RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA
Dörte Hansen “Al mare” -Fazi Editore- euro 18,50
E’ il terzo romanzo della scrittrice tedesca nata nel 1964 in un paese vicino a Husum, nella Frisia settentrionale; autrice poliedrica che ha studiato all’Università di Amburgo svariate lingue (incluse gaelico, finlandese e basco) conseguendo un dottorato in Linguistica. Inoltre ha lavorato come autrice per la radio e la stampa.
“Al mare” è un romanzo che fa venire voglia di andare alla scoperta del Mare del Nord, tanto è perfetto il clima magnifico, maestoso e struggente descritto in queste pagine. Raccontano il microcosmo di una piccola isola e i suoi abitanti che da secoli sfidano il grande gelo e le tempeste del mare. Lì non è possibile avere segreti, tutti si conoscono da generazioni e sanno ogni cosa l’uno dell’altro.
In particolare scopriamo la famiglia Sander che sull’isola vive da almeno trecento anni, nella casa diventata un prezioso scrigno di ricordi, cimeli e memorie di tanti uomini di mare.
Hanne Sander sull’isola ha cresciuto da sola i tre figli, dopo essere stata abbandonata dal marito Jens. Donna attivissima e indomita che coglie al volo l’occasione del progressivo cambiamento dell’isola che nei mesi estivi si trasforma in ricercata meta turistica.
Lei mette a disposizione la sua casa per i vacanzieri e li ospita nelle stanze dei figli. Inoltre si dedica alle attività del museo locale.
Sono affascinanti anche le personalità e i destini dei suoi 3 rampolli.
Ryckmer è un marinaio alle prese con l’alcolismo che lo ha fatto retrocedere da esperto uomo di mare di lungo corso nella plancia di una petroliera a semplice marinaio di coperta su un barcone adibito a pompe funebri. Lui riceve i parenti in lacrime per la perdita di una persona cara che ha scelto la dispersione delle ceneri al largo di quel mare freddo e inospitale. Le pagine più belle, malinconiche ed intense sono proprio quelle dedicate alle sepolture in mare delle quali Ryckmer è il sensibile e apprezzato cerimoniere. Inoltre conosce tutte le saghe leggendarie che ammantano l’isola di ulteriore fascino.
Poi c’è Eske, infermiera in una casa di riposo, donna infaticabile sempre al servizio dei più fragili.
Infine incontriamo Henrik, il più solitario dei tre, nuotatore esperto che ogni mattina raccoglie quello che il mare deposita sulla riva.
L’autrice ci conduce dritti al cuore dei personaggi, alla loro lotta per la vita, scandita dalle maree e dal crescente turismo, tra passioni e tragedie che lasciano il segno. Tutto ambientato in una natura magica oltre ogni dire.
Azar Nafisi “Leggere pericolosamente”
-Adelphi- euro 20,00
L’iraniana Azar Nafisi, 68 anni, scrittrice ed insegnante di Letteratura Inglese, è figlia della prima donna eletta in Parlamento, e dell’ex sindaco della capitale iraniana, che nel 1979 fu incarcerato dopo la salita al potere dell’Ayatollah Khomeyni.
Anche Azar si oppose al regime, rifiutò di indossare il velo, e nel 1977 fu cacciata dall’Università. Si trasferì a Washington dove oggi vive con il marito e i due figli, ed è diventata cittadina statunitense.
Con questo libro chiude il cerchio della sua quadrilogia che comprende il famoso “Leggere Lolita a Teheran” del 2004. Pagine in cui ribadisce il potere della letteratura contemporanea e sottolinea come leggere sia uno strumento indispensabile per resistere alla crisi della democrazia.
Ha recuperato le parole e le idee di alcuni autori a lei cari –da Platone a Salman Rushdie, da Tony Morrison a David Grossman – e lo ha fatto immaginando di scrivere 5 lettere al compianto padre, col quale aveva condiviso gli stessi valori. Fin da quando aveva 6 anni, si erano scambiati continue missive; abitudine proseguita fino alla morte del genitore. Ora sembra che il dialogo tra loro riesca a scavalcare persino il sonno eterno.
