Il generale Perotti avrebbe cantato “Bella Ciao”?
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Non ho nulla contro “Bella Ciao“, un motivo orecchiabile che però ha ben poco da spartire con la storia della Resistenza italiana, come dimostrano tre autorità in materia, lo storico ufficiale della Resistenza Roberto Battaglia, lo storico della canzone popolare Michele Straniero e il giornalista- partigiano Giorgio Bocca che sostennero la marginalità della canzone durante la guerra partigiana
Bocca scrisse di non averla mai sentita cantare durante il suo partigianato. Ha acquisito notorietà attraverso l’ Anpi dopo la guerra e caratterizzò i partigiani garibaldini. Ebbe anche fama internazionale attraverso il festival della gioventù di Praga durante il periodo staliniano. La vera canzone della Resistenza e’ “Fischia il vento“ composta dal medico partigiano Felice Cascione, medaglia d’oro al Valor Militare che fu eroico capo partigiano in Liguria che adatto’ un testo ad una musica russa. Anche questa canzone divenne identificativa della Resistenza garibaldina. “Bella ciao“ appartiene ad un ‘altra storia m, precedente alla Resistenza (le mondariso) e si lego ‘ dopo la guerra all’Anpi.
Ne’ la Fiap ne’ la Fivl l’hanno mai adottata. Fiap significa partigiani azionisti, Fivl significa Cadorna, Mauri, Taviani e tanti altri valorosi volontari per la libertà non comunisti. La Resistenza non fu solo rossa, ma fu plurale nella partecipazione, ad esempio, di tanti militari, dall’eroico Gen. Giuseppe Perotti all’avvocato Valdo Fusi che rischio’ la fucilazione al Martinetto e che è autore del più bel libro sulla Resistenza. Mai Perotti o Fusi avrebbero cantato quella canzone. Il rispetto per la storia manca del tutto a quei parlamentari che vorrebbero imporre per legge il canto “Bella ciao“ dopo l’Inno nazionale in occasione delle cerimonie del 25 aprile. Già di fatto l’Anpi, che monopolizza tutte o quasi le cerimonie – complici i sindaci anche di centro – destra -ha imposto il canto di quella canzone , ma renderla obbligatoria per legge e’ un abuso e un’offesa a tutti i volontari della Libertà di altro orientamento politico. E’ una cosa che fa pensare a quando nel 1925, l’anno del fascismo divenuto regime, venne imposto il canto di “Giovinezza” dopo la Marcia Reale. Anche in quel caso il fascismo si impossessò di una canzone non storicamente sua, ma l’idea di aggiungere qualcosa all’Inno nazionale e’ di per se’ sbagliato in linea di principio e se poi ci riferiamo all’Inno di Mameli, inno patriottico di matrice repubblicana e democratica , “Bella ciao “ appare un’appendice divisiva di una parte politica del tutto non giustificata. A nessun vecchio e vero partigiano venne mai in mente una proposta del genere. Il vecchio Arrigo Boldrini presidente nazionale dell’Anpi , non avrebbe mai dato retta a proposte stravaganti del genere. I comunisti erano duri nelle idee , ma erano persone serie. Lo storico Battaglia ne e’ stato la dimostrazione, ma non certo solo lui. La storia va rispettata e l’Inno nazionale che ha una nobile matrice risorgimentale , non va confuso con altri canti, come il tricolore e’ unico e non appaiabile se non alla bandiera europea. Credo si tratti di una proposta elettoralistica – che si richiama alla signora Boldrini , intollerabilmente faziosa – ma sicuramente incompatibile con la storia migliore del Pd. L’idea di imporre di cantare in coro e’ di per se’ una scelta poco democratica, come dimostra la storia non solo italiana. E’ un qualcosa che evoca il conformismo, per usare un eufemismo gentile, e spezza quella solidarietà antifascista tricolore che e’ alla base della vera Resistenza.
