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27 gennaio, l’indelebile memoria della Shoah

Con vibranti parole il presidente Mattarella celebrò lo scorso anno il Giorno della memoria. “Mai più!” scandì il capo dello Stato nel salone del Quirinale con alle spalle la foto dei bambini aggrappati al filo spinato di Auschwitz.

Una denuncia forte di fronte al diffuso riemergere dell’antisemitismo, dell’intolleranza, del razzismo e del negazionismo. Disse Mattarella: “Mai più a uno Stato che calpesta libertà e diritti. Mai più a una società che discrimina, divide, isola e perseguita. Mai più a una cultura o a una ideologia che inneggia alla superiorità razziale, all’intolleranza, al fanatismo “. Potremmo aggiungere, senza pericolo di smentita, come italiani: mai più fascismo. Quest’anno il giorno dell’abbattimento dei cancelli del lager di Auschwitz, ricordando la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia e la morte nei campi di sterminio nazisti sterminio, verrà celebrato per la seconda volta con un governo di destra al potere. Tira una brutta aria nel paese. L’estrema destra italiana ha varcato la soglia delle istituzioni senza davvero fare i conti con il passato. Un grumo di silenzi, omissioni, frasi apparentemente isolate come quelle sulla banda musicale di semi-pensionati di via Rasella, le braccia tese nei saluti romani di Acca Larentia, le aggressioni verbali e un linguaggio sempre più violento sui social.  Un clima che, in tempo segnato dai conflitti tra l’est europeo e il medio oriente, dalle stragi di innocenti e dai venti di guerra che soffiano impetuosi ai quattro angoli del globo, si avvelena ogni giorno di più. Oltretutto persiste, e si rafforza, il tentativo sistematico di delegittimare la Resistenza, per erodere le basi storiche, morali, culturali e politiche della repubblica. Con frasi provocatorie, volute mistificazioni e manipolazioni della verità storica si crea un contesto che porta diritto a un negazionismo subdolo, insidioso. I dirigenti della destra dovrebbero dire con molta semplicità: si è democratici perché si è antifascisti. Altrimenti sembra continuamente che ci sia da parte loro una specie di ignavia, di equidistanza tra fascismo e antifascismo. Va bene affermare che “il fascismo è stato archiviato e consegnato alla storia” ma questo non può esimere dal dare un giudizio storico e politico. Non è un tema accademico, ma di assoluta attualità, perché presuppone la visione del mondo e della società che si ha. E guardando alle politiche concrete che la destra propone è palese la visione che ne ispira le azioni e i progetti. Tornando a Mattarella non è casuale il suo insistere sul valore della memoria senza concedere spazi a tentazioni di assurde equiparazioni o pacificazioni. Mattarella, nei suoi vari interventi, ha esaltato i giusti che salvarono gli ebrei ricordando però che ci fu anche chi invece consegnò per denaro gli ebrei ai nazifascisti. La Repubblica di Salò, sorta dopo l’8 settembre, era nei fatti alleata e complice dell’occupante nazista e, come più volte sottolineato dal Presidente della Repubblica, non si possono “dimenticare le sofferenze patite dai nostri militari, internati nei campi di prigionia tedesca, dopo il rifiuto di passare nelle file della Repubblica di Salò”. O quel novembre 1938, quando entrò in vigore il decreto legge numero 1728 voluto dal fascismo: le famigerate leggi razziali. Una storia dolorosa che ha dei padri politici perché la storia non è neutra. Mattarella citò Bertolt Brecht: “Non incolpare il destino, o donna! Le potenze oscure che ti dilaniano hanno un nome, un indirizzo, un volto “. Parole chiarissime, indelebili, scolpite nel tempo. Ricordare e trasmettere la memoria è un impegno arduo, difficile quanto indispensabile. Particolarmente oggi, in una società che vive un perenne presente ed è dominata dalla velocità. Non bastano le parole tradizionali, le vecchie modalità di comunicare questi valori, la ripetitività e l’ossificazione di gesti rituali. Il rischio è che momenti così importanti non trovino risposte efficaci quando ci si trova di fronte al difficile compito di raccontare ai giovani e ai giovanissimi questa parte della storia, questo passato spesso percepito come distante, poco decifrabile. Qui è la sfida di un’intera comunità democratica che deve assumersi il carico di trasmettere la memoria, realtà indispensabile per orientarsi e compiere scelte decisive per l’oggi. Chi ha pubbliche responsabilità deve assumersi seriamente quest’onere ricordando che democrazia, libertà, antifascismo sono i valori fondanti della repubblica e appartengono non ad alcuni, ma a tutti gli italiani.

Marco Travaglini

La felicità non è una meta

Se chiedessimo a dieci persone cosa sia la felicità o, peggio, se siano felici otterremmo sicuramente dieci risposte diverse ma, sicuramente, su un punto concorderebbero quasi tutti: se non hanno già raggiunto la felicità la raggiungeranno facendo questo o diventando quello o acquistando una certa cosa.

Nell’accezione originale del termine la felicità è un sentimento, positivo, quando raggiungiamo un obiettivo, o, come dice wikipedia, quando riteniamo soddisfatti i nostri desideri.

E’ evidente che se così fosse noi saremmo soddisfatti per il tempo necessario a godere l’oggetto acquistato (o regalato), il traguardo di studi o lavorativo raggiunto ma subito dopo, per una caratteristica tutta umana, subentrerebbe nuovamente l’insoddisfazione; questo è tanto più valido quanto più la nostra civiltà è industrializzata, moderna, tecnologica.

Chi di noi sia stato in Paesi meno agiati, come la Repubblica Dominicana, il Kenya, la Costa d’Avorio o Capo Verde, per citarne solo alcuni, avrà notato come gli indigeni siano sempre allegri, felici pur non disponendo di nulla, né abitazioni che da noi sarebbero normali, né soldi, né automobili di lusso e talvolta neppure la salute; hanno, però, una filosofia di vita che li porta a considerare positivamente ciò che incontrano quotidianamente:  la natura, un mare stupendo, la salute per cagionevole che sia, il lavoro, i figli, essere vivi.

