La speranza non muore mai ma anche il 2018 per il mondo arabo si chiude senza buone notizie

Dal Marocco alla Tunisia si scaldano le piazze

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Sembra tornato il clima delle Primavere arabe del 2011 con nuove proteste popolari che sferzano il nordAfrica, dall’Egitto al Marocco, chiedendo democrazia, libertà, lotta alla corruzione e ai salari da fame, ma ben sappiamo che anche questa volta si tratterà di pura illusione

La speranza non muore mai ma anche il 2018 per il mondo arabo si chiude senza buone notizie. Anzi, le dittature arabe sono tornate più forti e repressive dopo il fallimento delle “Primavere”. Terrorismo, guerre infinite in Siria e nello Yemen, massacri e fosse comuni, la bestialità dei movimenti jihaidisti, gli attacchi ai cristiani e alle altre minoranze, il secolare scontro tra musulmani sunniti e sciiti che continua tuttora e, appunto, le dittature, come quella egiziana, che dopo aver cancellato i nefasti Fratelli musulmani, con il plauso dell’Occidente, calpesta i diritti umani e reprime sistematicamente oppositori e attivisti nell’indifferenza della comunità internazionale che finge di non vedere per difendere i propri interessi nell’area. Non c’è proprio nulla da salvare in questo Medio Oriente in profonda trasformazione. In Arabia Saudita, sotto il “riformista e modernizzatore” Mohammad bin Salman, giovane principe ed erede al trono, vero uomo forte del regno guidato dall’anziano padre, le esecuzioni sono raddoppiate. Tra il giugno 2017 e marzo 2018 sono state uccise 133 persone mediante decapitazione in piazza. La monarchia saudita è tra i primi cinque Stati al mondo per condanne a morte inflitte per terrorismo, violenza sessuale, rapina a mano armata e traffico di droga. Mohammad bin Salman, numero due del regime saudita, ideatore della guerra yemenita e ritenuto il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi a Istanbul è diventato un temuto dittatore, forse ancora più autoritario e tirannico degli ayatollah iraniani. Nell’Egitto del presidente al Sisi, alla vigilia del Natale copto del 7 gennaio, non accenna a diminuire il terrorismo islamista che cerca di destabilizzare il regime e mettere in ginocchio l’economia egiziana colpendo militari, forze di sicurezza e cristiani copti. L’attentato del 28 dicembre presso le piramidi di Giza, vicino al Cairo (4 morti per una bomba che ha fatto saltare in aria un bus turistico) era diretto contro il turismo egiziano, seconda fonte di entrate del Paese del Nilo. Si è trattato del primo attacco di estremisti islamici contro turisti stranieri da oltre un anno. Negli ultimi mesi c’è stata una ripresa del turismo ma il Paese resta molto lontano dai 14 milioni di turisti del 2010. Da decenni il gigante nordafricano combatte contro i terroristi nel nord del Sinai e nel governatorato di Minya dove il bersaglio preferito sono i cristiani. Corrono qualche rischio anche i turisti che affollano la zona del Mar Rosso. Nell’estate 2017 tre stranieri furono uccisi a coltellate a Hurghada mentre nel 2015 l’Isis rivendicò l’attentato che fece precipitare il velivolo con a bordo 224 turisti russi, sul Sinai, poco dopo il decollo da Sharm el-Sheik.

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Come sempre accade la risposta del governo è immediata e ampiamente pubblicizzata dai media per mettere in evidenza che il Paese dei Faraoni è costantemente sicuro e sotto controllo. Anche questa volta il governo egiziano di Abdel Fatah al Sisi è intervenuto drasticamente eliminando una quarantina di sospetti terroristi in diverse zone del Paese. Le misure di sicurezza attorno alle chiese del Cairo e delle altre principali città sono state rafforzate per il timore di attentati durante le festività degli ortodossi. Nel recente passato la minoranza copta è stata duramente colpita da gruppi di estremisti islamici e molti degli attacchi alle chiese si sono verificati durante le principali feste come il Natale o la Pasqua. I cristiani, in gran parte copti ortodossi, sono una minoranza pari al 10-15% del totale della popolazione. Fra il 2016 e il 2017 alcuni gravi attentati hanno colpito la comunità cristiana. L’attacco ai pellegrini copti del 2 novembre scorso nella provincia di Al Minya, rivendicato dall’Isis, ha causato 11 morti ma i più gravi si sono verificati nell’aprile 2017, nel giorno della Domenica delle Palme, quando 45 persone furono uccise in due attacchi dei miliziani dell’Isis contro la chiesa copta di Tanta e la cattedrale di Alessandria. Non è solo la paura del terrorismo a incendiare nuovamente il Medio Oriente ma anche la rabbia popolare contro la crisi economica, l’aumento del costo della vita e della disoccupazione giovanile. E a scendere in piazza sono soprattutto i giovani egiziani, i tunisini e i marocchini per protestare contro il caro benzina e l’incremento dei prodotti alimentari, del gas, dell’acqua, della luce e del pane. A Tunisi, al Cairo, a Rabat, la rivolta si fa di nuovo sentire, otto anni dopo le Primavere arabe. L’ira dei tunisini è divampata a Kasserine dove un giovane reporter, rimasto senza lavoro, si è bruciato vivo, accendendo la collera di migliaia di tunisini. Con la disoccupazione al 30% e l’inflazione che sfiora il 10% i grandi passi in avanti compiuti dalla Tunisia verso la democrazia e le libertà fondamentali non sono ancora sufficienti a garantire stabilità al Paese africano. E come un anno fa, nel gennaio 2017, anche oggi, a otto anni dalla fine della dittatura di Ben Alì, la rivolta dei tunisini riesplode nelle strade con manifestazioni e proteste anti-governative. Il cammino democratico è troppo lento e le difficoltà economiche sempre più pesanti da sopportare. Ai leader al potere si chiedono condizioni di vita migliori. La “rivoluzione dei Gelsomini” ha causato troppe illusioni. Ne è convinto Ilario Antoniazzi, arcivescovo di Tunisi, secondo cui la democrazia non è un regalo o un’imposizione “ma è il frutto di un lungo cammino che qui ancora non abbiamo fatto. Se a livello di diritti in Costituzione non sono mancati passi in avanti l’economia è in grave difficoltà e a pagare il prezzo più alto sono i giovani e il sud del Paese già povero nonostante proprio da quel sud oggi dimenticato sia iniziata la rivoluzione”. Per i tunisini è passato nel frattempo un altro anno segnato da proteste, dal malcontento popolare e da una preoccupante ripresa del terrorismo. I giovani tunisini in questi otto anni dalla caduta del regime di Ben Ali hanno fortemente sperato di trovare posti di lavoro che purtroppo non si sono materializzati. Il popolo tunisino aspetta e spera ma nel frattempo il sogno del lavoro e del benessere tarda a realizzarsi. Ma è l’intero Maghreb a scuotersi e a chiedere di rispondere in modo concreto alla crisi economica. Tra il caos libico e un’ermetica Algeria dominata dall’esercito, dalla corruzione e dall’oppressione, anche il Marocco è sceso in piazza a chiedere l’aumento dei salari e, colpito per la prima volta dall’Isis nei giorni di Natale con la barbara uccisione di due turiste scandinave sui monti dell’Atlas, si è scoperto meno tranquillo e stabile.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”