenute lontane, le parole scelte per formare i due personaggi, a convincerci; come assai sensibile è l’interpretazione della giovanissima Lily McInerny, sicura promessa da tener d’occhio.

Crudo, violento, schermo di una cultura che non penseresti dietro le violenze di oggi, “Pamfir”, opera prima del regista ucraino Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk esce dal gruppo di pellicole selezionate per la Quinzaine quest’anno a Cannes, pensato sei anni fa e portato a compimento tra mille difficoltà, non ultima la guerra, con il contributo del TorinoFilmLab. Tratteggia un convincente ritratto del protagonista, Leonid soprannominato appunto Pamfir, lo segue con asprezza, illumina le sue azioni di colori rossastri che rimandano con immediatezza alla violenza, sostiene un eccellente ritmo nello svolgersi della storia. La storia di un uomo e del suo ritorno a casa, in un piccolo paese ai confini con la Romania, dopo un lungo tempo d’assenza. Ritrova la moglie e il figlio, la vecchia madre e il padre con cui non ha rapporti da anni, e una comunità che continua a vivere tra riti antichi, pressoché pagani, e l’occupazione che meglio e da più tempo viene svolta tra quei luoghi: il contrabbando. Quando Pamfir sarà costretto a risarcire i danni dell’incendio che ha coinvolto la piccola chiesa del paese e di cui il figlio Nazar è responsabile, la necessità di denaro lo vedrà costretto a riprendere le vecchie strade del trasporto delle merci attraverso i boschi: non certo in autonomia, dal momento che il boss del luogo, un rappresentante governativo, vuole tenere ogni cosa sotto il proprio controllo. In una rischiosa operazione in cui dovrebbe essere ingaggiato il figlio, Pamfir si sacrifica per l’ultima volta.

Elio Rabbione

Nelle immagini, scene tratte da “Palm trees and power lines” di Jamie Dack (USA) e da “Pamfir” del regista ucraino Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk, entrambi in concorso.