Sottesa a tutta l’opera c’è la convinzione della Nafisi che: «Leggere e scrivere mi hanno protetta nei momenti peggiori della vita, nella solitudine, nel terrore, nel dubbio e nell’angoscia. E mi hanno anche fornito occhi nuovi con cui guardare il mio paese di nascita e quello di adozione».
Sandra Petrignani “Autobiografia dei miei
cani” -Gramma Feltrinelli- euro 18,00
La giornalista e scrittrice Sandra Petrignani è una delle firme più prestigiose nel panorama italiano, ed ha un’eccezionale capacità: sa ascoltare le voci delle cose e delle case che «dicono sempre la verità su chi le abita».
Lei è strepitosa nel ripercorrere luoghi, interrogare oggetti, immedesimarsi, immaginare e rintracciare così i “fantasmi” letterari preferiti
Questo suo ultimo libro invece vuole essere l’autobiografia degli amati cani che l’hanno accompagnata nel corso della vita. Ma questo l’ha anche costretta a fare i conti con la sua esistenza, a partire dagli anni dell’infanzia, per arrivare a parlare a fondo della scrittura.
I compagni pelosi diventano spunto per mettere a fuoco la personalità e le esperienze dell’autrice.
Oggi splendida 70enne, ha al suo attivo tre matrimoni, un figlio, una nipotina e la dimensione di nonna. Si divide tra Roma e la casa di campagna ad Amelia, in Umbria, dove convive amabilmente con 4 cani; ma nel libro ne compaiono almeno 17.
Tante storie segnate da destini diversi e la morte tragica di due cani di cui parlare le è costato parecchio. Di fatto in ogni riga c’è molto di lei: i suoi amori, gli uomini, i tradimenti, la vita affettiva, i viaggi, i libri scritti e letti, le ricerche, le passioni, la maternità, i traslochi, gli abbandoni e le separazioni.
Emerge a tutto tondo l’autobiografia delicata e intrigante di una donna indipendente e realizzata, dall’intelligenza affilata e aperta, amante della solitudine che stempera con l’amore per il lavoro di scrittrice.
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La costante nella vita della Patrignani è la scrittura, con una predilezione per le biografie di grandi donne legate alla letteratura e ai luoghi in cui sono vissute.
Tra le sue opere consiglio soprattutto “La scrittrice abita qui” e “Marguerite”, viaggio sulle tracce della Duras (che l’ha portata in Vietnam, Cambogia, Normandia, in un’immersione totale nella vita della vincitrice del premio Goncourt).
Sandra Petrignani “Il catalogo dei giocattoli” -BEAT- euro 9,00
Poi vale la pena riscoprire questo libro in cui traccia la storia dell’infanzia ricordando i giochi e i giocattoli di quando era bambina. Tanti sprazzi di memoria tra ricordi struggenti di un tempo lontano, intriso di nostalgia per quell’età spensierata da fanciullina.
Pagine stupende con tanti capitoli snelli e divertenti, ognuno dedicato a un giocattolo. Excursus di un’epoca e oggetti che oggi magari non sono più in voga; ma che hanno accompagnato l’infanzia di generazioni passate per le quali la fantasia regnava sovrana delle ore ludiche.
Tenero è il ritrovare le ore trascorse con le prime Barbie comparse nel 1959, portatrici della rivoluzione intrinseca di un nuovo modello non più burroso e materno come i bambolotti che richiamavano al ruolo di mammine in miniatura. Le prime Barbie erano di tre tipologie essenziali legate al colore dei capelli (bionda, bruna e rossa): belle, ricche, indipendenti al confine tra l’infanzia e lo sbocciare di una nuova femminilità adolescenziale. Piccole donne che di fatto erano ispirazione per un futuro aperto su più ruoli femminili.
Nel libro anche meraviglie un po’ perse come i caleidoscopi, i primi trenini elettrici, i soldatini e il forte, ma anche gli indiani con cui trascorrere ore di svago. Cavalli a dondolo e case di bambola, corde con cui saltare e pistole giocattolo, pallottolieri e marionette….. Tanti balocchi che la Petrignani racconta in modo intelligente e piacevolissimo.