Dall’altra parte del pianeta, invece, riteniamo di essere più fortunati, tecnologici, moderni e, quel che è peggio, civilizzati ma abbiamo perso il vero benessere, la felicità, la gioia.

Inseguendo la felicità ci ispiriamo al vicino di casa che saltella di gioia ammirando l’auto nuova per la quale ha rinunciato a qualche anno di ferie o al collega che brinda alla promozione ottenuta: siamo sicuri che siano realmente felici? E ora che uno soffrirà ogni volta che compare una riga sulla carrozzeria o trova un’ammaccatura, anche lieve, da parcheggio e l’altro sentirà il peso delle maggiori responsabilità e dovrà fermarsi di più in ufficio saranno ancora felici? Io dico di no, perché hanno idealizzato il concetto di felicità considerandolo una meta, un obiettivo da raggiungere anziché un sentimento da provare, da sentire mentre raggiungi quotidianamente la meta prefissata.

C’è chi subordina la propria felicità all’incontro con la propria anima gemella: nobile intento vanificato però dalle numerose insidie che ogni giorno, accoppiati e singoli, incontrano sul loro percorso: stress, scadenze, malattie cosicché, dopo un tempo più o meno lungo, occorre cercare nuovamente la felicità.

Appare quindi evidente come la felicità non possa e non debba essere considerata come una meta da raggiungere ma come uno stato d’animo che deve accompagnarci durante il conseguimento di ogni obiettivo, sia esso lavorativo, sentimentale, familiare, personale, ecc.

Soprattutto non dobbiamo in alcun modo pensare che ciò che rende felice qualcuno possa rendere felice, ipso facto, anche noi;in primis perché non siamo sicuri che tizio sia realmente felice, poiché spesso le persone fingono una soddisfazione che non hanno, un risultato che è fasullo solo per generare invidia, per non ammettere il proprio fallimento. In secondo luogo, perché ogni persona è diversa da un’altra per carattere, educazione, gusti personali, cultura e così via e ciò che ad una persona provoca gioia, felicità ad un’altra può essere indifferente o addiritturafastidiosa.

Molti miei amici amano la barca, trascorrere una vacanza in navigazione, soprattutto in barca a vela: io provai quarant’anni fa a conseguire la patente nautica ma trascorsi l’intera giornata spalmato sul fondo della barca a causa del mal di mare; è evidente che non potrei mai essere felice in quella circostanza, né al pensiero di aderire ad un viaggio simile.

Da quando mi occupo di coaching mi scontro, idealmente, con le tesi propugnate da alcuni colleghi che ti invitano a indagare sui motivi per cui non si è felice, a diventare padrone di sé stessi, a eliminare ogni causa di insoddisfazione con un generico corso o training, uguale per tutti, che ti farà recuperare gli anni persi.

Non entro nel merito della metodica, ma mi permetto di obiettare che, essendo ognuno di noi diverso dagli altri, e credendo io nella dottrina olistica (dal greco ὅλος = tutto, intero) non si può pensare di aiutare una persona a incontrare la felicità e condurla con sé  mentre viaggia alla ricerca di questo o quello se non si valutal’insieme di sentimenti, emozioni, problemi, esperienze e limiti mentali che un individuo porta con sé.

Anni fa il mio amico Gaetano Capitano scrisse per i cantanti Fabi, Silvestri e Gazzé, la canzone “Il Dio delle piccole cose”: ecco, io credo che anche nelle piccole cose si possa trovare il divino, che anche da esse si possa partire con la felicità come compagna di viaggio all’inseguimento dei propri obiettivi.

Quando ci apprestiamo a fare un viaggio con un amico o un parente verso un certo luogo, questi sono i nostri compagni di viaggio mentre la meta è il luogo dove ci stiamo dirigendo; allo stesso modo la felicità sarà la nostra compagna di viaggio (e se siamo intelligenti viaggeremo sempre con lei) mentre il luogo sarà ciò che vogliamo raggiungere in sua compagnia.

Perciò mi sento di suggerire a tutti di trovare la felicità nella quotidianità, in ciò che a noi fa stare bene; chi di noi si pone la tristezza o l’infelicità come obiettivo? Credo nessuno: al massimo è un sentimento, però negativo; perché allora non cerchiamo la felicità e, con essa, proseguire il nostro cammino?

Sergio Motta

Intelligenza artificiale, Brando Benifei a Torino

Sempre di più l’Intelligenza artificiale sta diventando parte della vita professionale e personale di tutti noi, inserendosi nelle dinamiche quotidiane e accendendo dibattiti sulle opportunità ed i pericoli. Un aspetto che desta maggiore preoccupazione è sicuramente la necessità regolamentazione legata alla riconoscibilità dei contenuti prodotti, il copyright e il contrasto alla disinformazione. Proprio per l’importanza che l’AI sta assumendo nella vita quotidiana.

Il 26 gennaio alle ore 15,00, presso il Circolo del Design, ne parla l’Onorevole parlamentare europeo Brando Benifei, promotore del primo regolamento dell’Unione Europea in materia di Intelligenza artificiale, dialogando con due esperti del settore, per un confronto dinamico e competente che andrà ad analizzarne l’impatto e i punti salienti: Giuliano Ambrosio, Partner & Chief Innovation Officer @ ThinkingHat, e Massimo Morelli, CEO Pensativa e membro Ferpilab.

L’incontro viene dopo l’accordo politico raggiunto l’8 dicembre al Consiglio e Parlamento Europeo, per far entrare gradualmente in vigore l’AI ACT entro due anni.

In platea, le agenzie di comunicazione e PR del territorio torinese.

L’incontro è il primo organizzato dalla territoriale Piemonte UNA, aziende della comunicazione unite, con il prezioso patrocinio di FERPI, Federazione relazioni pubbliche italiana.

Ezio Bertino, presidente Ferpi Piemonte, e Serena Fasano, responsabile della territoriale Piemonte UNA, sono concordi nel sottolineare che questo è il primo passo di un rapporto di collaborazione e stima delle due associazioni sul territorio, ed apre la strada ad altre iniziative future.

