Ha detto una volta Federica Bertino: “Mentre il lavoro che faccio sulla fotografia e sui disegni mi spinge all’organizzazione, allo studio, alla necessità di inquadrare un’opera in ogni suo momento di nascita e di svolgimento, il lavoro della pittura è quanto di più casuale ci possa essere”. Un ordine messo a confronto con quello che può sembrare un disordine, un’avventura che non sai dove possa portarti. Da un lato la cognizione prestabilita, vorremmo quasi dire il geometrico, la regola, l’imposizione fredda, dall’altro la libertà, la suggestione prepotente, il racconto inventato, il caldo ardito ma rassicurante del colore. Sono i pensieri che immediati ti tornano alla mente non appena entri nelle sale del MIIT di corso Cairoli 4 dove Federica sta esponendo (sino al 6 gennaio), Federica Bertino. Emozioni è il titolo della mostra, da un lato le fotografie (i ricordi dei suoi viaggi) e i disegni (per tutti, una parte della raccolta Disegni per Nives, del 2009, con cui vinse il primo premio del pubblico a “Grafò” l’anno successivo) e gli acquerelli dai tratti morbidi, dalle dimensioni contenute. Dall’altro la presenza forte, importante, felicemente prepotente delle sue tele, dalle grandi dimensioni, queste masse di colore – pastelli a olio e acrilici – che invadono le stanze, moderni affreschi su tele bianchissime pronte a essere riavvolte una volta terminata la mostra e riposte negli scaffali dello studio, sulle colline dell’Astigiano.
Sono immagini costruite sulle emozioni, sul sentimento dell’attimo (Mi devi rassicurare), sulla lacrima e sul sorriso, su di una spinta istintiva che irrompe; ma anche sulla riflessione, su di un pensiero protratto a lungo, sulla realtà trasfigurata. Bertino, come perdendosi in quei colori che riempiono la tela, gioca con la fiaba (giunge persino a servirsi di titoli che provano a lambire il ritornello pubblicitario o la narrazione fumettistica, In questo bosco è nascosto il mio amore, con quel piccolo cuore giallo difficilmente rintracciabile dentro un oceano di blu e verdi e intermittenze violacee), con la natura innocente e da salvaguardare, nella sua unicità e nella irruenza (uno degli angoli più belli e convincenti della mostra è quel Ruscello dorato che attraversa in obliquo la tela e fregandosene di ogni misura sembra inoltrarsi sul pavimento della sala d’esposizione), con i tanti animali che qua e là compaiono (strappa un sorriso al canguro rappacificato o laicizza il messaggio francescano, Laudato si’, 2017, con A noi due – 132 x 185 cm – invade la tela di animali, quasi immersi in un sogno chagaliano), con il verde che favolisticamente (ma neppure troppo) fatica a riscoprire una manciata di serenità (I giardini di Roma, 2018 o La luce te la devi cercare del 2014), laddove pare che le invasioni e le fasce di colore diventino ancora più presenti, in questa necessità della natura di affermarsi; e ancora si pone di fronte alla realtà, al mondo con cui ci ritroviamo ogni giorno a confrontarci, alla Storia da cui una umanità impoverita si vede sconvolta, trafitta, insanguinata – “quasi un reportage sulla società contemporanea”, sottolinea il curatore Guido Folco -, e qui maggiormente t’accorgi di quanto il tratto sia forte e trascinante, drammatico, di quanto voglia reclamare una ribellione, una propria personale ribellione. Nascono – sono opere recenti, datate 2018 – Pace in Siria e Pace a Gerusalemme, di grande impatto visivo, dove ancora una volta i colori e le grandi dimensioni accrescono l’emozione, il pathos dell’immagine e del ricordo, dove l’artista s’immerge e maggiormente si svela, lanciando simboli a chi guarda (una colomba bianca, una sagoma umana imperfetta) in una decifrazione dell’opera che in Federica non si visualizza mai al primo istante. L’esplosione di emozioni e di colore che è sulla tela non si tramuta soltanto in un “quadro ben fatto”, è qualcosa di molto più personale, un viaggio intimo, vuole essere una partecipazione, la consapevolezza di quanto “posso fare io” per quella pace che il mondo da anni va inseguendo.
Nel discorso che Federica Bertino ha proseguito, verso il mondo asiatico e i suoi conflitti, intorno alla Storia, bene ieri si era inserita quell’opera, Maelbeek, del 2016, che rimane una delle prove più convincenti dell’artista, un’opera che non era stata la risposta immediata, dettata dalla rabbia e dallo sconforto, ad un atto delittuoso, ma che aveva dovuto attendere alcuni mesi per essere realizzata, come a lasciar decantare l’orrore, l’insulto, i corpi martoriati, il sangue, il pugno nello stomaco: e la partecipazione anche, fortunatamente della durata di poche ore, ma disperata, dal momento che in quella prima mattina del 22 marzo di due anni fa, nell’attentato alla metropolitana di Bruxelles, il secondo vagone che sta viaggiando tra le stazioni di Maelbeek e Schuman e rimane sventrato, trentadue morti di tredici nazionalità diverse, sarebbe potuta esserci sua nipote, come ogni altra mattina, per il tragitto verso la scuola. Cinque mesi e Federica, scaricata dello choc, delle incertezze, del terrore, pone sulla tela una grande tela di 370 x 210 cm, quei corpi che paiono l’appendice moderna e altrettanto dolorosa della “Guernica” picassiana, accumulati sulla sinistra, uniti in quella richiesta d’aiuto che ha il proprio simbolo in quel braccio levato, al centro, rossastro. Al di sopra, come in un vortice dantesco, tre corpi ricercano un angolo di pace: e l’artista non solo fissa sulla tela la frantumazione di quei corpi, la tragicità di quelle morti, ma se ne fa interprete, vive l’accaduto, cerca l’immedesimazione con le vittima, in un momento di grande maturità e di passione, capace di renderci appieno quella disperazione che troppo spesso avvolge certi angoli del mondo.
Elio Rabbione
Le immagini
“Mi devi rassicurare”, acrilici e pastelli ad olio, 2014
“ Pace in Siria”, acrilici e pasteli ad olio, 184 x 210 cm, 2018
“Pace a Gerusalemme”, acrilici e pastelli ad olio, 166 x 208 cm, 2018