Non vi è dubbio che uno dei più importanti cantoni della civiltà contadina tra Sesia e Ticino, forse il più celebre, sia stato Dante Graziosi. Nato l’11 gennaio del 1915 a Granozzo , un borgo sull’acqua delle risaie all’estremo sud del novarese e al confine con il pavese lombardo, Graziosi fu medico veterinario, partigiano della divisione Rabellotti con il nome di battaglia di “Granito”, docente universitario di Igiene e Zootecnia all’Università di Torino, parlamentare della Dc per quattro legislature e sottosegretario in altrettanti governi, fondatore della Coldiretti novarese. Prima di dedicarsi alla narrativa fu anche autore di molti saggi scientifici di zootecnia. L’esordio letterario avvenne tardi, nel 1972 quando Graziosi ( all’epoca cinquantasettenne) fece rivivere con i racconti de La terra degli aironi la civiltà contadina che si era sviluppata tra le risaie della bassa novarese, narrando un mondo destinato al tramonto. Alla sua attività di veterinario dedicò nel 1980 il suo libro più famoso, Una Topolino amaranto, da cui venne tratto uno sceneggiato Rai. Nel 1987 pubblicò Nando dell’Andromeda, una saga padana al tempo delle mondine, della vita che si svolgeva sulle aie della bassa agli albori delle prime lotte sociali nelle campagne. Nando, il protagonista, è un camminante, uomo libero con l’animo del poeta. Al centro delle storie del “James Herriot italiano”, validissimo emulo del famoso scrittore e veterinario britannico, c’era il Molino della Baraggia di Granozzo dove l’autore, scomparso improvvisamente il 7 luglio 1992 a Riccione, era vissuto e dove sorge ora il centro sportivo di Novarello. Davide Lajolo ne descrisse il modo di raccontare sostenendo come potesse apparire all’antica, con una scrittura“che mette punti, virgole e sentimenti al posto giusto, che vibra e s’intenerisce nell’amore della sua terra, della gente, delle strade, dell’erba, della vita del suo paese, sia un riscatto dalla noia di certo burocraticismo politico, dalle formule e dalla corsa alle poltrone. È un ritornare a guardarsi allo specchio come uomo per ritrovare le caratteristiche di fondo di chi ha imparato perché si sta al mondo”. I suoi libri sono pubblicati dalla novarese Interlinea, casa editrice diretta da Roberto Cicala, che in occasione del ventesimo anniversario della morte di Graziosi propose Le storie della risaia, un volume che raccoglie i migliori testi dell’aedo della Bassa.
Questo suo romanzo d’esordio è dedicato alla storia d’amore tra il pittore e drammaturgo austriaco Oskar Kokoschka e la compositrice e scrittrice Alma Mahler.
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E’ sospeso tra terra e luna il romanzo dell’autrice e traduttrice italiana nata a Brooklyn nel 1984.
Più che da raccontare questo bellissimo volume fotografico è da sfogliare per trarre ispirazione e catturare idee geniali che trasportano i fiori dei vostri giardini o terrazzi all’interno delle stanze che amate.