Brando Benifei è un eurodeputato italiano al suo secondo mandato, attualmente Capodelegazione del Partito Democratico al Parlamento europeo. È Relatore del Regolamento sull’intelligenza artificiale, in quanto membro della Commissione parlamentare Mercato interno e protezione dei consumatori. Nella sua attività parlamentare si occupa anche di occupazione, affari legali e costituzionali. In precedenza, è stato anche Relatore ombra della Commissione speciale sull’intelligenza artificiale nell’era digitale (AIDA). Nel 2016 è stato inserito da Forbes nella lista dei trenta politici under 30 più influenti d’Europa. https://brandobenifei.it/

UNAAziende delle Comunicazione Unite, nasce nel 2019 per incorporazione di ASSOCOM e UNICOM e da aprile 2020 anche con ASSOREL. Obiettivo di UNA è rappresentare una nuova, innovativa e unica realtà in grado di rispondere alle ultime esigenze di un mercato sempre più ricco e in fermento. Un progetto importante per dare vita ad una realtà completamente nuova e fortemente diversificata. Attualmente conta 290 aziende associate operanti in tutta Italia provenienti dal mondo delle agenzie creative e del digital, delle agenzie di relazioni pubbliche, dei centri media, degli eventi, del mondo retail. All’interno dell’Associazione vivono HUB specifici per assicurare tavoli di lavoro verticali e condivisioni di best practice. https://unacom.it/

FERPI dal 1970 è l’associazione che rappresenta in Italia i professionisti delle Relazioni Pubbliche e della Comunicazione. I soci FERPI operano come liberi professionisti, dirigenti, funzionari, dipendenti e collaboratori di aziende, enti pubblici, Enti del Terzo Settore, docenti universitari. Partecipano alla vita di FERPI anche studenti e neolaureati. FERPI è inserita nell’elenco delle associazioni professionali non organizzate in ordini o collegi del MISE – Ministero dello Sviluppo Economico (legge 4/2013) ed è garante delle capacità professionali e della deontologia dei propri iscritti nei confronti del mercato

Shopping per Torino con l’influencer Rita Capparelli

Rita Capparelli è una delle influencer più seguite e apprezzate nel mondo dei social network, della moda e non solo. Con il suo stile minimal e un po’ parisienne, sa come valorizzare i suoi outfit con semplicità e praticità, puntando sulla qualità e non sulla quantità. Oggi ci ha concesso una chiacchierata esclusiva, in cui ci ha svelato i suoi negozi preferiti a Torino, i suoi capi indispensabili, i suoi trucchi per lo shopping e la sua opinione sulla moda sostenibile.

Seguiteci in questo viaggio alla scoperta del suo mondo e dei suoi consigli!

1. Ciao Rita, grazie per il tuo tempo con noi, sappiamo che tu sei molto affeate nel mondo dei social network,nella moda e non solo.
Oggi vorremmo soffermarci su Torino e la moda. Sei un esempio è un punto di riferimento in quanto a stile e vorremmo chiederti quali sono i negozi in cui abitualmente vieni colpita dalle collezioni?!

Grazie a voi per aver pensato a me. Devo dire che col passare del tempo sto cercando di investire più sulla qualità che sulla quantità. Il posto che frequento di più e dove sogno ad occhi aperti più spesso è la Rinascente, qui segnalo Sandro Paris e Bash Paris tra i miei preferiti. Per la maglieria adoro i cashmere di Falconeri, ma aspetto con ansia l’arrivo di Uniqlo in città, perché anche i loro sono pazzeschi. Per i jeans, gli affari migliori li ho fatti ai mercatini vintage del weekend, trovando Levi’s vintage anche a 20€!


2. Cosa privilegi generalmente nelle tue scelte di stile? Completi ? Camicie?

Ho uno stile minimal/ un po’ parisienne, mi piacciono le cose semplici e pratiche: potessi scegliere tre pezzi di cui non mi stancherei mai: jeans, camicia bianca e trench (o in alternativa, blazer).

3. Dove consiglieresti di fare gli acquisti se parliamo di boutique?

Senza dubbio, Twinset, Marella e Motivi


4. Se invece ci rivolgessimo ai fast fashion?

I miei preferiti sono Kiabi e Primark


5. Qualcuno sostiene che un bel vestiario faccia acquistare maggior autostima per il proprio quotidiano, tu sei d’accordo?

Assolutamente sì! Vestirsi bene secondo me aiuta a sentirsi subito meglio, io anche se so che passerò la giornata a casa non rinuncio mai a skincare, trucco leggero e vestirmi carina.


6. Cosa non dovrebbe mancare nell’armadio di una torinese?

Un cappotto con una composizione lana di almeno il 70% perché qui fa freddo per davvero ahhaahah


7. Parliamo di shopping online. Secondo te è più gratificante rispetto agli acquisti in negozio?

Purtroppo dal covid in poi, ho iniziato a preferire lo shopping online. Me ne sto sul divano anche alla sera, e ho tutto a portata di schermo, posso filtrare per colore, prezzo, taglia. Niente caos, niente file. Ovviamente questo non vale per tutto, se dovessi fare un acquisto importante, un capospalla o una borsa, in quel caso vince l’esperienza in negozio.


8. Collezione invernale del momento e nuova collezione ’24 primaverile in arrivo. Hai qualche consiglio?

Andare a rubare le cravatte al fidanzato o al papà, perché sarà un must have del prossimo autunno. In particolare quella sottile e nera da portare con camicia bianca.


9. Moda Sostenibile. Cosa ne pensi?

Penso che essere drastici ed eliminare di punto in bianco il fast fashion dalla nostra vita sia difficile, ma a piccoli passi possiamo cambiare le nostre abitudini di shopping e anzi dovremmo farlo! Si al vintage e second hand, che oltre a fare bene all’ambiente adesso è pure cool!


