IN ITALIA SONO 139 LE VITTIME SUL LAVORO REGISTRATE NEL SOLO MESE DI LUGLIO. E NEI PRIMI SETTE MESI DEL 2021 IL BILANCIO CONTINUA AD ESSERE DRAMMATICO CON 677 MORTI BIANCHE. UNA MEDIA TRAGICA DI QUASI 100 DECESSI AL MESE.
IN ZONA ROSSA: PUGLIA, CAMPANIA, TRENTINO ALTO ADIGE, BASILICATA, UMBRIA, MOLISE E ABRUZZO
IN ZONA ARANCIONE: PIEMONTE, MARCHE E FRIULI VENEZIA GIULIA
IN ZONA GIALLA: LAZIO, VALLE D’AOSTA, CALABRIA, EMILIA ROMAGNA, SICILIA, VENETO E LIGURIA
IN ZONA BIANCA: TOSCANA, LOMBARDIA E SARDEGNA
LA ZONIZZAZIONE A COLORI È LA NUOVA RAPPRESENTAZIONE GRAFICA ELABORATA DALL’OSSERVATORIO SICUREZZA SUL LAVORO VEGA ENGINEERING DI MESTRE, PER FOTOGRAFARE, ALLA STREGUA DELLA PANDEMIA, L’EMERGENZA MORTI BIANCHE IN ITALIA.
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IL RISCHIO DI MORTE, REGIONE PER REGIONE DA GENNAIO A LUGLIO 2021.
DALLA ZONA ROSSA ALLA ZONA BIANCA.
“La media della mortalità sul lavoro è drammatica, perché parla di circa 100 vittime al mese. Sono infatti 677 i lavoratori che hanno perso la vita da gennaio a luglio del 2021. Il decremento del numero dei decessi rispetto allo scorso anno (- 5,4%) potrebbe sembrare un dato positivo, ma in realtà è molto influenzato dall’andamento della pandemia COVID19 e dal rilevamento statistico degli infortuni mortali per COVID19. Il numero di 677 morti sul lavoro nei primi sette mesi è comunque superiore ai dati del 2019 e del 2018, ultimi anni pre-pandemia”.
Mauro Rossato, Presidente dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre, commenta così l’emergenza morti bianche e gli ultimi dati elaborati dal proprio team di esperti che, da oltre 10 anni, monitora mese dopo mese l’andamento dell’emergenza, superando l’analisi dei numeri assoluti e arrivando al vero e proprio rischio di mortalità calcolato sulla popolazione lavorativa.
E a finire in zona rossa nei primi sette mesi del 2021 con un’incidenza maggiore del 25% rispetto alla media nazionale (Im=Indice incidenza medio pari a 23,7 morti ogni milione di lavoratori) sono: Puglia, Campania, Basilicata, Umbria, Molise, Trentino Alto Adige e Abruzzo.
In Zona Arancione: Piemonte, Marche e Friuli Venezia Giulia
In Zona Gialla: Lazio, Valle D’Aosta, Calabria, Emilia Romagna, Sicilia, Veneto e Liguria.
In Zona Bianca: Toscana, Lombardia, Sardegna
(Sul sito vegaengineering.com sono disponibili i grafici e i dati).
I NUMERI ASSOLUTI DELLE MORTI SUL LAVORO IN ITALIA.
Diversa invece è la geografia dell’emergenza quando si leggono i numeri assoluti, anche se la Campania che è in zona rossa è anche la regione in cui si registra il maggior numero di vittime in occasione di lavoro.
Da gennaio a luglio 2021, infatti, i decessi registrati in Campania sono 63. Seguono: Lombardia (61), Piemonte (52), Lazio (50), Puglia (49), Emilia Romagna (46), Veneto (41), Sicilia (26), Abruzzo e Toscana (25), Trentino Alto Adige e Marche (15), Friuli Venezia Giulia e Umbria (14), Molise, Calabria e Liguria (11), Basilicata (7), Sardegna (6), Valle D’Aosta (1).
Nel report allegato il numero delle morti in occasione di lavoro provincia per provincia.
Da gennaio a luglio del 2021 sono 677 le vittime sul lavoro registrate in Italia; di queste, sono 543 quelle rilevate in occasione di lavoro, mentre 134 sono quelle decedute a causa di un incidente in itinere. Rispetto a fine giugno 2021, ci sono 139 vittime in più nel mese di luglio.
