Di Marco Travaglini Non saranno sempre le “chiare, fresche e dolci acque” della famosa poesia del Petrarca ma restano (e sempre di più saranno) il principale oggetto del desiderio per tanta parte dell’umanità. “Acqua, tu non hai sapore, né colore, né aroma. Non si può nemmeno descriverti. Ti si beve senza conoscerti. E non è vero che sei indispensabile per la vita: tu stessa sei la vita” .
Così scriveva, con senso premonitore (morirà nel Mediterraneo, inabissandosi con il suo aereo) Antoine de Saint-Exupéry, autore de “Il Piccolo Principe”. La parola acqua, di per se, “suona” bene. Suscita, senz’ombra di dubbio, sentimenti positivi. Chi può negare che l’acqua è il presupposto insostituibile per una vita sana e l’elemento in assoluto più importante? Allo stesso tempo, c’è il rovescio della medaglia.
Infatti, l’acqua può significare anche grande dolore, minaccia, paura. Basta pensare alla siccità, alla mancanza d’acqua, all’inquinamento delle falde, per non parlare di alluvioni, frane e smottamenti. Dunque, l’acqua è vita ma può anche rappresentare la morte. Da sempre l’acqua porta in sé questo potenziale contrario: maledizione e benedizione. Il 71 % della superficie terrestre è coperta da acqua. Il 97% di questa massa d’acqua è composto da acqua salata. Del rimanente 3% la maggior parte è irraggiungibile, imprigionata nelle calotte polari, in profonde falde, in ghiacciai e nuvole. Meno dello 0,5% è disponibile come acqua dolce potabile ed è distribuito in maniera estremamente ineguale sul globo. L’acqua è insufficiente in molti paese. E’ così in Israele, India, Cina, Bolivia, Ghana. Ma anche in Canada, Messico e Stati Uniti. Le guerre dell’acqua non sono più un prevedibile evento del futuro. Sono già una realtà. Che si tratti del Punjab ( la “terra dei cinque fiumi”, nell’ovest dell’India) o della Palestina, spesso la violenza politica nasce dalla competizione per appropriarsi delle scarse e vitali risorse idriche. Molti di questi conflitti sono “sotto traccia”, poco visibili. Chi controlla il potere preferisce mascherare le guerre dell’acqua, facendole apparire come scontri etnici o religiosi, anche se in realtà le regioni lungo i fiumi sono per lo più abitate da società pluralistiche che presentano una grande diversificazione di gruppi umani, lingue e usanze. “Le guerre dell’acqua“, come ci raccontava nell’omonimo libro l’economista indiana Vandana Shiva , premio Nobel per la pace nel ’93, sono il volto peggiore della silenziosa deregulation e della
E cresce sempre di più. Il 70% del consumo di acqua dolce ricade sull’agricoltura intensiva, il 20% sull’industria e solo il 10% sull’uso privato (in Europa: 26% agricoltura, 53% industria e uso privato 19%). L’esplosione demografica e lo spreco d’acqua fanno ridurre in modo drammatico le riserve d’acqua. Diversamente dal petrolio, gas o uranio , l’acqua e l’aria sono le uniche risorse che non si possono sostituire in alcun modo.