10. Torino secondo te sta diventando una città dove la moda Sostenibile sta trovando terreno fertile?

Secondo me si, Torino è una città pronta ad accogliere la moda sostenibile: è piena di mercatini vintage e second hand tutti i weekend, ma anche ricca di appuntamenti come il Bite Market, o i pop up del Capo Vintage, negozio cardine nel panorama vintage a Torino.

Grazie a Rita Capparelli per il tempo trascorso con noi e i suoi magnifici consigli.

Cristina Taverniti

L’effetto placebo

L’effetto placebo è la reazione positiva che un paziente può manifestare dopo aver ricevuto un trattamento apparentemente valido, ma in realtà privo di qualsiasi effetto terapeutico. Tale effetto viene spesso osservato quando un paziente assume un farmaco o riceve un trattamento credendo fermamente nella sua efficacia: un esempio classico è la pillola di zucchero che, somministrata al paziente per curargli una affezione, lo induce a percepire un miglioramento dei sintomi.

L’effetto placebo, quindi, non è correlato alla sostanza usata ma alla fiducia posta nel farmaco e nel medico che lo ha prescritto.

I rimedi placebo si possono distinguere in due tipi: il placebo puro, cioè un farmaco o un trattamento completamente privo di effetto terapeutico ed il placebo impuro che, a differenza del primo, possiede efficacia terapeutica, ma non specificamente per la patologia per la quale è stato somministrato.

Alcune affezioni quali ansia, cefalea ed insonnia rispondono bene ai trattamenti placebo, a dimostrazione di quanto mente e corpo siano connessi; tali affezioni sono, infatti, spesso di origine psicosomatica dove la manifestazione fisica, i sintomi, sono in realtà causati da un problema di origine psicologica.

Moltissime terapie, ancora oggi praticate nei paesi africani, centro-americani ed asiatici, producono un effetto placebo: gli sciamani, gli stregoni, i curanderos devono gran parte dei loro successi all’effetto placebo che permette al paziente di sentirsi guarito con i gesti, le parole, i rimedi somministrati dal guaritore.

Il termine placebo compare per la prima volta nel 1785 ma soltanto verso la fine del XIX secolo gli venne attribuito il significato attuale, quello di sostanza farmacologicamente non attiva, quindi inerte. Nel XVIII secolo, il medico inglese Elisha Perkins era solito utilizzare bacchette metalliche per curare numerose patologie in forza del magnetismo da esse posseduto; nello stesso periodo John Haygarth condusse un esperimento: utilizzò bacchette di legno, quindi sicuramente amagnetiche, per la cura delle stesse patologie ottenendo risultati simili. Comprese in tal modo come il rimedio non fosse il magnetismo in sé ma la suggestione.

La relazione esistente fra medico e paziente è fondamentale. Una comunicazione empatica, che trasmetta fiducia, speranza e positività è il requisito sine qua non per la riuscita della terapia: sembra assurdo, ma è più efficace una cura placebo somministrata da un medico nel quale si nutre fiducia piuttosto che una terapia tradizionale, se la fiducia nel medico è scarsa o manca del tutto.

L’effetto placebo pare non funzionare su alcune sindromi o affezioni come depressione, obesità, diabete, ipertensione, dislipidemia; tale effetto, infatti, agisce sulla percezione individuale dei sintomi ma non sulle cause dei medesimi.

Tuttavia, se è vero che il farmaco placebo genera lo stesso effetto curativo dei farmaci “veri”, è altrettanto possibile che si manifestino anche effetti collaterali derivanti dalla loro assunzione: a tali effetti viene dato il nome di nocebo. Cosa significa?

Così come possiamo subire gli effetti collaterali o l’interazione con altri farmaci, allo stesso modo possiamo sviluppare l’effetto nocebo temendo che un farmaco possa essere nocivo o pericoloso per il nostro organismo, soprattutto se somministrato in seguito ad una diagnosi grave o dubbia o se non nutriamo fiducia nel sanitario che ce li ha prescritti.

E’ evidente che il nostro cervello lavori ben oltre ciò che noi immaginiamo e, soprattutto, possa arrivare dove la scienza non arriva: ecco spiegato come i riti voodoo, quelli sciamanici e altre medicine etniche agiscano anche a distanza, quando un soggetto sa che qualcuno si sta occupando di lui, nel bene o nel male, in forte contrapposizione con qualsiasi teoria scientifica.

Questo dovrebbe far riflettere, e la medicina olistica lo insegna, che è necessario rimuovere la causa di un problema anziché i sintomi perché questi sono facilmente aggirabili con l’autosuggestione, mentre ciò che li ha causati può continuare a produrre danni all’organismo coinvolgendo anche organi diversi o cronicizzandosi. Io suggerisco sempre ai miei studenti e a chi si rivolge a me di imparare ad ascoltare il proprio corpo, per quanto strani possano sembrarci i suoi messaggi: eviteremmo tante brutte sorprese e inutili fastidi.

Sergio Motta

Intervista esclusiva ad Andrea Villa, l’artista dietro il manifesto 1984 su Chiara Ferragni

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Se avete passeggiato, pochissimi giorni fa, per le strade diTorino, esattamente in Via Reggio e in Corso Regio Parco, o avete seguito le ultime notizie sul Web e Social Network riguardanti la città di Torino e la Street Art, sicuramente avrete notato un manifesto d’arte che ha attirato l’attenzione di molti: si tratta di un’opera che raffigura la sagoma e il logo di Chiara Ferragni , la famosa influencer e imprenditrice, con la scritta “Big Sister is watching you” su uno sfondo a tema 1984 di George Orwell.

Quest’ultima impresa artistica, è una conseguenza agli ultimi e attuali fatti che coinvolgono l’imprenditrice digitale e lo scandalo del Pandoro Balocco, venduto nel periodo natalizio2022.

L’opera è un invito alla riflessione che riguarda non soltanto il caso citato.

Il manifesto è firmato da Andrea Villa, artista torinese che si occupa di arte digitale e street art, che ha lasciato un messaggio alla società contemporanea, influenzata dai mass media e dal web, e sul ruolo degli influencer nella formazione dell’opinione pubblica.