Ancora il settore delle Costruzioni quello che conta il maggior numero di lavoratori deceduti (64 dall’inizio dell’anno, 13 in più rispetto a giugno). Seguono: Attività Manifatturiere (54), Trasporto e Magazzinaggio (51 vittime da inizio anno), Commercio, Riparazione di autoveicoli e motocicli (34), Amministrazione Pubblica e Difesa (17), Sanità e Assistenza Sociale (15).
La fascia d’età più colpita dagli infortuni mortali sul lavoro è quella tra i 45 e i 64 anni (387 su un totale di 543).
Le donne che hanno perso la vita in occasione di lavoro nei primi sette mesi del 2021 sono 50 su 543.
Gli stranieri deceduti in occasione di lavoro da gennaio a luglio del 2021 sono 75.
Il lunedì continua ad essere il giorno in cui si è verificato il maggior numero di infortuni nei primi sette mesi dell’anno.
*La pandemia ci ha obbligati da diversi mesi a vivere l’Italia “a colori”. Ma ci ha anche insegnato che i colori possono raccontare l’emergenza in modo più semplice ed efficace. Per questo l’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre – che da oltre un decennio elabora indagini statistiche sulle morti bianche nel nostro Paese – ha deciso di utilizzare gli stessi colori per descrivere in modo più leggibile e incisivo le tragedie che si consumano nella quotidianità lavorativa. Si tratta, dunque, di una zonizzazione sulla base della mortalità rispetto alla popolazione lavorativa, parametrata su un’incidenza media nazionale (Im=23,7).


Era la Svizzera dall’immagine quasi mitica che venne descritta, nel 1781, da William Coxe nelle sue “Lettres sur l’état de la Suisse”. E l’élite europea corse a visitare la nazione delle alte cime, dei ghiacciai e delle cascate, dei laghi e della democrazia, degli alpeggi e delle “persone autentiche” che valeva la pena di conoscere e d’incontrare nei vari cantoni. Ci si trovava davanti ad uno dei segni più evidenti del tramonto dell’egemonia urbana e della ricerca, soprattutto attraverso la villeggiatura, di grandi spazi di libertà, del contatto con la natura “in presa diretta”. La sedentarietà veniva vista con diffidenza, era sinonimo di perdizione, corruzione mentre l’avventura del viaggio, della scoperta di un orizzonte più largo esercitava un fascino irresistibile. Fino alla grande depressione del 1929, il turismo fu in ogni caso un fenomeno per pochi. Erano gli aristocratici a conoscere e praticare l’arte del savoir-vivre e del saper viaggiare. Basta vedere il profilo del turista-tipo del 1800 per rendersene conto. Scorrendo i resoconti dei bollettini delle stazioni turistiche che, nella loro compilazione, riportavano l’elenco delle nazionalità e delle professioni si comprende come il fenomeno turistico era composto per un buon 80% da nobili ereditieri, da un 15% formato da rappresentanti del clero, ufficiali e uomini di legge e, in ultimo, da un restante e modesto 5% di commercianti e banchieri. A metà del XIX secolo fecero la loro comparsa le grandi collane di guide e i “tascabili” conquistarono il mercato. E, guarda caso, sia l’inglese “Murray” sia la tedesca “Baedeker” e la francese “Joanne” esordirono con un volume sulla Svizzera. La montagna “chiamava” i più arditi a praticare l’alpinismo, un fenomeno che appassiona e travolge. Nell’arco di una generazione, dopo la fondazione dell’Alpine Club nel 1857, gran parte delle vette delle Alpi furono conquistate. Due categorie di persone che amavano le “quote alte” s’incontrarono: gli alpinisti, una minoranza, e i villeggianti che, a valle, osservavano, commentando. Col passare degli anni ci si chiese se non potesse essere la montagna, d’estate, a surrogare la funzione del mare d’inverno, quella di “far prendere dell’aria buona”, contemplare i panorami e rimettersi in forma. A metà dell’800 una pattuglia di intraprendenti albergatori delle Alpi, soprattutto in Svizzera ed Austria, ma anche sul versante italiano, riuscì ad attirare una buona clientela promettendole la bellezza del soggiorno in montagna, godendo il sole e l’aria frizzante, senza rinunciare ai comfort. Nascono così le prime stazioni climatiche e, verso la fine del secolo, si sviluppa una nuova usanza: il breve soggiorno in montagna dopo la cura termale.