Inviato da iPhone
Il referendum del ‘46 secondo il romitiano Fornaro
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni Il quotidiano “La Stampa“, sempre più lontano dal giornale fondato da Frassati e sempre più vicino all’”Unità“, ha recensito con enfasi compiaciuta il nuovo libro dell’on. Federico Fornaro di Leu che compare spesso nei Tg, ma quasi mai viene intervistato. Il libro, edito da Bollati – Boringhieri, è dedicato al referendum del 2 giugno 1946 tra Monarchia e Repubblica. E il quotidiano, di proprietà del neo cavaliere del Lavoro Elkann, lo ha definito come la dimostrazione dell’assoluta regolarità di quel referendum che ha suscitato da sempre dubbi e polemiche
La liberazione di Brusca e la polemica sui pentiti
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni La liberazione del mafioso Giovanni Brusca dopo 25 anni di carcere ha sollevato un mare di polemiche. E’ responsabile di oltre cento omicidi efferati che suscitano ribrezzo e riprovazione morale e sociale. E’ stato un killer spietato, fedelissimo di Totò Riina, ma è stato anche un collaboratore di giustizia, anche se non è chiarissimo il suo apporto in questo ambito
2 giugno, 17 marzo o 4 novembre?
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
I 75 anni della Repubblica hanno portato a dare particolare enfasi alla festa del 2 giugno che l’anno scorso di fatto non si poté svolgere
Dei giornali sono usciti in edizione speciale, pubblicando articoli mitizzanti e poco storici, come la distanza dal 1946 avrebbe imposto. I discorsi grondanti di retorica hanno preso il sopravvento. Ho trovato sobrietà di linguaggio e rigore storico negli ambienti mazziniani, i più titolati a festeggiare la nascita della Repubblica che il grande genovese aveva propugnato con inimitabile slancio morale.
Ho sentito dire da un’alta carica dello Stato che personalmente stimo molto, che il 2 giugno è il compleanno della nostra Patria, parola in disuso riscoperta per l’occasione. Ciampi a cui si deve il ripristino del 2 giugno, mai si sarebbe abbandonato ad una affermazione così azzardata. Ciampi aveva il senso della storia e sapeva bene che la Patria italiana e’ nata con il Risorgimento il 17 marzo 1861. Postdatarla al 1946 e’ storicamente aberrante perché la storia di un popolo non conosce cesure e anche le parti considerate negative fanno parte della sua vita e non possono essere cancellate. Ma c’è anche chi considera che la nascita dell’Italia unita risalga al 4 novembre 1918, quando dopo il Veneto (1866) e Roma Capitale (1870) l’Italia porto’ a termine il disegno risorgimentale con Trento, Trieste e i territori dell’Adriatico orientale. Ci sono diverse scuole di pensiero, tutte condizionate a considerazioni politiche differenti. Ci fu anche chi ritenne che la storia d’Italia sia iniziata il 25 aprile 1945 con la Liberazione e la fine della guerra e del fascismo. Ciascuno tira acqua al suo mulino, ma far coincidere l’inizio della storia d’Italia con la nascita della Repubblica e’ una minchionata che non avevo ancora sentito. Bisognerebbe esortare, citando il Foscolo, allo studio della storia, ma con la scuola che ci ritroviamo, appare un desiderio impossibile. Nell’ignoranza storica generalizzata tutto diventa credibile e non suscita reazioni. Chi straccia le pagine della propria storia e crea delle ere (anche il fascismo ne creo’ una) tende a barare al gioco o dimostra di non capire cosa sia la storia.
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Quanto e’ capitato ieri a Roma non può passare sotto silenzio.
Il Presidente della Repubblica insieme ai presidenti di Senato e di Camera ha dovuto rinunciare all’ultima ora a scoprire la targa dedicata a Carlo Azeglio Ciampi per l’inaugurazione di una piazza in onore di uno dei nostri migliori presidenti. Avevano scritto Azeglio senza la g. Non è certo colpa diretta della Raggi a cui pure risale una responsabilità oggettiva. E’ colpa di un cerimoniale del Campidoglio inadeguato che deve controllare ogni particolare delle cerimonie in programma. Se poi c’è il Presidente della Repubblica i controlli devono essere potenziati. Anche il cerimoniale del Quirinale doveva controllare preventivamente. Ai tempi di Ciampi col Segretario Generale Gifuni non sfuggiva una virgola. Lo posso testimoniare personalmente per il lungo rapporto con Ciampi che ho avuto per sette anni. Anche con l’imprevedibile Cossiga c’era l’ambasciatore Berlinguer segretario generale che vigilava su tutto. Persino il segretario generale Maccanico “conteneva” Pertini, davvero allergico ai rituali, che finì per cacciare Maccanico che fece da capro espiatorio di un errore del Presidente. Roma è la capitale d’Italia, non una città di provincia. L’errore non va fatto pagare all’impiegato e allo scalpellino che hanno sbagliato. Vanno chieste le dimissioni del capo del Cerimoniale del Comune che ha dimostrato disinteresse ad una manifestazione che riguardava due presidenti. Il pressappochismo e’ arrivato a toccare anche cerimonie importanti riprese dalle Tv. L’episodio rivela un atteggiamento imperdonabile. A Torino con i sindaci prima della Appendino sarebbe stato un fatto impossibile. Cigliuti e Morelli a capo del Gabinetto del Sindaco controllavano tutto con scrupolo e persino con pignoleria. Come diceva il grande giurista Mario Allara, la forma è anche sostanza. Sarebbe interessante sapere quante sono le persone impiegate nei cerimoniali del Campidoglio ed anche del Quirinale. Anche nei piccoli episodi si possono cogliere particolari che rivelano disfunzioni non giustificabili. Esporre il presidente ad una brutta figura non è cosa facilmente giustificabile. Un grave precedente.