 

Abbiamo avuto l’occasione di intervistare in esclusiva Andrea Villa, che ci ha raccontato la genesi e il significato del suo manifesto, il suo stile artistico e i suoi riferimenti culturali, e la sua visione dell’arte di strada a Torino.

1 . Come abbiamo inteso, il tuo manifesto si focalizza sull’opera 1984 di George Orwell, il cui
libro potrebbe essere definito “una denuncia” contro le forze che tendono ad annullare la
libertà e la dignità individuale.In questo caso si parla del mondo dei mass media e del web,
una realtà che potremmo definire un’arma a doppio taglio. Com’è successo a ChiaraFerragni.
Qual è il tuo pensiero in proposito? Cosa ti ha spinto a creare questa tua nuova opera?
Quale messaggio l’artista Andrea Villa vuole lanciare?
 
–Ho deciso ultimamente di concentrare il mio lavoro sui concept culturali, visto che sembra che la scena di street art mainstream sia concentrata perlopiù solamente a seguire i trend del momento. Volevo si parlare di temi attuali, ma con un punto di vista distaccato e analitico. L’ arte deve sempre essere analitica, e mai farsi trascinare dai sentimenti e dalle opinioni di attualità o modaiole. Far ragionare su come funzionano i meccanismi della società moderna è il fulcro del mio lavoro, e non voglio essere politicizzato o riferito ad una determinata parte politica e di pensiero: preferisco lavorare con libertà intellettuale solo su temi che ritengo importanti, senza prese di posizione.
 
2.Come hai scelto il luogo e il momento per esporre il tuo manifesto su Chiara Ferragni? C’è un
significato simbolico o una strategia di comunicazione dietro la tua scelta?
 
–Il luogo l’ ho scelto perchè era in una zona molto frequentata da giovani, ovvero adiacente l’ Università, che è il target di persone che potrebbe capire questo tipo di lavori.
E’ inoltre una zona molto frequentata da pedoni, che così possono vedere bene il mio lavoro, mentre spesso chi usa le automobili non ha tempo di fotografare.

3. Credi che il tuo manifesto possa avere un effetto educativo o critico sulle persone che lo
vedono?
 
–Io cerco solo di dare degli spunti di riflessione, non voglio educare nessuno. Sta allo spettatore analizzare e decidere il suo punto di vista.

· 4. Cosa pensi del ruolo degli influencer nella società contemporanea e del loro impatto sulle
scelte delle persone?
 
–Penso che se decidi di parlare di qualcosa, o lo fai con spirito di amatorialità oppure se sei serio rischi di creare dei danni, poichè ci sono persone che studiano apposta determinati argomenti e non puoi improvvisarti storico, matematico o medico. A meno che tu non sia un divulgatore, ma il confine è labile
·
· 5. Come valuti la reazione del pubblico e dei media alla tua opera? Hai ricevuto critiche o
apprezzamenti?
 
— Soprattutto apprezzamenti, molti mi hanno fatto i complimenti per il testo critico che ho scritto sul mio lavoro. Non credo perchè fosse particolarmente bello, piuttosto perchè penso che nei lavori di street art di alcuni miei colleghi manchi una ricerca concettuale, e basta fare un lavoro analitico minimo per poter “emergere” dai concorrenti.

· 6. Come definiresti il tuo stile artistico e quali sono i tuoi riferimenti culturali e artistici?
 
–Mi riferisco sopratutto alla street art e all’ arte digitale, mi ispiro molto al cyberpunk e al movimento Dada. Rielaborare le immagini che esistono già è il fulcro del mio lavoro.

7. Ultima domanda. La città di Torino, da Artista Street Art, pensi sia “un terreno fertile” per
questa forma d’arte?
 
— Si assolutamente, è una città che mi ha aiutato molto e mi segue molto a livello creativo

 

Ringraziamo Andrea Villa per il suo tempo e per aver realizzato con noi questa intervista.

Cristina Taverniti

Papa Francesco, perché … ?

Alla “SOMS” di Raconigi si presenta il libro “Cari Bambini … il Papa risponde alle vostre domande”, scritto e a cura di Domenico Agasso

Mercoledì 17 gennaio, ore 21

Racconigi (Cuneo)

Per il giornalista e scrittore carmagnolese Domenico Agasso (vaticanista de “La Stampa”, impegnato in particolare sul portale “Vatican Insider” dove tiene anche la rubrica “Ogni giorno i suoi Santi”), l’impresa non deve essere stata particolarmente facile. Bella, suggestiva, di grande emozione sì. Ma non semplice. Interpellare il Santo Padre per invitarlo a rispondere, sulle pagine che sarebbero poi diventate libro, alle domande – le più semplici e scontate, ma anche le più bizzarre e curiose – di bambine e bambini di ogni parte del mondo. E’ vero, Francesco ha pazienza e amore da vendere. Per i più piccoli e i più indifesi (in senso lato) della Terra, poi, manco a dubitarne! Ma di cose da fare, certamente ne ha anche tante e tante. Associate alle difficoltà dell’età e agli acciacchi che non gli permettono più di tanto di andare “oltre” i Suoi, non pochi, impegni istituzionali. Ma è pur vero, ne sono certo, che fra i Suoi compiti istituzionali, un posto particolare lo ha sempre riservato (non da protocollo) e continuerà a riservarlo ai più piccoli. Da buon “nonno Papa”. Ai più innocenti che Gli tendono la mano, guardandolo negli occhi, aspettando una Sua carezza. Un Suo racconto. Così il nostro Domenico Agasso ce l’ha fatta! E di buzzo buono ha realizzato un bellissimo libro illustrato, il cui titolo la dice già tutta “Cari bambini … il Papa risponde alle vostre domande” (Mondadori Electa). Libro, in cui Papa Francesco risponde alle domande di bimbi di tutto il mondo – ponendosi nei loro confronti con tutta la sincerità umana possibile – e che verrà presentato il prossimo mercoledì17 gennaio, ore 21, nei locali della “SOMS”, di via Carlo Costa 23, a Racconigi (Cuneo).