vetta alla Gnifetti dove oggi si trova il rifugio intitolato alla memoria della sovrana, oppure occuparsi dell’alloggio e del vitto di quella clientela. I poveri, quando si mettevano in viaggio, lo facevano per necessità alla ricerca di un lavoro che non riuscivano a trovare in loco. Il vocabolo vacanza, semplicemente, non apparteneva al loro lessico. Né da un saggio efficace, in uno dei periodici “Racconti d’estate” pubblicati dal quotidiano “La Stampa”, Mario Rigoni Stern. Per lui e la sua generazione, bambini e adolescenti negli anni ’30 del ‘900, la vita trascorreva sui banchi tra l’autunno e la primavera e nei campi, coadiuvando gli adulti nei lavori agricoli, in estate. Il servizio militare, persino la partecipazione di Rigoni Stern al secondo conflitto mondiale, consentì allo scrittore di fruire di “licenze” trascorse non nell’ozio ma, ancora una volta, nei campi. Anche il periodo postbellico non mutò sostanzialmente questo tenore di vita spartano. Fino a quando, ormai passati i quarant’anni, per festeggiare il primo contratto firmato con una casa editrice si concesse alcuni giorni in un alpeggio poco sopra casa, sull’altipiano dei Sette Comuni. Ma anche in quel caso Rigoni Stern aiutava l’alpigiano con la mungitura, coadiuvandolo nella confezione del formaggio, cuocendo la polenta. La prima vera vacanza, al mare di Puglia ormai raggiunta una certa notorietà letteraria, nel Racconto d’estate di Rigoni Stern arriva praticamente alle porte della pensione. Ci fu invece chi, come il verbanese Nino Chiovini, partigiano e scrittore, che le vacanze scolastiche ebbe la fortuna di farle, già negli anni ’30, nel paese d’origine della famiglia a Ungiasca, in valle Intrasca. Ecco l’affresco che, delle estati dell’infanzia e dell’adolescenza, tracciò in “Ungiasca perduta” (pubblicato nel fascicolo n. 9 di Verbanus, edito nel 1988). “Mi piacque – racconta – fin dal principio passare le vacanze estive a Ungiasca. In quanto ad amicizie, problema importante per un ragazzo fuori sede, le circostanze mi consentirono di tenere il piede in due staffe.
L’avvenimento non sfuggì ai quotidiani nazionali, che ne diedero ampio risalto.Con la teleferica, dopo gli anni ’20, iniziò l’era degli impianti di risalita meccanica. Lo ski-lift sganciabile fu inventato nel 1935 da Pomagalski. Esplose la moda in un vero e proprio “boom” nelle regioni alpine: lo sci, a tutti i livelli, diventò il tratto di unione tra turismo e montagna. Tra il Verbano e il Cusio il Mottarone venne preso d’assalto grazie alla sua collocazione geografica che consentirà di ribattezzarlo con il nomignolo di “montagna dei milanesi”. Macugnaga e Formazza diventarono le due perle della discesa e della disciplina nordica del fondo. In generale i centri che abbinavano vacanza e sport si moltiplicarono in ragione dei profondi cambiamenti per gli sciatori che erano sempre più attrezzati a percorrere piste veloci, grazie alle risalite più agevoli. Ci volle ancora un po di tempo per far diventare il turismo invernale un fenomeno di massa anche perché i costi non serano del tutto agevoli. Negli anni cinquanta il costo di una settimana bianca per quattro persone era pari a uno stipendio medio mensile ed erano ancora delle élite a praticare questo tipo di vacanza. Ma l’attrazione fu tale da rendere fragile anche questa barriera. Nacquero a quel tempo le stazioni in alta montagna, si costruirono strade e alloggi, si instaurò una forte competizione anche nei prezzi e nell’offerta ricettiva. E il turismo montano diventò una radicata – e praticata – realtà. Questo processo fu più lento e complicato in una realtà come quella del VCO, all’estremo nord del Piemonte. Per molto tempo il turismo si era sviluppato attorno ai grandi alberghi del lago, alle ville patrizie, a villeggiature più modeste. E anche dopo il secondo conflitto mondiale resistette per anni un turismo povero, spesso di giornata con l’utilizzo generalizzato di mezzi pubblici. Ad esempio le ferrovie Nord di Milano, il traghetto Laveno-Verbania Intra, la ferrovia Intra-Premeno.Oppure la strada ferrata del Sempione sulla tratta tra Milano e Stresa, il trenino a cremagliera che saliva dalla “perla del lago Maggiore” fino alla vetta del Mottarone. O, ancora, in treno fino a Domodossola da lì con la ferrovia Vigezzina fino alle Centovalli e Locarno in Svizzera.