Perché andare solo nelle grandi residenze sabaude, già viste e riviste, e non recarsi nei tanti castelli minori, storicamente meno importanti ma ugualmente belli e visitabili? In Piemonte si contano almeno un migliaio di castelli se si considerano anche quelli di cui restano poche tracce e qualche rudere. E tanti, tantissimi si trovano nella sola provincia di Torino. È di questi che ci parla lo storico e scrittore Gianni Oliva nel libro “Castelli piemontesi, la provincia di Torino”, vol.1, Edizioni biblioteca dell’immagine, arricchito da decine di illustrazioni di Pierfranco Fabris. Quando si parla di castelli del Piemonte, precisa l’autore, il rimando immediato è a Palazzo Reale, alla Reggia di Venaria, a Racconigi, Stupinigi, Rivoli, Moncalieri, Agliè, le cosiddette “residenze sabaude”. Ma proprio per l’abbondanza di materiale disponibile e per la notorietà dei siti, nel mio volume non parlo di residenze sabaude ma di castelli meno conosciuti, alcuni in buono stato e altri abbandonati e sopravvissuti solo in qualche torre o in qualche rudere perimetrale”. E allora lasciamoci trasportare dalla fantasia entrando in questi castelli e immaginiamo quel che accadeva tra quelle mura possenti, eventi piccoli o grandi, importanti o meno, un assedio, un delitto, un matrimonio, fantasmi, streghe, leggende, insieme ai personaggi che l’hanno abitato, i signori del luogo, marchesi, conti, duchi e sovrani. Gianni Oliva racconta di tutto e di più. Il castello di Montalto Dora, con il suo maestoso profilo medievale domina dall’alto il canavese e la Dora Baltea offrendo un colpo d’occhio favoloso a chi percorre l’autostrada Torino-Aosta. Troneggia come una sentinella nel tratto morenico-canavesano della via Francigena. Danneggiato nel Seicento dalle truppe francesi, dal maniero sono uscite alcune leggende romantiche raccolte e divulgate da Giuseppe Giacosa, lo scrittore canavesano amico di Pascoli e Carducci. Il castello di San Giorio, a pochi chilometri da Susa, che da un’altura sovrasta la valle della Doria Riparia, costruito nel XI secolo dagli Arduinici, marchesi di Torino, per motivi difensivi ma anche per incassare i pedaggi di transito lungo la via Francigena, a Susa, San Giorio, Sant’Ambrogio e Avigliana. Alla fine del Seicento il maresciallo Catinat lo fa distruggere ma aveva troppa fretta di arrivare ad Avigliana per far saltare in aria anche il castello del Conte Rosso, strategicamente ben più importante. Alcune parti della fortezza di San Giorio si sono quindi salvate anche se ne restano pochi resti, che si vedono bene dalla Torino-Bardonecchia, in particolare le mura merlate, parzialmente restaurate di recente. Ma restano anche misteriose memorie templari che appaiono all’improvviso tra i vicoli che salgono alle mura del maniero: croci del Tempio originali, per nulla consumate dai tanti secoli trascorsi. Qui, d’inverno, come accade anche a Giaglione e a Venaus, danzano gli spadonari incrociando le spade in una danza guerresca per cacciare i nemici, i saraceni di un tempo, e per propiziare la produttività dei terreni. Ma se ci spostiamo poco più lontano, a Reano, in bassa val Susa, tra la Dora e il Sangone, e se siamo fortunati, potremmo trovare una piccola parte del tesoro dei Templari nascosto nei sotterranei del castello. Almeno così racconta una leggenda del XIII secolo secondo cui il maniero sarebbe diventato un cascinale fortificato dell’Ordine dei Templari e in una sala sotterranea si troverebbe un tesoretto, in realtà mai scoperto. Tuttavia nei dintorni del castello è stato rinvenuto un anello d’argento in stile orientale risalente allo stessa epoca e forse appartenente a un cavaliere tornato dalle Crociate, un Templare oppure lo stesso Amedeo III, conte di Savoia, che scelse Avigliana come propria residenza e che nel 1147 partecipò alla seconda crociata. Il castello è oggi una proprietà privata e non si può quindi visitare “ma merita senz’altro una visita dall’esterno, scrive Oliva, la sua struttura e la tinteggiatura rosata lo rendono ben evidente nello scenario di boschi e prati in cui si staglia”. Il castello di Rivara ricorda i processi alle streghe del canavese nel Quattrocento mentre quello rinascimentale di Vinovo è strettamente legato alla nobile famiglia locale dei Della Rovere. Presidio militare, residenza nobiliare, manifattura di porcellane, collegio della Regia Università, il castello di Vinovo è di proprietà del Comune. Ma c’è molto di più da leggere nel libro di Oliva. L’elenco dei castelli è lungo e comprende i manieri di Avigliana, Ivrea, Masino, Mazzè, Piobesi, Piossasco, Rocca Canavese, Santena, Settimo Vittone, Sparone, Susa, Ternavasso e Malgrà di Rivarolo. Filippo Re


Robert Hardman è lo scrittore britannico esperto dei Windsor, biografo reale con una corsia preferenziale e che per questo libro ha potuto accedere agli Archivi Reali del castello di Windsor. Inoltre ha intervistato i membri della famiglia reale e altre persone autorevoli, come i primi ministri del regno di re Carlo III.