A raccontare la genesi e la costruzione del libro sarà lo stesso Agasso, in dialogo con Marco Pautasso, presidente della “SOMS – Progetto Cantoregi”.

Racconta Domenico Agasso: “Osservando i miei figli a colloquio con il Santo Padre, ho avuto l’idea di raccogliere dai bambini e dalle bambine di tutto il mondo una serie di domande, a cui Bergoglio si è sottoposto con piacere, ponendosi di fronte a loro con tutta la sincerità umana possibile: come un nonno, ha raccontato loro i ricordi e le piccole esperienze della sua infanzia, ha risposto ai quesiti fondamentali che ogni essere umano si pone (il senso della vita, il non senso della guerra, il valore del sogno), ha spiegato quanto la vita di un pontefice sia speciale e normale allo stesso tempo. Il tutto con un linguaggio semplice, universale, comprensibile dai più piccoli”.

Una lettura da non perdere. Per i più piccoli, per i grandi e per i più grandi.

Ingresso libero fino ad esaurimento posti. Per info: tel. 349/2459042 o info@progettocantoregi.it

Gianni Milani

Nelle foto:

–       Papa Francesco riceve Domenico Agasso

–       Cover del libro

Manuale dello sport integrato e piccole storie che cambiano il mondo

Un grande entusiasmo ha avvolto la presentazione di ‘Io sono l’altro – Manuale dello sport integrato e piccole storie che cambiano il mondo’. L’iniziativa si è svolta venerdì 12 gennaio alle ore 11.00 presso la ‘Biblioteca Archimede’ in Piazza Campidoglio 50 a Settimo Torinese. L’evento, che ha visto un’importante partecipazione, ha voluto promuovere quello che non è un semplice libro di istruzioni o di regole che tratta il tema dell’inclusione, ma il frutto di un lungo percorso che ha coinvolto tantissimi professionisti del settore.

La presentazione è stata l’apice del progetto ‘Io sono l’altro’ incominciato due anni fa e nato con l’obiettivo di raccontare il concetto di integrazione, di unione e di rete. Un progetto creato per collaborare e per rendere ogni giorno la nostra società un posto migliore.

Il libro ha visto la partecipazione, in qualità di autori, di Matteo Barosso, Daria Fera, Gianluca Carcangiu, Cinzia Piazzese, Carolina Uga Forcieri ed Elena Bollati. Il volume è stato scritto con la collaborazione di un comitato tecnico scientifico formato da tanti professionisti di vari settori.

L’incontro, moderato dal giornalista Carlo Morizio, è partito con la lettura della prefazione del libro a cura di Francesco Proietti, Presidente Nazionale di CSEN, interpretata dall’attore Riccardo De Leo. Hanno poi aperto la presentazione i saluti istituzionali delle padrone di casa Elena Piastra, Sindaco di Settimo, e Carmen Vizzari, Presidente del Consiglio Comunale di Settimo.

Sono intervenute autorità legate alle città coinvolte a più livelli in questo progetto: Francesco Casciano, Sindaco di Collegno, Alessandro Sicchiero, Sindaco di Chieri, Helen Ghirmu, Assessore di Rivarolo Canavese, Clara Bramardi, Consigliere di Chieri, Sonia Gagliano, Consigliere Circoscrizione 4, Mario Fadda, Consigliere di Castiglione Torinese e Luigi La Rosa, Vice Sindaco di Beinasco.

Dopo gli interventi degli autori del libro e di alcuni membri del comitato tecnico scientifico, l’evento è proseguito con Andrea De Beni, co-fondatore dell’Adaptive Academy di Rivoli che si è soffermato sulla parola ‘limite’ e della sua esistenza intesa come il sale della vita, l’alzarci ogni giorno e vivere le cose nel migliore dei modi possibile.

La presentazione è stata chiusa da un video con l’intervento del Ministro delle disabilità, Alessandra Locatelli, che ha presenziato ad uno degli eventi del progetto ‘Io sono l’altro’.

Dott. Gianluca Carcangiu, Presidente CSEN Piemonte: “Ognuno degli autori ha contribuito in maniera eccezionale alla stesura del manuale. Come CSEN Piemonte siamo molto orgogliosi di averlo potuto presentare in questa straordinaria cornice. In tutto questo tempo abbiamo collaborato con amministrazioni locali di diversa appartenenza, ma tutte ci hanno fatto sentire a casa. Il manuale ha una parte iniziale di contesto, ma poi ci sono anche tanti esercizi pratici pensati con l’aiuto del comitato tecnico scientifico”.

About ‘Io sono l’altro’ – Progetto targato CSEN Piemonte e cofinanziato dalla Regione Piemonte. I temi trattati sono quelli dell’inserimento, del sostegno e dell’integrazione all’interno della cornice dello sport integrato. Gli obiettivi del progetto sono: la creazione di un manuale di lavoro contenente esercizi sportivi per l’integrazione, un corso di formazione per operatore sportivo per l’integrazione sociale, laboratori esperienziali nelle scuole secondarie di secondo grado ed eventi di promozione nei comuni che hanno aderito al progetto coinvolgendo le scuole secondarie di primo grado. I Comuni coinvolti sono Nichelino, Settimo Torinese, Castiglione Torinese, Beinasco, Torino (Circoscrizione 4), Collegno, Alpignano e Chieri.

About CSEN Piemonte – Centro Sportivo Educativo Nazionale in Piemonte. Ente di promozione sportiva riconosciuto dal CONI, opera nel campo della formazione sportiva e organizza su tutto il territorio nazionale corsi e seminari. Il Comitato Regionale Piemontese è uno dei più importanti centri di formazione nazionale e organizza corsi riguardanti Arti Marziali, Fitness e Body Building, Functional Training, Discipline Bio-Naturali, Cinofilia, Danza Sportiva fornendo le conoscenze e le abilitazioni necessarie.

Dal gruppo al brand

Nel corso degli ultimi decenni sono molti i cambiamenti intervenuti nella nostra società, sia nell’educazione che nella famiglia.