È morto il Duca d’Aosta
IL COMMENTO Di Pier Franco Quaglieni
Alla vigilia della festa della Repubblica e’ mancato Amedeo di Savoia duca d’Aosta, erede di un grande personaggio, l’eroe dell’ Amba Alagi, Amedeo di Savoia che morì a Nairobi, prigioniero degli Inglesi durante la seconda guerra mondiale, che ebbe l’onore delle armi dai nemici dopo una impossibile resistenza senza armi e senza viveri in Africa orientale di cui fu viceré Amedeo cercò di seguire le grandi tradizioni della sua Famiglia, a partire da Emanuele Filiberto , comandante dell’Invitta Terza Armata nella Grande Guerra, sepolto con centomila caduti al Sacrario di Redipuglia. Fece il servizio militare in Marina, giurando fedeltà alla Repubblica. Giovanissimo studente di liceo, nel 1964, partecipai a Sintra, in Portogallo, al suo matrimonio con Claudia di Francia, poi naufragato miseramente. Conservo nel mio archivio famigliare la fotografia con dedica del Duca insieme all’affascinante Claudia. Facevo la I Liceo classico ma mio nonno volle che ci ritrovassimo vicino al Re Umberto, zio dello sposo, che esprimeva la grande tradizione famigliare sabauda a cui la mia famiglia era indissolubilmente legata in pace e in guerra. Dopo la morte del Re Umberto II, ci furono maneggioni senza titoli di sorta che vollero “incoronare” Amedeo come capo della casa di Savoia ed erede al trono. Fu un’operazione squallidissima opera di un un preside pensionato che si illuse di essere arbitro niente meno dei destini di una dinastia millenaria. Mi rividi casualmente a cena con il Duca insieme al sedicente e compianto Conte Cremonte Pastotello. Mi accorsi che era in pessima compagnia, ma vidi lo stile del Duca, intatto nella sua eleganza aristocratica, nonostante tutto. Ritrovato in un ristorante torinese, lo salutai con effetto e devozione. Io voglio pensarlo oggi riappacificato con le beghe famigliari che suscitarono clamori anche mediatici inopportuni . Il capo della Casa Savoia e’ il legittimo erede Vittorio Emanuele duca di Savoia e principe di Napoli.
La scomparsa del Duca metterà la mordacchia anche alle sedicenti consulte create dall’ ex preside e ai suoi scarsi e vecchi sostenitori che pretesero di decidere l’ereditarietà ’ di una discendenza storica così importante. La morte di Amedeo mi rattrista molto perché quel ramo d’ Aosta fu rappresentante di una grande pagina di storia d’Italia che quando lo accolsi a Palazzo Cisterna di Torino, dove vissero i suoi Avi , volli doverosamente ricordare .Tra non molto ricorderemo la morte dell’eroe della Grande Guerra morto a Torino nel 1931 di cui c’è un monumento imperituro in piazza Castello. Potremo ritrovarci in piazza Castello a ricordare tutto il ramo – che al di la’ delle strumentalizzazioni dinastiche operate da piccoli uomini – ha onorato la storia d’Italia, al pari dei dimenticatissimi duchi di Genova, eliminati dalla toponomastica torinese da mano giacobina ed ignorante.
La Festa della Repubblica e il Milite Ignoto
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Oggi verrà’ celebrata la festa della Repubblica con un giorno in anticipo e il Milite Ignoto che venne inumato all’Altare della Patria, il Vittoriano, il 4 novembre 1921, cent’anni fa tra qualche mese.
