Il vincitore della prima edizione Gabriele Pappalardo racconta la sua esperienza

Torino Factory: il contest di cinema che promuove i giovani talenti

Dopo un brillante esordio torna al gLocal Film Festival Torino Factory per promuovere la creatività dei più giovani. Il contest, dedicato a opere a tema libero di tre minuti, ambientate in una delle otto circoscrizioni torinesi, è rivolto a filmmaker under 30 con lo scopo di metterli in relazione con la città e valorizzare la vocazione cinematografica della regione
Le otto troupe, selezionate dal direttore artistico Daniele Gaglianone, proseguiranno il percorso mettendosi alla prova nella realizzazione di cortometraggi, girati nei quartieri torinesi guidati da tutor esperti, che saranno presentati al prossimo Torino Film Festival. Domani alle 14.30 al Cinema Massimo verranno riproposti i lavori premiati della passata edizione: Tempo critico di Gabriele Pappalardo e Solo gli occhi di Emanuele Marini e verranno proiettati gli otto corti finalisti della 2° edizione: Gli scarafaggi di Marco De Bartolomeo e Navid Shabanzadeh; Hic sunt leones di Davide Leo, Giorgio Beozzo, Stefano Trucco e Fabrizio Spagna; La ragazza cinese di Guglielmo Loliva; /mà-dre/ di Stefano Guerri; Manuale di Storie del Cinema di Bruno Ugioli e Stefano D’Antuono; Scheletri di Fabiana Fogagnolo e Luigi De Rosa; Selene di Sara Bianchi; The song di Tommaso Valli, Andrea Cassinari e Virginia Carollo. Abbiamo incontrato il vincitore della prima edizione di Torino Factory, Gabriele Pappalardo, studente dei linguaggi cinematografici al DAMS classe 1995. Un background interessante quello di Gabriele che, appena maggiorenne, fonda a Savigliano, dove è nato, l’associazione B612 Lab allo scopo di promuovere la cultura sul territorio e progetti legati alle politiche giovanili e allo sviluppo socio culturale della comunità. Nonostante la giovane età ha già le idee chiare. Si definisce un realista, la sua aspirazione è quella di raccontare storie vere, ma non con lo stile didascalico del documentario, ma usando codici cinematografici, meccanismi inediti e creativi dello storytelling. Ed è quello che è riuscito a fare nel suo primo lavoro, il cortometraggio Tempo critico, che è stato premiato durante la serata di chiusura del Torino Film Festival 2018 con la seguente motivazione “Perché racconta con onestà, profonda partecipazione e con consapevolezza drammaturgica uno spaccato di vita, in tutte le sue sfaccettature: la condizione familiare e sociale, l’inventiva e l’intraprendenza, le aspettative per il futuro”.  La macchina da presa segue le vicissitudini e i discorsi di due ragazzi nati e cresciuti nei palazzi popolari, le Torri, delle Vallette. Luca vive con la nonna e per sbarcare il lunario taglia i capelli a casa propria alla gente del quartiere, Fazza, più filosofico, riflette sul senso della vita, sul desiderio di avere una vita normale, una famiglia. Ma il tempo è “critico”, in tutte le sue accezioni. Critico nel senso di difficile perché mancano punti di riferimento, famiglie solide che sappiano indicare ai protagonisti una via, il modo di affermarsi che qui, per forza di cose, viene a coincidere con l’istinto di sopravvivenza. E “critico” deriva anche dalla parola greca “krísis” che significa scelta, decisione. “Cosa fai quando non c’è via d’uscita?” si interroga uno dei personaggi, cioè quando le situazioni degenerano in modo irreversibile, quando il tempo si ripete uguale a se stesso finendo per attorcigliarsi su se stesso e collassare in spazi claustrofobici che non lasciano scampo? Un lavoro molto interessante per contenuti e stile. Nonostante la macchina da presa segua i ragazzi ovunque con la tecnica del pedinamento, di zavattiniana memoria, ai giardinetti, in casa, sui muretti e perfino sul tetto, indugiando sulle loro spontanee e disarmanti conversazioni e improvvisazioni rap, non si percepisce uno sguardo esterno. Ci sembra di essere accanto a loro e per questo sembra impossibile tranciare giudizi stereotipati su un mondo lontano da noi, una città invisibile, sommersa, dentro la città. Gabriele ci ha svelato che per ottenere questo effetto di naturalezza per il quale ad un certo punto non si avverte la presenza della macchina da presa, ha creato prima un contatto umano con i ragazzi, con il quale ha ottenuto un senso di fiducia e abbandono da parte loro. Per lui non è stato difficile empatizzare con Luca e Fazza perché in quella panchine della periferia ha riconosciuto un po’ la sua provincia odiata e amata, perché prigione e famiglia allo stesso tempo come per i suoi personaggi. Ma il rischio, ha raccontato il giovane videomaker, era quello di empatizzare a tal punto da confondere il ruolo di regista con quello di confidente e non rappresentare più uno sguardo esterno ma parte del quadro. Non è stato facile anche perché si è lasciato guidare più dalle suggestioni dei personaggi che da una sceneggiatura vera e propria, ma ci è riuscito grazie anche alla sapiente guida del tutor Enrico Giovannone che lo ha saputo indirizzare in fase di montaggio. Il lavoro sembra un estratto di un lavoro più ampio e articolato, perché in pochissimi minuti intravediamo quel senso di spaesamento, precarietà e solitudine che accomuna un po’ tutte le periferie, che tendono ad assomigliarsi nel loro essere universi paralleli. È incoraggiante cogliere negli occhi di ragazzi così giovani la curiosità nei confronti del prossimo, la voglia di raccontare mondi nascosti, realtà meno attraenti ma cariche di spietate verità e poesia.

Giuliana Prestipino