Chi di noi non ricorda la suddivisione in “colori” o “squadre” all’asilo dove, indipendentemente dalla professione del papà (le mamme che lavoravano all’epoca erano poche) o dall’auto posseduta, i bambini di una stessa squadra svolgevano attività didattiche e ludiche insieme e, ogni squadra, le svolgeva con le altre.

Il grembiulino stesso adottato alle elementari uniformava, appunto, tutti gli alunni evitando differenziazioni diseducative tra chi poteva e chi no, tra i ricchi ed i poveri, tra un ceto ed un altro.

La stessa cosa succedeva, e credo succeda tuttora, negli scout dove le squadriglie (o le sestiglie per i lupetti) erano contraddistinte, per esempio, dal nome di un animale cosicché in una gara vincevano gli scoiattoli (o i pezzati per i lupetti), non chi guida il SUV o quello con la bici da 3000 euro.

Negli anni ’70, in coincidenza con le prime lotte politiche tra sinistra e destra le fazioni cominciarono ad essere distinguibili dall’abbigliamento: chi indossava loden e scarpe “College” e chi, invece, “Clark” ed eskimo schierandosi dalla parte opposta.

Negli anni ’80 lo yuppismo esaltò ulteriormente la contrapposizione tra chi viveva la Milano da bere e chi la subiva, tra chi imitava l’Avvocato e chi, invece, avrebbe venduto la mamma per noleggiare una fuoriserie e mostrarsi per ciò che non era.

Al giorno d’oggi, purtroppo, la situazione è peggiorata: non si cerca più l’appartenenza ad un gruppo (o associazione o aggregazione umana a qualsiasi livello) per collaborare, agire insieme e crescere con l’esempio e l’aiuto reciproco ma si sente il bisogno di uniformarsi, di livellarsi appiattendo, di fatto, la personalità.  I ragazzi (ma non solo loro) si sentono esclusi dalla cerchia di amici e compagni di scuola se non indossano abiti ed accessori griffati (dal giubbotto allo zaino, agli occhiali da sole alla borsa). Oltretutto le griffe “di moda” cambiano periodicamente con il risultato che ciò che hai comprato e ti rendeva degno di entrare nel club dei “privi di personalità” dopo qualche tempo diventa obsoleto e ti obbliga a ripetere la sfilata con un brand diverso.

Quel che è peggio è che molti, pur di apparire, non esitano a comprare oggetti contraffatti, spesso di qualità scadente, pur di fregiarsi di quel logo o quelle iniziali su ciò che indossano: forse ignorano che chi acquista per sé (non per un amico o altri) un bene contraffatto realizza un illecito amministrativo, punito con una sanzione pecuniaria che va da 100 a 7.000 euro, ai sensi della Legge n° 99 del 2009. Non si può sostenere che si credeva fossero oggetti originali perché la differenza di prezzo rispetto ai prodotti originali fa capire che sono state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti con un uso indebito del marchio.

Se, poi, compro quella merce per darla ad altri, guadagnando dalla vendita, incorro nel reato di ricettazione (art. 648 c.p.) che si concretizza quando una persona, per procurare a sé o ad altri un profitto, compra merce contraffatta o di provenienza illecita.

Conviene rischiare per sentirsi parte integrata di un gruppo perdendo, oltretutto, la propria peculiarità?

Ai miei studenti ed ai clienti ripeto sempre “In una cosa siamo tutti uguali: essere ognuno diverso dagli altri”.

E’ evidente che non sentirsi accettati non sia piacevole, ma proviamo noi a creare una moda, una corrente di pensiero che davvero ci rappresenti, ci appartenga e ci contraddistingua dagli altri. Come possiamo sentirci integrati per il solo fatto di indossare uno slogan (un logo lo è) di un brand che unisce persone nel mondo totalmente diverse l’una dall’altra, che viene spesso “integrato” da falsi (la merce contraffatta) rendendo uguali chi è originale con chi è falso?

A lezione spiego sempre che la felicità non è la meta, ma la via: non dobbiamo inseguire la felicità facendo ciò che fanno gli altri, pensando che loro siano felici perché hanno ciò che mostrano: dobbiamo essere felici mentre facciamo quello che ci piace, che ci fa stare bene senza curarci di cosa faccia chi ci circonda.

Prima o poi la finzione viene scoperta: meglio essere diversi perché originali che uguali senza personalità.

Sergio Motta

AffiDarsi, al via la sesta edizione

In un contesto regionale, quello del Piemonte, che attraversa un momento particolarmente complesso a livello sociale, l’Associazione Museo Nazionale del Cinema (AMNC) da anni promuove con la cultura il servizio dell’affido. Lo fa insieme a Città di Torino, Casa dell’Affidamento e Fondazione Crt grazie alla rassegna cinematografica AffiDarsi che quest’anno giunge alla sesta edizione.

Dal 14 gennaio all’11 febbraio 2024, attraverso cinque film, l’AMNC apre il dialogo con il pubblico sui temi dell’accoglienza e dell’inclusione. Sul grande schermo saranno proposte storie universali, in grado di parlare al cuore delle persone con un linguaggio semplice, pensate per i più piccoli ma anche per gli adulti, seguendo il concetto di famiglia nel senso più ampio del termine.

Si tratta di proiezioni a ingresso libero con un focus sul cinema d’animazione, a partire da Elemental di Peter Sohn (Stati Uniti, 2023, 93’), in programma il 14 gennaio alle ore 15.30 al Cinema Massimo del Museo Nazionale del Cinema. Gli altri film in calendario sono Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki, Ruby Gillman di Kirk DeMicco e Faryn PearlIl gatto con gli stivali 2 di Joel Crawford e Yuku e il fiore dell’Himalaya di Rèmi Durin e Arnaud Demuynck.