Il titolo è provocatorio ma è anche quanto si potrebbe evincere dall’analisi sociale e politica svolta dal giornalista e scrittore Antonio Caprarica, uno dei massimi esperti delle vicende reali britanniche dopo anni come corrispondente Rai a Londra.
Il sottotitolo recita: «Dentro la famiglia reale: tra rivalità, segreti, vendette, si gioca il futuro della monarchia». L’autore Omid Scobie è stato royal editor per “Harper’s Bazar”, ha collaborato con tv e da oltre 12 anni racconta la corona inglese. Da alcuni è definito «cheerleader di Harry e Megan» e in effetti il suo sguardo pende a favore dei Sussex.
Questo libro è stato pubblicato nel 2022 e la Brown compie un excursus sui passaggi che maggiormente hanno segnato le vicende della Corona. Risale alla morte della principessa Diana e arriva fino a quella della regina Elisabetta, concentrandosi su alcuni colpi di scena, rivalità e defezioni.
Ma di loro sappiamo proprio tutto? Faceva freddo quel mattino, lunedì 18 marzo 1314. Jacques de Molay, Gran Maestro dei Templari e Geoffrey de Charnay, precettore di Normandia, vengono condotti sul rogo e arsi vivi. Sulla Senna a Parigi, di fronte alla Cattedrale di Notre Dame, si spegne per sempre il sogno dei Templari. In realtà la loro rovina era già iniziata con una grande sconfitta militare a San Giovanni d’Acri nel 1291. I Mamelucchi, i nuovi padroni della Terra Santa, gettarono in mare gli ultimi crociati e uccisero i prigionieri feriti o troppo vecchi e le giovani donne furono violentate davanti a tutti. Era la fine dei cristiani in Palestina e di quel che restava del regno crociato. Ha un ritmo incalzante la saga dei Templari raccontata da Marco Salvador e Matteo Salvador nel libro “Storia dei Cavalieri Templari”, Edizioni Biblioteca dell’Immagine. Entrambi con la passione della ricerca storica ed esperti di strutture difensive, dai castelli medioevali alle fortificazioni degli ultimi conflitti mondiali, narrano le gesta dei Cavalieri tra vittorie sul campo e sconfitte, dai primi vagiti dell’Ordine del Tempio alla conquista musulmana di Acri passando per la disfatta di Hattin nel 1187, la perdita di Gerusalemme e la presenza di Federico II in Terra Santa. Ma il libro comincia dalla fine, dalla morte sul rogo degli ultimi templari. Gli ultimi giorni, le ultime ore di vita dei cavalieri del Tempio in forma di cronaca. “Fin dall’alba era stata proclamata a Parigi la sentenza di morte e l’ora dell’esecuzione. Una folla si era radunata sulla riva della Senna, la pira era pronta e il cancelliere iniziò a leggere ad alta voce la lunga lista delle accuse di eresia, di sodomia e di adorazione ma il popolo non pareva ascoltarlo e gridava qua e là “sono innocenti”. Finita la lettura, il cardinale si mise davanti al Gran Maestro dei Templari e chiese: “avete qualcosa da dire in vostra difesa?”. Jacques de Molay, l’ultimo Gran Maestro, non gli rispose ma si rivolse alla folla proclamando l’innocenza sua e di tutto l’Ordine. Li legarono al palo, il Gran Maestro chiese di recitare le preghiere e poi gridò: “ecco, ora sarò giustiziato e Dio sa quanto ingiustamente”. Dopo quelle parole si appiccò il fuoco alle fascine che avvolsero subito i due corpi.