L’ONU prevede che tra cinque anni, nel 2025, due persone su tre soffriranno per la drammatica carenza d’acqua. Soprattutto in Africa, Asia, Medio Oriente. Le riserve idriche di 17 paesi, falde comprese, sono già allo stremo, ma la crescente domanda di acqua e i cambiamenti del clima aggraveranno la situazione. E’ evidente che le riserve d’acqua dolce, di fatto insostituibili, sono da annoverare tra i beni maggiormente in pericolo. Da anni sono in corso accesi dibattiti sulle riserve idriche. E qui entrano in gioco anche le montagne. Più di metà della popolazione mondiale dipende dall’acqua che sgorga dalle montagne. Le montagne sono i “serbatoi d’acqua” e rivestono un ruolo chiave nel ciclo globale dell’acqua. A titolo di esempio sono circa cinque i milioni di persone che dipendono dal rifornimento di acqua proveniente dal Lago di Costanza. E si tratta, a tutti gli effetti, di acqua delle Alpi. Quest’ultime rivestono per l’Europa una funzione centrale nel rifornimento. Qui nascono importanti fiumi come il Reno, il Rodano e il Po oltre a decine di importanti affluenti del Danubio. Senza questa massiccia immissione idrica il rifornimento d’acqua di grandi parti d’Europa sarebbe impensabile. Le acque interne e sorgive forniscono ,ad esempio, in Svizzera l’80% e in Austria addirittura il 99% dell’acqua potabile. “Disfa li monti e riempie le valli e vorrebbe ridurre la Terra in perfetta sfericità, s’ella potesse”. Quando Leonardo da Vinci scrisse questa frase, riferendosi all’acqua, il paesaggio alpino era pressappoco intatto da millenni. E fino alla prima metà del XX° secolo, valli, fiumi e laghi non erano che il risultato di fenomeni geologici, climatici e biologici. In pochi decenni tutto è mutato, quasi sempre in peggio. Con i loro oltre 13 milioni d’abitanti, sette Stati, 83 Regioni e 6.187 Comuni, le Alpi (che sono state definite “il bastione acquifero” d’Europa) sono sottoposte a una pressione ambientale senza precedenti. Oltre alla fitta ragnatela d’infrastrutture, pesa moltissimo il massiccio sfruttamento idrogeologico. “Nelle Alpi non esistono quasi più corsi d’acqua naturali”, denunciò qualche anno fa Helmuth Moroder di Cipra Italia, l’associazione che si occupa dell’ambiente dei paesi alpini. E aggiunse che “meno del 10 per cento dei fiumi è ancora in condizioni di naturalità”. Gli ultimi corsi d’acqua con almeno 20 chilometri non toccati dalla mano dell’uomo erano il Gail nella Lasachtal (Austria), il Metnitz e il Wimiz in Carinzia, la Stura di Demonte in Piemonte e l’Esteron in Francia. Ora la realtà è peggiorata. I grandi massicci fanno confluire enormi quantità d’acqua in un bacino di 143.000 km quadrati, attraverso il quale corrono verso le valli ben duecento miliardi di metri cubi d’oro blu. “La qualità delle acque alpine è potenzialmente eccellente, ma è sempre più minacciata dall’inquinamento e dalla cattiva gestione, che insieme causano danni irreversibili”, si legge ancora in un rapporto della Cipra. Un’altra grave minaccia è rappresentata dal riscaldamento climatico che interessa particolarmente le Alpi. Il manto nevoso e i ghiacciai non sono più quelli di una volta: rispetto al 1850 si sono già ridotti della metà. Tuttavia, le risorse d’acqua potabile delle Alpi sono ancora considerevoli. Tanto che fioriscono progetti di vendita e d’esportazione. Per quanto riguarda l’Italia, spesso sotto accusa sono le scelte dell’Enel, responsabile della maggior parte delle derivazioni che alimentano le centrali idroelettriche ma prosciugano i fiumi. Finora a poco sono valse le disposizioni legislative che obbligano a “liberare” l’acqua nei loro corsi naturali. “Se imponessimo il rilascio di un minimo deflusso”, secondo la Cipra, “la produzione d’energia elettrica ne risentirebbe, a livello nazionale, solo per l’1 per cento”. Viceversa, i benefici a livello ambientale nell’immediato e a breve periodo anche economico sarebbero innegabili. In una realtà come quella dell’alto Piemonte,dove la produzione dell’energia idroelettrica è un’attività più che secolare, questa situazione è particolarmente avvertita. C’è poi il problema dello spreco. Nei Paesi europei le perdite sono stimate in media intorno al 30 per cento e giungono fino al 70-80 per cento in alcune città. Soltanto il 2 per cento circa dell’acqua potabile è effettivamente utilizzato per il consumo umano. La stessa Convenzione delle Alpi finora non ha prodotto grandi risultati. Esistono direttive europee risalenti a più di vent’anni fa (nel febbraio 1998) che raccomandavano una “gestione integrata e sostenibile degli ambienti acquatici”. In Italia, la legge Galli del 1994 imponeva “il livello di deflusso necessario alla vita negli alvei…”. Analogo impegno veniva imposto dalla legge che istituiva le Autorità di bacino. Come sono andate le cose? Attualmente il 98 % della popolazione è servita da acquedotti con servizi spesso scadenti. Il 34% degli abitanti serviti non hanno acqua a sufficienza e il 44% non beve l’acqua del rubinetto.