Solidarietà umana e sociale

«L’affido è una delle più alte forme di solidarietà umana e sociale, da cui nascono storie che non sono mai banali; il cinema – afferma Jacopo RosatelliAssessore a Welfare, Diritti e Pari opportunità della Città di Torino – aiuta a capire che l’affido è un’avventura che non annoia perché fa vivere ai suoi protagonisti emozioni che cambiano le loro vite. Crescere in una famiglia è un diritto, dunque è importante che ogni adulto che sia nelle condizioni di farlo rifletta sulla possibilità di mettersi in gioco aprendo il proprio futuro alla presenza di bambini e bambine, ragazzi e ragazze che hanno diritto di ricevere affetto e cura».

Storie universali di accoglienza e inclusione

«Dopo le seguitissime ultime rassegne di AffiDarsi, siamo molto contenti di continuare il percorso cinematografico insieme alla Casa dell’Affidamento – dichiara Valentina NoyaVicepresidente dell’AMNC – e soprattutto in Piemonte, contesto complicato dalla legge “allontanamenti zero”. Riteniamo importante proporre alle famiglie dei momenti culturali pubblici, dedicati a bambini e ragazzi, per condividere sul grande schermo le emozioni che sa regalare il cinema d’animazione attraverso storie universali di accoglienza e inclusione. Un ringraziamento particolare va ai nostri importanti partner, il Museo Nazionale del Cinema, il CineTeatro Monterosa e il Centro Studi Sereno Regis che a diversi livelli lavorano insieme a noi con passione sul territorio».

Le famiglie affidatarie di Torino: linfa vitale delle politiche sociali

«L’affido familiare è al centro delle politiche sociali della Città di Torino da oltre quarant’anni: è un atto di genitorialità sociale, attenzione e solidarietà, un gesto che può cambiare la vita di un bambino in una temporanea situazione di vulnerabilità, quando la sua famiglia biologica non può prendersene cura. Le famiglie affidatarie – prosegue Barbara SolariDirigente del Servizio Minori e Famiglie della Città di Torino – rappresentano la linfa vitale di questo sistema e si collocano al centro di un percorso condiviso e di un supporto professionale che vede coinvolti, da un lato, le famiglie d’origine, e dall’altro i Servizi Sociali, in un costante dialogo e sostegno. Nonostante l’incessante impegno di tutti, in città rimane molto alto il bisogno di più famiglie affidatarie: la rinnovata collaborazione con l’Associazione Museo Nazionale del Cinema ha l’obiettivo di mantenere viva la cultura dell’affidamento e la sensibilizzazione sul tema affinché tutti i minori aventi diritto possano beneficiare di questa meravigliosa opportunità».

Il programma

 

Domenica 14 gennaio, ore 15,30, Cinema Massimo (via Verdi 18, Torino)

Elemental di Peter Sohn (USA 2023, 93′)

La nuova animazione targata Pixar dà forma e colore ai quattro elementi. Ember, ragazza di fuoco determinata a continuare l’attività di famiglia, incontra Wade, ragazzo d’acqua che la mette alla prova sfidando le leggi di Element City, città multiculturale dove gli elementi non si mischiano. Un racconto d’amore e formazione per cui il regista si è ispirato alla migrazione dei suoi genitori dalla Corea agli Stati Uniti, riflettendo sulle dinamiche dell’integrazione e del confronto tra differenti provenienze. Ingresso libero con prenotazione scrivendo a info@amnc.it oppure attraverso Eventbrite https://bit.ly/48iwoom

Domenica 21 gennaio, ore 15,30, CineTeatro Monterosa (via Brandizzo 65, Torino)

Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki (Giappone 1988, 86′), ingresso libero

Nei giorni in cui è uscito nelle sale con grande successo Il ragazzo e l’airone, AffiDarsi propone uno dei capolavori animati di Hayao Miyazaki, distribuito in Occidente con due decenni di ritardo dopo il successo degli altri titoli del maestro giapponese. L’amicizia di due sorelline con un Totoro, buffa creatura dai magici poteri che vive nella foresta è lo spunto per uno sguardo surreale e magico sul rapporto tra natura e umanità.

Domenica 28 gennaio, ore 15,30, Centro Studi Sereno Regis (via Garibaldi 13, Torino)

Ruby Gillman, la ragazza con i tentacoli di Kirk DeMicco e Faryn Pearl (USA 2023, 91’), ingresso libero

Ruby Gillman è allegra, colorata, simpatica e una figlia obbediente, specie quando si tratta di rispettare il diktat di casa Gillman: stare lontani dall’oceano. Quando però il ragazzino che le fa battere il cuore finisce in acqua con lo skate e stenta a riemergere, Ruby non ci pensa due volte e si tuffa, scoprendo un paio di cose su di sé che le erano state taciute dalla nascita.

Domenica 4 febbraio, ore 15,30, Centro Studi Sereno Regis

Il gatto con gli stivali 2, l’ultimo desiderio di Joel Crawford (USA 2022, 102′), ingresso libero

Il Gatto con gli Stivali ha appena scoperto di aver esaurito otto delle sue nove vite e ha incontrato un Lupo Cattivo che gli ricorda come, stavolta, anche lui dovrà morire. Dunque Gatto va alla caccia di una stella caduta nella Foresta Oscura che possa esaudire il suo più grande desiderio: ripristinare le numerose vite perdute, ma non è il solo ad avere una grande aspirazione esistenziale, ci sono anche Kitty, Riccioli d’Oro e i tre Orsi e Jack Horner, un megalomane squilibrato uscito da una filastrocca di Mamma Oca.

Domenica 11 febbraio, ore 15,30, Centro Studi Sereno Regis

Yuku e il fiore dell’Himalaya di Rémi Durin e Arnaud Demuynck (BE/FR 2022, 65′), ingresso libero

In cima alle montagne più alte della terra vive una pianta che si nutre della luce più pura: si chiama fiore dell’Himalaya. La topolina Yuku lascia la sua famiglia per cercare questo fiore magico e regalarlo alla nonna che ha annunciato che presto dovrà seguire la piccola talpa cieca nelle profondità della terra, ma per trovarlo c’è un lungo viaggio da fare, pieno di ostacoli. Sulla sua strada, grazie alla musica e alle canzoni, Yuku si farà molti amici: sono loro il bene più prezioso per riuscire nell’avventura della vita.