Sarà il giornalista Paolo Mieli a parlare di due eventi che non hanno nulla che li leghi insieme. Il 2 giugno tra dubbi e polemiche anche aspre venne svolto il referendum tra Monarchia e Repubblica che a 75 anni di distanza dovrebbe indurre a una seria riflessione storica in cui venisse dato spazio anche alle ragioni di quei milioni di Italiani che votarono per la Monarchia.Il 4 novembre 1921 – in piena guerra civile che apri ‘ le porte al fascismo – l’Italia rese unanime omaggio al Milite Ignoto della Grande Guerra trasferito da Aquileia a Roma tra ali di popolo che si inginocchio’ al passaggio del treno con la bara del Milite Ignoto, simbolo dei Caduti in guerra. Un episodio miracoloso nel clima divisivo e violento del 1921. Non si sa invece nulla della ignobile targa che vorrebbero apporre sull’Altare della Patria in ricordo dei disertori. Sarebbe un gravissimo affronto che tante famiglie che ebbero combattenti e caduti nella guerra 1915 / 1918 non tollererebbero mentre gli eroi e i decorati al V. M. si rivolterebbero nella tomba. Sarebbe un’offesa evidente anche al Milite Ignoto. Vorremmo chiarezza. La confusione tra 2 giugno e 4 novembre non infonde certo un motivo di serenità e di fiducia. Chi si ritiene patriota, deve svegliarsi e dissentire apertamente da un modo di fare non limpido. La storia d’Italia lo impone. Credo che il Presidente Draghi capirebbe.
L’arcivescovo rosso
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
L’arcivescovo di Milano Mario Delpini in una intervista sostiene, con toni da crociata, la condanna dei ricchi e dei profitti, rivendicando un egualitarismo sociale che fa di lui l’esponente non tanto di un Cristianesimo sociale, ma di una visione comunistica fuori dalla realtà.
L’Italia sta uscendo lentamente dalla pandemia, anche se continuano ad esserci dei legittimi dubbi sul nostro futuro. Ma la situazione economica che le chiusure forzate hanno provocato, e’ gravissima. Gli imprenditori di tanti settori sono sull’orlo del baratro. E già i sindacati riattaccano con le loro rivendicazioni, senza neppure considerare la situazione in cui ci dibattiamo. E la ricetta di certi politici il cui partito è al governo, riprendono con la parola magica e demagogica di nuove tasse. Per non parlare di una nuova ,indiscriminata accoglienza dei migranti ,quasi l’Italia fosse in grado di farsi carico ulteriormente di questi problemi
L’ arcivescovo di Milano non faccia il politico e non si improvvisi economista. Non ne hai i titoli. Per ridistribuire il reddito, bisogna prima produrlo ed oggi è questo il problema che abbiamo di fronte .
Le diseguaglianze non sono di per se‘ un fatto negativo da condannare perché quelle fondate sul lavoro, sulla capacità di rischiare in proprio, sul merito individuale sono sacrosante e sono il motore dell’economia. Il profitto è l’etica dell’imprenditore perché, se non produce profitti, chiude e licenzia.
Il monsignore milanese dovrebbe leggere un po’ di Einaudi, un cattolico convinto e praticante che ritenne che solo il liberismo economico possa creare ricchezza. La via egualitaria fondata sulle tasse asfissanti garantisce la morte certa dell’economia.
Bisogna lasciare liberi tutti coloro che ne abbiano la voglia e le capacità, di intraprendere nel modo più libero. Sono dei benemeriti che cercano di non far affondare la barca Italia .Il grillismo in coma del reddito di cittadinanza è una palla al piede intollerabile che premia i fannulloni e non crea lavoro, togliendo risorse agli investimenti. Dall’Arcivesvovo di Milano mi attendevo una capacità di riflettere in concreto e una capacità di analisi diversa . Ricordo il Cardinal Montini, futuro papa, capace di discorsi mai demagogici e sempre meditati. Montini non era certo un reazionario, ma un uomo colto che sapeva usare la penna al posto della clava. Mi scuso per la durezza, ma alcune frasi del monsignore mi hanno indignato. Sto lavorando freneticamente ad un nuovo libro che uscirà prossimamente e non ho un minuto da dedicare ad altro, ma l’intervista di chi siede oggi sulla cattedra di San Carlo Borromeo, mi ha costretto ad interrompere il lavoro per esprimere il più fermo dissenso. Con quelle idee che spero Draghi respinga, l’Italia è destinata al sicuro fallimento.