Non parliamo di bazzecole: i problemi – e le opportunità – legati alla “economia dell’acqua” sono un fatto importante. Si va dagli impianti di regimazione alla gestione dell’acqua per usi potabili ai progetti idroelettrici per colmare il pauroso deficit (in Piemonte sfiora il 50%) d’energia elettrica in tutto il settore alpino, alla utilizzazione del diporto lacuale (l’alto Piemonte è anche la zona dei laghi Maggiore, Orta e Mergozzo, ai quali vanno aggiunti i canavesani laghi di Viverone, Candia e Sirio, quelli di Avigliana e altri minori) e a tutte le attività sportive connesse alla vita fluviale.Il sistema alpino produce quasi 50 miliardi di metri cubi d’acqua: un’immensa risorsa naturale che, almeno in parte, va trasformata in risorsa economica. Si tratta di sperimentare e di diffondere – accanto a modalità di consumo e distribuzione che puntino all’efficienza, al risparmio e al minor impatto ambientale possibile – modalità di produzione energetica incentrate sulle energie rinnovabili, che possono anche costituire delle filiere economiche “brevi”, come nel caso del legno. E’ necessario promuovere l’attivazione di progetti e di risorse ad hoc da parte del sistema pubblico degli Enti locali ( dalle Regioni in giù) , capaci di coinvolgere anche i privati. Nessuno può negare che sono “risorse delle montagne”, ma è un fatto che alle montagne non ritorna praticamente niente. Le regioni del Nord-Ovest “producono” complessivamente almeno 30 miliardi di metri cubi d’acqua. Più della metà defluisce al mare inutilizzata. Ma la parte usata assume, presso i “consumatori finali”, valori interessanti. Dai pochi centesimi al metro cubo dei consumi agricoli si sale ai 45/80 centesimi per i consumi industriali e idropotabili, fino ai 200/300 euro al metro cubo nel caso si tratti d’acque minerali. Ci sono leggi regionali sul ciclo idrico (come quella piemontese) che stabiliscono in perecentuale un ritorno minimo alle comunità locali ( le ex-comunità montane, ad esempio) sul valore finale dei consumi idropotabili, utilizzando le risorse per rafforzare l’assetto idrogeologico “friabile” di molti territori. E così “usare” meglio l’acqua, affinché una risorsa “di tutti” serva davvero “a tutti”. Il lungo periodo di crisi economica e sociale ha determinato un forte incremento dell’utilizzo dell’acqua potabile, con la scelta dell’acqua di rubinetto per bere che è salita a tre quarti della popolazione. Un dato evidente, legato a una politica di “risparmi”, che emerge da una ricerca fatta qualceh tempo fa da CRA Nielsen in collaborazione con Aqua Italia, associazione che unisce le imprese che si occupano del trattamento delle acque primarie. Acqua che, dopo il referendum sulle risorse idriche del giugno 2011 ( in cui sono state abrogate le leggi che parlavano di una sua privatizzazione) sarebbe dovuta passare dalle società private al settore pubblico. Passaggio in gran parte non avvenuto a causa di ricorsi in Cassazione e al TAR, decreti legge e vuoti normativi. Così è stata in parte minata la vittoria del fronte dell’acqua pubblica nel 2011 che portò circa 27 milioni di persone a votare per il referendum sulla privatizzazione dell’acqua. Grazie a quel risultato l’acqua va considerata un bene pubblico ma nei fatti non si sono determinati dei concreti cambiamenti. In realtà l’acqua adesso costa di più , con perdite stimate in circa due miliardi e mezzo di metri cubi all’anno, vale a dire un buon terzo del totale. E con l’autorizzazione alla revisione delle tariffe, concessa già qualche anno fa dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico si sono visti degli aumenti sensibili nelle bollette ( il 3,9% in più nel 2014 , il 4,8% in più nel 2015, tanto per fare degli esempi). Con gli investimenti che sono rimasti fermi al palo e ora la prospettiva di una forte recessione dovuta alla diffusione virale del Covid19 e al rallentamento complessivo dell’economia, in una nazione dove si hanno dei picchi di dispersione dell’acqua distribuita pari al 50% nel sud e in cui il 15% della popolazione vive in zone prive di rete fognaria, il quadro è preoccupante. La lotta dell’acqua di tutti e per tutti, lungi dell’essere un tema marginale, è quanto mai attuale.